Christo e l’utopia dell’arte contemporanea all’epoca dell’isterismo collettivo
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Christo e l’utopia dell’arte contemporanea all’epoca dell’isterismo collettivo

Ma quindi, com’è stato “The Floating Piers”?

Parlare dell’installazione galleggiante di Christo potrebbe risultare ridondante o addirittura ossessivo dato che, almeno qui in Italia, è stato l’argomento più gettonato da magazine e quotidiani nelle ultime tre settimane.

 

 

Il punto però è che nella miriade di articoli che ho letto non sono riuscita ad imbattermi in una riflessione più approfondita sul significato dell’opera The Floating Piers e sulle conseguenze che un’installazione / evento di queste proporzioni comporta necessariamente, senza per questo schierarsi ‘politicamente’.

Ho letto articoli dai toni quasi violenti, venati a volte da una malcelata ignoranza nel giudicare le espressioni artistiche contemporanee; mi sono ritrovata di fronte a tesi complottistiche riguardo fantomatici piani malefici tra l’artista e i Beretta (proprietari della piccola Isola di San Paolo dove confluiscono due piers dell’installazione). Critiche sterili addirittura da parte di chi non solo non aveva ancora partecipato all’evento, ma che non aveva nemmeno intenzione di andarci.

Sul versante opposto vi sono vere e proprie apoteosi sull’operazione di Christo, nonché apoteosi di Christo stesso, tanto per non far mancare giochi linguistici a questo articolo. Sono stati scomodati Bataille e Deleuze — senza che in realtà se ne motivasse la presenza — pur di esaltare, più che elogiare, un evento che nonostante le ottime intenzioni e le tante qualità aveva un numero altrettanto elevato di difetti.

 

 

Senza chiamare in causa filosofi di fama internazionale, l’obiettivo di questo progetto è permettere a chiunque, in modo del tutto gratuito e senza vincoli di prenotazione, di camminare sulle acque del Lago d’Iseo tramite tre pontili, due dei quali conducono ad un’isoletta unicamente costituita da una villa privata e per questo solitamente inaccessibile. L’intento è assolutamente chiaro, lineare, quasi banale in quanto le cosiddette ‘passerelle’ (meglio pontili galleggianti) sono esattamente ciò che dichiarano di essere. Non ci sono trucchi o inganni: l’unica metafora ammessa è quella cristologica — sempre che ci si voglia far due risate.

E del resto lo stesso sito ufficiale dell’evento offre ai curiosi spiegazioni tanto sintetiche quanto esaustive.

Camminare sui The Floating Piers è innanzitutto un’occasione: l’opportunità che l’artista ha voluto democraticamente (e utopisticamente) concedere a tutti di immergersi in un percorso sensoriale, a tratti magico — o mistico, solo per i credenti — per raggiungere alcuni tra i siti paesaggistici più belli che l’Italia possa vantare.

Questa opportunità si trasforma però in un evento, dal momento che, come tutte le installazioni di Christo, anche questa ha avuto vita per un tempo limitato. E chissà che non sia proprio questo il famoso limite dal quale sono poi scaturiti tutti gli altri.

Non sto proponendo dei pontili permanenti, sebbene non siano assolutamente dannosi per l’ambiente, al contrario di quanto sostenevano i soliti detrattori che già gridavano al disastro ambientale senza essersi precedentemente informati. Oltretutto mantenere in modo permanente l’installazione significherebbe per prima cosa farle perdere il suo carattere di opportunità e dunque di evento. Ma è proprio l’evento in sé ad aver fatto degenerare la situazione.

In una società in cui mettere “parteciperò” a qualsiasi evento più o meno mondano presente su Facebook — e non sempre nella realtà — è diventato uno dei must per chi vuole apparire una persona particolarmente social, dare vita ad un avvenimento così grandioso comporta inevitabilmente delle ricadute, se non dei fallimenti.

 

 

Lontana dalle pretestuose polemiche su Christo, che è un artista che apprezzo e ritengo elegante sia nei contenuti che negli aspetti più propriamente grafici, non intendo criticare la nobile idea del progetto, piuttosto la sua realizzazione e le conseguenze sulla percezione dell’opera e dell’evento stesso.

Il clima di isterismo collettivo generatosi a partire da un mese prima dell’inaugurazione, e che è disperatamente aumentato nel corso delle settimane, è stata la principale conseguenza del cosiddetto evento, ma anche la principale causa dell’errata fruibilità dell’opera.

Una transumanza: mandrie di carne arrossata sotto il sole cocente di fine giugno, tra continue perdite di conoscenza e ambulanze impazzite; neonati nei passeggini con la pelle arsa, bambini che perdevano di vista i propri genitori e genitori che litigavano fino all’esaurimento; piedi gonfi nell’acqua lacustre e il continuo spazientirsi degli uomini della sicurezza; megafoni che urlavano pubblicità e promozioni, eventi su eventi, e megafoni che urlavano ordini: non sostare, non bagnare, non toccare, non respirare.

Fila per prendere il treno, fila per accedere ai piers, fila per prendere l’ennesima — e vitale — bottiglia d’acqua, fila sopra i piers, fila per i bagni chimici (perché nei bar erano tutti ‘fuori servizio’), fila per tornare indietro, fila per riprendere l’agognato treno di ritorno.

Dov’è il piacere o la semplice tranquillità? Se questi pontili galleggianti sono appendice della strada, la loro naturale estensione verso l’irraggiungibile che diventa miracolosamente democratico, allora tradiscono pienamente il loro scopo.. sempre ammesso che non ci trovassimo catapultati nelle affollate strade di qualche grande città dell’India, o nel centro di Pechino nell’ora di punta.

Insomma, dove finisce la sana curiosità e dove inizia lo sciocco fanatismo?

Il selfie da pubblicare su Facebook è sempre d’obbligo.

A proposito, su Kolektio si possono ammirare le decine di migliaia di foto più o meno poetiche, più o meno trash, che gli utenti che hanno scaricato l’applicazione possono condividere con il resto del mondo.

 

Una delle foto dei visitatori raccolte con l’app Kolektio ed esposta alla mostra su Christo a Brescia

 

Foto alle quali sono state dedicate ben due sale nel museo di Santa Giulia a Brescia, nell’ambito della discreta mostra su Christo, a cura di Germano Celant. Mostra dal solo intento catalogatore data la totale assenza di un qualsiasi apparato critico: didascalie al limite del sintetico, fredde e impersonali, anche nella sezione di approfondimento sui water projects. Un mistero per i non esperti d’arte contemporanea o per chi semplicemente si approcciava all’opera di Christo per la prima volta. Ma va anche detto che eravamo meno di una decina perché un selfie fatto alla mostra vale decisamente meno di uno fatto sui lunghi tappeti arancioni.

Eravamo talmente pochi che c’è stato anche un momento di socializzazione con una signora tedesca di mezza età che di fronte alla fotografia del Wrapped Reichstag ha voluto confidarsi e raccontare i suoi commoventi ricordi di lei e sua madre in una Berlino ancora in (ri)costruzione, ma animata dalle sorprendenti installazioni di Christo.

Tralasciando questi rari attimi di tranquillità e di sincero scambio con chi davvero ama l’Arte, vorrei ritornare sulla questione della fruibilità di quest’evento, perché in molti siamo stati su quei piers bollenti (quasi 1 milione e mezzo di persone), in molti abbiamo scattato foto e abbiamo atteso con ansia l’istante magico di posare i nostri piedi su quel sentiero fluido, morbido, accogliente ma anche straniante. Ma nessuno ha parlato di come un evento che sarebbe dovuto essere intimo e collettivo allo stesso tempo si sia trasformato in realtà in una sudata migrazione di anime perse da una sponda all’altra all’interno di un lago.

L’aspetto collettivo di questa esperienza è esploso spersonalizzando l’installazione e il suo pubblico. Pubblico che, nella maggior parte dei casi, alla domanda su come sia stato, vi risponderà con un placido: “Bello, bello.. però stancante”.

 

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Ma cosa c’è stato di bello in questa carneficina? Forse è stato bello per i pochi fortunati che appena dopo l’inaugurazione hanno potuto camminare sui piers semideserti sia di notte che di giorno, oppure per gli esegeti di Bataille e Deleuze che hanno avuto accesso all’opera due giorni prima dell’apertura.

I The Floating Piers sono il fallimento dell’utopia di un’arte contemporanea la cui poeticità deve necessariamente fare i conti con quelle che sono le esigenze reali e funzionali dello spazio in cui viene accolta e delle caratteristiche sociali del pubblico che ne fruisce. Può sembrare un discorso banale, ma cosa ce ne facciamo di tanta bellezza se poi il più gretto dato materiale ci impedisce di goderne nel modo corretto?

Sulla carta è un’idea encomiabile quella di Christo, poetica, visionaria; ma anche le architetture di Superstudio (di cui tra l’altro si può vedere una bella mostra al MAXXI) erano visionarie, meravigliose nella loro follia, ma non per questo sono state mai realizzate.

Poi possiamo parlare a lungo su quanti benefici in senso più strettamente economico quest’installazione abbia portato al territorio del Lago d’Iseo; possiamo fare discorsi melodrammatici e velatamente populisti sul perché ci volesse proprio Christo (un artista straniero, per giunta!) a farci riscoprire le bellezze naturali del nostro Paese.

Ma dobbiamo anche fare i conti, a mio modesto avviso, con quella che è stata l’esperienza in sé perché l’opera di Christo è l’esperienza: «Tutti i lavori miei e di Jeanne-Claude sono lavori artistici di gioia e bellezza. Lo facciamo per noi stessi, sono cose completamente inutili, non necessarie, sono solo opere d’arte. E come in tutti i nostri lavori ci deve essere vita, nel senso che non è virtuale [..]». (Fonte: Corriere della Sera)

 

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Adoro le parole che Christo pronuncia in questa breve video intervista, e adoro quando si sofferma sull’inutilità, sulla sfacciataggine di un’inutilità che in quanto tale acquista bellezza.

Sui The Floating Piers però non c’era bellezza, ma un inaspettato disagio, un turbamento non previsto che influisce sulla percezione e che in alcuni casi può essere maggiore del godimento. C’è lo scontro di un’idea con la sua realizzazione, che proprio nel momento in cui viene vissuta perde parte del proprio significato in un violento e fulmineo auto-annientamento.

Il momento più emblematico di tutto questo è stato raggiungere l’isola di San Paolo — isoletta privata la cui superficie è interamente occupata dalla villa della famiglia Beretta — circondata per tutto il suo perimetro dai pontili arancioni. Era probabilmente questo il punto più importante: il raggiungimento di un suolo privato, finalmente ‘aperto’. E invece ci si trova di fronte ad una splendida roccaforte stretta in una trincea di mattoni e finestre oscurate da tende e pannelli. Tre guardiani che sorvegliano il perimetro della villa intimano senza sosta ogni turista di non avvicinarsi perché quello è suolo privato. Quello stesso suolo attualmente occupato dallo splendente telo arancione. Non credo ci sia altro da aggiungere.

Con quest’opera Christo ha messo involontariamente in evidenza uno dei problemi più caratteristici del linguaggio artistico contemporaneo che è prima di tutto la comunicazione e quindi la sua percezione da parte del pubblico, ma anche la creazione di veri e propri fenomeni (d’isterismo) collettivi secondo i quali l’importante è partecipare, ma senza capirne il motivo.

Giulia Pergola
Sono nata a Roma nel 1989. Laureata in Storia dell’Arte, prediligo le espressioni più contemporanee, sebbene il mio animo oscilli tra il razionalismo modernista e il perturbante postmoderno. Nutro un’insana passione per David Bowie da quando avevo otto anni. So alternare sarcasmo e demenzialità con estrema nonchalance.
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