La nuova performance di Jay-Z e Marina Abramović
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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La nuova performance di Jay-Z e Marina Abramović

Non è stata un granché.

Era il 1974 quando a Napoli la promettente Marina Abramović propose al suo pubblico una delle performance più ardite del suo percorso artistico: Rhythm 0. Preparò 72 oggetti su un tavolo in una stanza: oggetti di piacere (piuma, bottiglie, scarpe), oggetti di dolore (fruste, catene, martelli) e oggetti di morte (pistola, lamette) e per sei ore consecutive l’artista si privò delle sue volontà per mettere se stessa e il suo corpo a totale disposizione del pubblico che attraverso quei 72 oggetti poteva interagire con lei.

«Sul tavolo ci sono 72 oggetti che potete usare su di me come meglio credete:io mi assumo la totale responsabilità per sei ore. Alcuni di questi oggetti danno piacere, altri dolore».

L’origine della performance come mezzo espressivo è fatta risalire agli anni ’50, quando Hans Namuth, attraverso le sue fotografie, documentò la creazione dei lavori pittorici di Pollock.Da lì, il gesto che feconda il quadro diveniva più importante concettualmente dell’intera opera. E di fatto la performance, più di qualsiasi altra forma d’arte, ha contribuito alla dispersione del soggetto che si fa invece oggetto/opera d’arte.

Dopo una prima titubanza, la reazione del pubblico napoletano di fronte al corpo dell’Abramović poco si discostò dalle esplosive pennellate contro le tele di Pollock. I presenti si scatenarono distruggendo i vestiti indossati dall’artista, la denudarono, la ferirono, arrivarono ad un approccio che sfiorava la violenza sessuale. La situazione divenne incontrollabile: quello non era più un corpo umano, ma un oggetto. Finché non risultò necessario intervenire con un gruppo di protezione nel momento estremo della performance: nelle mani dell’Abramović venne messa una pistola carica che puntava sul suo stesso collo con un dito appoggiato sul grilletto.

Il percorso di indagine dell’artista riguardo l’interazione con il pubblico stava intraprendendo una strada non considerata che portava però anche ad importanti riflessioni riguardo la corporeità: senza possibilità decisionali, diveniva un corpo da usare come quei restanti 72 oggetti disposti sul tavolo. Esso poteva essere utilizzato fino ad essere deturpato senza nessun pentimento.

Giriamo le lancette dell’orologio fino ad arrivare al 2013, quasi 30 anni dopo la storica performance. Marina Abramović, che ormai si autodefinisce la grande madre della performance art, ha tenuto tre anni prima una personale al MoMa di New York durante la quale, per quasi tre mesi, l’artista è rimasta immobile di fronte ad un tavolo per incontrare il suo pubblico che si avvicinava a lei per tutto il tempo che voleva. La performance, diventata anche un documentario, The artist is present di Matthew Akers, viene ripresa nel 2013 dal rapper/produttore Jay-Z come spunto per il video della sua traccia Picasso Baby, un brano pieno di citazioni al mondo dell’arte e del business.

«Jeff Koons balloons, I just wanna blow up / Condos in my condos, I wanna row of / Christie’s with my missy, live at the MoMA / Bacons and turkey bacons, smell the aroma»

 


Il 10 luglio 2013 Jay-z rimane dentro la Pace Gallery di New York cantando Picasso Baby per sei ore consecutive in cui amici, star ma anche fan sconosciuti lo vengono a trovare. Il tutto ripreso, il tutto con il permesso dell’Abramović, che partecipa alla performance-videoclip come una madrina di battesimo.

Il quadretto che si mostra di fronte al pubblico è entusiasmante: l’arte contemporanea, secondo i pregiudizi distante e incomprensibile, e la musica pop, pop in quanto popolare, si incontrano e si amano.

Se non fosse che due giorni fa, un’intervista dello Spike Art Magazine all’Abramović rivela un’indiscrezione riguardo questo rapporto idilliaco. Perché l’artista di origine serba pare abbia tenuto un rospo in gola per circa due anni riguardo quella collaborazione:

«Il giorno prima delle riprese lui è venuto nel mio ufficio; io gli ho dato una presentazione Power Point di quello che avevo fatto e gli ho detto: “ok, ma tu devi aiutarmi perché ho davvero bisogno di una mano per quello che sto facendo”. Invece lui mi ha totalmente usata. E non è giusto. Molto diversamente da Lady Gaga, ad esempio, che ha fatto tantissimo per me. Già solamente per aver 45 milioni di followers, lei ha portato tanti giovani tra il mio pubblico».

L’aiuto che l’Abramović aveva richiesto al musicista americano, oltre a quello di diffondere la sua filosofia artistica per il bene comune (si spera), riguardava il suo Marina Abramović Institute, uno spazio/museo multifunzionale voluto dall’artista a Hudson e realizzato grazie ad una campagna su Kickstarter nella quale hanno contribuito alla raccolta fondi più di 4.000 persone. L’aiuto di Lady Gaga, a cui l’artista si riferiva nell’intervista, non conta solo i followers, ma anche i 100.000 dollari donati dalla cantate all’istituto.

«Sono davvero incazzata per questa cosa, perché ha fatto un adattamento di un mio lavoro e l’unica condizione che c’era era che aiutasse il mio istituto. Cosa che non ha fatto. […] Alla fine è stato uno scambio a senso unico. E non lo farò mai più, questo lo posso dire. Mai. Sono stata davvero troppo ingenua per questo mondo. Era una cosa nuova per me e non pensavo che sarebbe andata così. È talmente crudele da non crederci. Me ne terrò ben lontana».

Le parole dell’Abramović non sono poi così fraintendibili: fa più male il mondo dello show-business che un lama che taglia la pelle. Per quanto le ferite ora appaiano più economiche e di visibilità che emotive.

Ma inaspettatamente, dopo queste forti dichiarazioni, a rispondere 24 ore dopo non è l’accusato rapper americano, ma il Marina Abramović Institute, che con un comunicato stampa dichiara: «Marina Abramović non era al corrente della donazione fatta due anni fa da Shawn “Jay-Z” Carter, quando recentemente ha concesso un’intervista a Spike Art magazine in Brasile. Ci scusiamo sinceramente sia con Marina Abramović, sia con Shawn “Jay-Z” Carter per l’accaduto e da subito abbiamo preso ogni misura per appianare la questione.»

Solo un equivoco dovuto a una mala comunicazione tra enti e fondatori o una grande performance non programmata che mette in luce un’arte troppo corrotta dal desiderio di affermazione economica e non più concettuale? Perché come scriveva Anna Detheridge, l’arte della performance, a metà strada fra teatro e vita, ma diversa dal teatro per la sua formula aperta, incompiuta, “pericolosa”, rappresenta la volontà di accogliere l’esistenza e le sue incognite. E temiamo che proprio quest’aspetto abbia colto di sorpresa l’artista Abramović, che sembra aver compreso troppo bene che di questi tempi il valore dell’arte è dato solo dal prezzo di vendita.

E così a spettacolo terminato, il pubblico non sa più chi interpreta il ruolo dell’artista ma quel che certo è che a meritare gli applausi sembra essere il rapper e non la star Abramović.

Elena Fortunati
Nasce in un paesino della provincia romana nel 1988. Laureata alla magistrale in Storia dell'Arte contemporanea all'Università di Roma La Sapienza, ha collaborato con Collater.al, Dude Mag, Vice e Inside Art. Sotto lo pseudonimo aupres de toi, lascia dal 2011 nel web immagini fotografiche. Fonda nel 2016 contemporary.rome.
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