Inattaccabile
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Inattaccabile

Come fa la brutale comicità di Bill Burr a sopravvivere — e avere successo — in un’era di ipersensibilità e scandali?     «…Sentite che atmosfera strana che si è creata qui dentro» Bill Burr pronuncia spesso queste parole, un’espressione che, declinata in diversi modi, viene usata in numerose occasioni all’interno dei suoi special e […]

Come fa la brutale comicità di Bill Burr a sopravvivere — e avere successo — in un’era di ipersensibilità e scandali?

 

 

«…Sentite che atmosfera strana che si è creata qui dentro»

Bill Burr pronuncia spesso queste parole, un’espressione che, declinata in diversi modi, viene usata in numerose occasioni all’interno dei suoi special e apparizioni televisive, pronunciata quando il suo pubblico è talmente sfinito che non riesce neanche più a ridere, fischiare o applaudire e prevale un silenzio imbarazzante. Una frase che rivela da sola la natura profonda della comicità di chi è considerato uno dei più grandi stand-up comedian americani, se non il più grande, vista la forzata uscita di scena di Louis C.K.

La comicità di Bill Burr è brutale e disturbante, non nel senso intellettuale dello stesso C.K., ma in quello sovversivo e reazionario di George Carlin, figura a cui viene spesso accostato insieme a quella di Bill Hicks. Esaminando il suo stile e quindi, come si dice in gergo, la delivery delle sue battute, le sue punchline, gli argomenti affrontati e il modo in cui li tratta, spiccano tre elementi principali imprescindibili l’uno dall’altro che convergono nel formare un monolite di comicità tanto pericolosa e disturbante quanto apparentemente inattaccabile: rabbia, onestà e logica ferrea.

Ognuno di questi elementi ha bisogno dell’altro, perché altrimenti Burr rischierebbe di incorrere in denunce, manifestazioni di protesta e interrogazioni del congresso degli Stati Uniti per ogni parola pronunciata; o, al contrario, di risultare wack, ossia molle, poco mordace e interessante.

Il primo elemento che arriva all’ascoltatore è sicuramente la rabbia. Burr sembra parlare costantemente in uno stato di alterazione, con un tono di voce sempre sul punto di arrivare al limite, sempre sopra le righe e in un modo che ci fa pensare che forse siamo proprio noi il motivo della sua rabbia: ci mette all’angolo, costringendoci ad ascoltare attentamente ciò che ha da dire. Ovviamente questo è allo stesso tempo un elemento di comicità, soprattutto quando è applicato ad argomenti come i bambini, gli animali domestici e via dicendo; in contesti del genere quindi non è pericolosa, diventa solo la causale della comicità. La classe e unicità di Bill Burr stanno, però, nel suo rimanere uguale a se stesso in ogni situazione e in ogni argomento e, quindi, anche quando parla di violenza sulle donne, come nello spezzone sopra, il suo tono non si fa più pacato, anzi, forse è ancora più sopra le righe. È chiaro come, in un contesto di quel tipo, a quel punto la rabbia diventi un elemento pericoloso, facendo quasi allontanare il pubblico, rischiando di portare Burr sull’orlo del punto di non ritorno.

Ed è in quel momento che la logica e l’onestà fanno il loro ingresso. Perché, dopo l’affermazione «ci sono tanti motivi per colpire una donna», è ovvio che l’atmosfera si faccia tesa e il pubblico rimanga per un attimo con il fiato sospeso, cercando di capire quando arriverà la punchline o la smentita. Quello che Burr fa in questa occasione, ma a dire il vero è una schema che si ripete in quasi ogni sua routine, è semplicemente fornire un diverso punto di vista sull’argomento, che alla fine risulta essere abbastanza convincente: non è vero che non esistono motivi che possono portare un uomo a colpire una donna, anzi ce ne sono molteplici, solo non lo si fa perché non siamo animali, siamo esseri senzienti e non schiavi degli impulsi più bassi. In un colpo solo, Bill Burr riesce a schivare una pallottola pericolosissima e a nobilitare in qualche modo l’intero genere umano, fornendo tra l’altro — consapevolmente o meno — anche un punto di vista in qualche modo decisamente femminista: le donne non sono essere perfetti da mettere su un piedistallo, esenti da qualunque discorso sulla violenza di tipo fisico o psicologico, ma persone che, come il sesso opposto, sono capaci di azioni intense ed estreme e non è giusto porre degli assoluti come «non c’è motivo al mondo per colpire qualcuno» solo in base al genere di un individuo. Il pubblico è frastornato dall’onestà brutale intrinseca a queste affermazioni, così come è colto in contropiede dalla logica ferrea che c’è alla base del ragionamento che non permette di scomporsi in reazioni di totale contrasto o disaccordo.

L’audience si trova quindi in un limbo decisamente poco confortevole che scatena due tipi di reazioni, entrambe esilaranti per diversi motivi. Al minuto 1:28, cercando di avvalorare la propria tesi e stimolare il pubblico, Burr chiede alle donne in sala «Quante volte questa settimana avete pensato di prendere a schiaffi in testa quel cazzone del vostro fidanzato?»; dopo qualche secondo di imbarazzo, durante i quali la risposta è già nettamente percepibile nell’aria ma nessuno ha il coraggio di pronunciarla, una donna dal fondo del teatro grida, letteralmente a perdifiato, «Tutti i giorni!», sciogliendo la tensione che si era creata e facendo prorompere in una fragorosa risata tutti i presenti, permettendo anche a Burr di tirare il fiato. Altro esempio della maestria che Burr possiede nel riuscire a tenere il pubblico sotto il suo completo controllo è al minuto 6:10, quando, dopo aver chiesto perché dopo un atto di violenza non si possano chiedere spiegazioni sul comportamento tenuto dalla donna, oltre a quello dell’uomo, una ragazza risponde in modo poco sensato mandandolo in bestia, anche perché viene riconosciuta colpevole di essersi alzata poco prima durante la registrazione dello special rischiando di rovinare le riprese. La rabbia (sempre qui torniamo) con cui aggredisce la malcapitata è reale ma allo stesso tempo percepita come giustificata e come elemento comico, al punto che Burr chiude con un colpo da maestro dimostrando anche grandi capacità di improvvisazione: «Stiamo parlando di colpire le donne, dolcezza, e credo tu abbia appena aggiunto un’altra motivazione», una frase durissima ma comicamente geniale che infatti causa una standing ovation e risate sguaiate in modo uguale da parte di uomini e donne.

Nonostante questo stretto rapporto di Burr con il suo pubblico, la stand-up comedy è una forma d’intrattenimento, d’arte, nelle sue espressioni più intelligenti e convincenti, profondamente solitaria. Per antonomasia sul palco gli unici compagni di avventura dello stand-up comedian sono un microfono e uno sgabello, oltre alla scena spoglia e solitamente dominata da tonalità scure. La stand-up comedy è un po’ come il tennis: uno sport che si gioca fra due parti, ma che poi in realtà, se andiamo a vedere bene, è una lotta con se stessi, un continuo confrontarsi con il proprio io in un gioco snervante e sempre sul filo del rasoio, proprio come afferma il buon David Foster Wallace in merito allo sport di Wimbledon:

«Nel tennis il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico; è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io».

Come dimostra il breve estratto con cui ho iniziato questo articolo, però, una delle caratteristiche più particolari di Bill Burr è che ogni tanto si rende conto che sta affogando un po’ troppo in se stesso. Quando il pubblico comincia a stare zitto o mormorare imbarazzato Bill sembra ritornare alla realtà, spesso riprendendo letteralmente le persone in modo ironico, ma duro (esattamente come accade negli esempi sopra citati), come a dire «Ehi, vi ho fatto ridere fino a questo punto, ora non lasciatemi solo con me stesso e le mie opinioni impopolari».

Per continuare con la metafora tennistica, ogni affermazione bomba di Bill Burr, come quella dello sketch fin qui analizzato, è un pallonetto fatto per sorprendere il proprio avversario: Burr fa la sua mossa e non può avere la completa certezza che il colpo andrà a segno, rimangono tutti, lui e il pubblico, per un attimo col fiato sospeso, come quando aspettiamo di vedere se la corsa all’indietro del giocatore sarà vana oppure no. C’è da dire che la grandezza di Bill Burr sta proprio nelle sue traiettorie, che risultano quasi sempre vincenti.

Giulio Pecci
Classe ‘96, studia Lettere e Musica a La Sapienza di Roma. Scrive di musica e cultura, organizza concerti Jazz e cerca di trovare il tempo di suonare la chitarra. Alla costante ricerca del decimo a calcetto.
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