Il Regno di Giovanni Lindo Ferretti
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Il Regno di Giovanni Lindo Ferretti

L’essersi accaparrati uno degli emblemi di una certa sinistra (definitela poi voi), il Ferretti, esibirlo come un trofeo alla sagra di Fratelli d’Italia di Atreju è un salto di qualità di inestimabile valore visto il deserto culturale in cui sguazzano i nuovi camerati.

Ha quasi gli occhi impazziti, cambiano continuamente orizzonte senza mai trovarlo. Un sorriso a tratti demoniaco, insulso, senza senso. Il collo che sembra non spezzarsi mai, che ondeggia senza pace; il viso inerme eppure spavaldo, che vortica e s’aggrappa quasi alla camera, che mangia l’interlocutore. Se si è stati in passato innamorati di Giovanni Lindo Ferretti, della sua strampalata versione 2015 si può – o meglio, si deve – ignorare tutto (la sostanza delle sue parole, le sue attività artistiche, la vita che ha scelto) ma non i suoi gesti, i movimenti, loro no; tutte brevi azioni capaci in un attimo di raccontarci del suo limbo animato da tradimenti, circonvenzione di incapaci, deliri, rivalse e risentimenti, irate sensazioni di peggioramento si direbbe in Linea Gotica. L’amore che rimane sullo sfondo. Ciò che ci resta è uno sguardo colmo di pietà, certo, e di confusione ormai inestirpabile.

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Non si esagera, no. E poi di quel limbo Ferretti è l’apparente attore principale, ne è la marionetta, neppure recita, è solo sul palco e non s’accorge dei fili che lo trattengono. Inutile riepilogare, soffermarsi sulla scalata all’intimo così pubblico delirio dell’ultimo Ferretti: la malattia scampata, con Ferrara contro l’aborto, poi l’innamorarsi all’improvviso di Benedetto XVI, il ritorno a casa e il ritrovarsi vivo; tutti la conoscono e ne discutono, la schifano, la rimpiangono, la sua nuova vita culminata in un’intervista ad Avvenire, esaustiva nella sua freddezza: «dopo aver cercato il senso in mille modi senza trovarlo l’ho trovato tornando a casa. Al mio mondo di quando ero bimbo: i monti, il rosario». La nuova dimensione, quella antica.

Viviamo in un mondo che tutti continuano ostinatamente a dichiarare non più ideologico. E più lo ripetono e più ci accorgiamo del contrario. Vogliono mescolarsi e confondere le idee agli elettori. È in realtà la fiera delle ideologie, la retromania delle vecchie ottusità. Un revival psycho politico in pompa magna. E da che mondo è mondo la destra, che sia salviniana meloniana berlusconiana o martufelliana poco importa, vive e si nutre di simboli, di tradimenti, di rapide riconversioni, meglio ancora se si tratta di veri o presunti intellettuali, seppur di nicchia anticapitalista. L’essersi accaparrati uno degli emblemi di una certa sinistra (definitela poi voi), il Ferretti, esibirlo come un trofeo (eccola la circonvenzione di incapace) alla sagra di Fratelli d’Italia di Atreju è un salto di qualità di inestimabile valore visto il deserto culturale in cui sguazzano i nuovi camerati.

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L’edizione 2015 di Atreju (manifestazione annuale degli ambienti riconducibili all’ex gloriosa Alleanza Nazionale) ha come sottotitolo Terra Nostra (purtroppo non in onore dell’omonima telenovela) e ha avuto come ospite d’onore Giancarlo Magalli ai fornelli, un Masterchef in salsa nera, questo per fare un quadro generale della situazione. Ma il patatrac si è materializzato quando Ferretti, appena dopo aver ricevuto un premiuncolo dalle mani entusiaste della Giovane Meloni, ha illustrato – intervistato dal Fatto Quotidiano – per l’ennesima volta il suo nuovo pensiero. In sintesi non si sente in colpa per la sua conversione alla destra più clericale e ottusa (anzi «mi sento in colpa con tanta gente che oggi è qui ed è stata costretta a vedere i miei concerti alla festa dell’Unità»), e dopotutto «il pubblico è intelligente e si può apprezzare una persona anche se le idee non combaciano». Alza poi il tiro: «lo straniero è straniero, uno Stato che non protegge i confini e non pensa ai suoi compatrioti non è uno Stato». Tralasciamo le pagelle sui politici di destra, ma potete immaginarle. Dei tappeti rossi o giù di lì, pure Berlusconi ne esce bene dai nuovi ferrettiani ritratti italiani.

È giusto criticarlo per le sue scelte personali, politiche, religiose? Assolutamente no, o meglio, fate obiezione di coscienza. Ciò che sconvolge è il suo non comprendere di essere usato. Premessa: si possono condividere o meno le sue parole, rimane comunque inutile prenderle a pretesto per poi criticarlo come essere umano o come artista (e in questo i social media sono un’ottima accozzaglia di continuo risentimento nei confronti di Ferretti). Lo sa anche Magalli che bisogna separare l’artista dalle sue idee politiche (penso ai vari Frank Zappa, Sun Ra, Vincent Gallo, Micah P. Hinson, e tanti altri che non mi sovvengono ora). Rimane incomprensibile il suo farsi piccolo (di Ferretti, non di Magalli) all’interno di queste dinamiche che dovrebbe conoscere bene – non assecondare, chiamarsi fuori – e invece sembra perfettamente a suo agio, quasi disincantato. Qualcuno mi critica? «Sono menate», replica. Si mette in gioco ma non vuole essere criticato, “usato” dai suoi vecchi fan, dai puristi della prima ora per essere poi sputtanato. «Sono un vecchio punkettone», ripete con la parlantina scattosa, lo sguardo acidello, con l’impietoso montaggio che quasi pone sullo sfondo un assorto (dormiente?) Pupi Avati. E Ferretti che – chissà quanto inconsapevole – si fa conquista dei post fascisti. Perché questo va sottolineato: la discesa in campo di Giovanni Lindo. Le esternazioni, le dichiarazioni, gli endorsement rimangono relegati nella sfera delle opinioni personali, nel suo non essere più (lo è mai stato?) fedele alla linea, ma qui si diventa parte attiva, si fa campagna elettorale, si fa incazzare l’Italia punk filosovietica, si fanno i selfie con la Meloni, la Tavola Rotonda con Brunetta e che altro. Non si è più reduci, si diventa vittime. Si va alle Feste di Partito e si spara a zero sui migranti come farebbe un Geronimo La Russa ancora imberbe. E allora ti vengo cercare con la scusa di doverti parlare.

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Una delle qualità indiscutibili di Ferretti è sempre stata quella di saper dosare prima e soppesare poi, ogni singola parola, pausa, gesto. E se prima nella sua dialettica lenta accarezzata e rassegnata emergeva tutto il suo desiderio ancestrale, primitivo, vivo – il suo sentirsi rappacificato. Ad Atreju 2015 le parole di Ferretti si sommergono a vicenda, balbettano, sono frenetiche e piene di un livore difficilmente travisabile. Ferretti diventa bambolino nelle mani della giornalista del Fatto. Che lo stuzzica e lui che fa, si fa assecondare, si fa improvvisato portavoce della destra, perlomeno per un weekend. Eppure i suoi occhi tradiscono un’inconsapevolezza in questa riconversione. Non un «Che ci faccio qui»? Ma una quietezza della pantomima figlia della confusione, un lasciarsi andare offuscato nelle mani di chi ti sta usando. E se lo fanno da sempre, e tu sei da sempre Giovanni Lindo Ferretti e li conosci da sempre perché un tempo tuoi avversari, perché permetterglielo? Perché sei in un limbo o perché come ha spiegato esaustivamente Umberto Palazzo in un suo post su facebook al riguardo, sei sempre stato come loro. Essere un’immagine divina di questa realtà.

Cosa rimane di questa transustanziazione? Nulla se non il ricordo dei suoi live, soprattutto i più recenti. Quando canta Oh Battagliero («non lo salverà dal cero il suo lucido pensiero», cantava), Curami, Mi Ami?, Tu Menti, Amandoti. Dove trovare il coraggio di sentirsi quei testi, di ritrovarcisi dentro, anche solo il tempo di una canzone? Neppure la coerenza. E quasi viene scontato, mi scuserete visto quanto sarà inflazionata, citare A Tratti, il suo «non fare di me un idolo mi brucerò, trasformami in un megafono mi incepperò». È triste, certo, rendersi conto che oggi più di allora qualcuno – i post, neo, pre, i fascisti insomma – lo vogliono come megafono. Ancor più rovinoso è immaginarlo inanimato, acceso/spento, in quanto megafono: non pronto a dire quel che gli si dice di dire, magari no, ma sparare quando lo decidono loro. Sei in onda, Giovanni. Nessuno ti verrà più a cercare.

Federico Pevere
Nato in Friuli tempo fa, ora vive in Emilia. Scrive per Sentireascoltare e Nazione Indiana. Tifa per Beckett. Pensiero debole.
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