Storie scritte con i piedi: piccole riflessioni su calcio e letteratura
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Storie scritte con i piedi: piccole riflessioni su calcio e letteratura

Basteranno due nomi, due scrittori che hanno dedicato le loro pagina a questo sport: Nick Hornby, Eduardo Galeano.

Il gioco delle associazioni semantiche è un gioco che, per quanto aleatoriamente incerto, nella sua sostanza non sbaglia quasi mai. È un po’ come i detti popolari, alla fin fine qualcosa di vero o comunque verificabile c’è sempre. Se pensate al gioco del calcio, per esempio, tra le tante cose che vi saranno venute in mente sicuramente una non mancherà: il Sud America.

Sud America e calcio sono due elementi inseparabili che hanno sempre regalato spettacolo, eppure il gioco del calcio, per come lo conosciamo oggi, non è nato lì, ma molto più vicino a noi, in Inghilterra alla fine dell’Ottocento. E gli inglesi devono essere anche molto attaccati a questa storia che li coinvolge, e difficilmente sopportare l’usurpazione sudamericana. Se si considera, come è giusto considerare, la letteratura portatrice di significati che simboleggino anche dei modi di pensare e di vivere le cose, una riflessione su una piccolissima parte della letteratura calcistica sarà illuminante anche circa una concezione di calcio più generale.

Basteranno due nomi, due scrittori che hanno dedicato le loro pagina a questo sport: uno originario del Surrey, tifoso e perfetto rappresentante di tutto un modo britannico di vivere lo sport, Nick Hornby; l’altro invece proviene dal Sud America, dall’Uruguay che nella prima metà del Novecento faceva faville, ed è stato degno narratore di un calcio unico nel suo genere, si tratta di Eduardo Galeano.

 

L’ossessione a 90°

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Il celeberrimo libro di Nick Hornby Febbre a 90°, apparve in Inghilterra nel 1992 ed ebbe il non semplice ruolo, oltre ad altri meriti, di aprire le porte della riflessione sullo sport anche agli ambienti che, fino a quel momento, lo avevano un po’ snobbato (iniziando a regalare, tra le altre cose, discussioni molto profonde e sentite capaci di incrociare sport e cultura). Prima manifestazione di elementi ricorrenti nella scrittura di Hornby, il romanzo è la cronaca di anni di partite dell’Arsenal, squadra del cuore dello scrittore, tra il buon vecchio Highbury e gli stadi delle trasferte. Ciò che però si intende subito sulla passione calcistica di Hornby, che è un elemento che ne caratterizza tutta la storia, è la piega ossessionistica che essa assume. Il calcio non è solo un gioco, ma è il prototipo di un’altra dimensione della realtà, crudele («l’ho capito a undici anni che non avrei mai giocato per l’Arsenal. Undici anni sono davvero pochi per scoprire una così amara verità») e nello stesso tempo elitaria perché incomprensibile a chi non è tifoso. L’ attrazione verso questa giostra occupa le giornate sportive di Hornby, portandolo a spasso per l’Inghilterra, con il sole e con la pioggia, con il freddo e con il caldo, in condizioni fisiche più o meno ottimali e con tutti i rischi che il calcio inglese del tempo si portava dietro (per esempio gli hooligans prima che venissero addomesticati o esclusi dagli stadi).

Succede poi che anche le ricorrenze familiari passino in secondo piano, gli amici e il lavoro, tutto risucchiato in quel prato verde che diventa il vero orologio che scandisce la sua vita, con la funzione magica ristabilizzatrice di lenire le difficoltà (per esempio: «Credo siano molti i padri, in giro per il mondo, ad aver sperimentato il rifiuto più crudele, più spietato di tutti: i loro figli sono diventati tifosi della squadra sbagliata. Quando mi metto a considerare l’ipotesi di fare un figlio, cosa che mi succede sempre più spesso man mano che il mio orologio biologico si avvicina alla mezzanotte, mi rendo conto di aver davvero paura di questo tipo di tradimento»). Sembra quasi di trovarsi di fronte al non-luogo teorizzato da Marc Augè, nel senso che lo stadio unisce tutte le individualità che vi sono senza però farle rapportare e fa vivere, lì dentro, una vita staccata da quella normale di cui resta solo un lontano ricordo.

Hornby stesso si rende conto, pur non definendola come tale, di essere colpito da questa ossessione, quando si accorge di come usi il linguaggio calcistico in chiave metaforica per tanti avvenimenti della vita che con il calcio non hanno nulla a che fare («Il guaio dell’orgasmo come metafora, in questo caso, è che l’orgasmo, anche se ovviamente piacevole, è una cosa familiare, ripetibile e prevedibile, specialmente per un uomo: se stai facendo sesso, sai cosa sta per venire, per così dire. Forse, se non avessi fatto l’amore da diciott’anni, e se avessi abbandonato ogni speranza di farlo per altri diciotto, e poi, all’improvviso, del tutto inaspettatamente, si presentasse l’occasione… forse in queste circostanze sarebbe possibile ricreare con una certa approssimazione quel momento a Anfield») e quando realizza come qualsiasi brutto risultato della sua squadra gli procuri rabbia e addirittura dolore. Il godimento per uno scudetto non è un godimento passivo, ma una vera e propria estasi che non può uguagliare nessuna felicità altra.

Il libro di Hornby è un libro di un tifoso, trascinato dalle passioni che gli sono proprie. È del tutto assente (o quasi) la riflessione sul gioco in sé, inteso non come narrazione delle partite, ma come funzione popolare e addensatrice, opportunità di coinvolgimento di tutte le classi sociali. Ma forse sarebbe parlare di un calcio che non è più tale, un calcio che, come dice Hornby «è il gioco del popolo, e come tale cade nelle grinfie di tutta quella gente che non è, insomma, il popolo».

 

Il fenomeno popolare

splendori_miserie_galeano

Ciò che sono invece riusciti fare gli scrittori sudamericani (prendendo Galeano come esempio, ma un discorso in parte simile si potrebbe fare per Soriano) è quello di riportare sulla pagina scritta la vera essenza del calcio, ovvero ciò che non riesce a trasmettere Hornby, un’attività popolare, con tutta la naturalezza e semplicità di scrittura che caratterizza la loro prosa, capace di dare voce alla realtà mescolandola al sogno e alla magia. È chiaro però che, spostandosi sul calcio reale, in particolare quello europeo, anche le riflessioni di Galeano si pieghino alle forme che lo sport ha assunto (e sta tuttora assumendo); riferendosi ai mondiali di Francia del 1998, in un’intervista rilasciata a Avvenire, lo scrittore uruguaiano dice: «uno sport che si trasforma in proposta di alienazione collettiva su scala planetaria, fondata sulla contrapposizione tra Nord e Sud del mondo, tra Paesi che importano giocatori e altri che li esportano. Anche se tutto questo, fortunatamente, ha un contrappeso molto positivo nel carattere multirazziale del calcio contemporaneo».

Qualcosa di buono c’è comunque, anche se la carica iniziale si è col tempo smarrita. Già il titolo dell’opera in questo senso più importante di Galeano è emblematico: Splendori e miserie del gioco del calcio. Leggere quelle pagine vuol dire immergersi nella concezione più giusta di questo sport, vuol dire scorrere tra i protagonisti minori di questa storia, tra le loro facce sporche che si scontrano con i piedi d’oro, vuol dire intendere il calcio come linguaggio prima di Babele, modo comune per riconoscersi. Si parla di uno sport figlio del popolo che deve riappropriarsene, senza cedere alle lusinghe dei grandi che sempre di più lo strumentalizzano. Particolarmente efficaci (e bellissime) le pagine sul mondiale del 1978 in Argentina, quello che la squadra di casa vinse in un Monumental da sogno, trascinata dal grande Mario Kempes. Proprio là, all’inaugurazione dello stadio, dopo la benedizione del Papa, il generale Videla adulava il presidente FIFA Havelange che dichiarava che quello era il vero volto dell’Argentina, mentre nello stesso tempo «a pochi passi da lì era in pieno funzionamento la Auschwitz argentina, il centro di tortura e di sterminio della Scuola di meccanica dell’esercito. E alcuni chilometri più in là, gli aerei lanciavano i prigionieri vivi in fondo al mare». D’altronde è risaputo, il Sudamerica è la terra del bianco e del nero, dell’oro e della miseria dove però il football diventa vera metafora della vita, modo per raccontare i disagi della difficile vita e per mostrare le malattie della società (e Soriano, con le sue storie di calcio, ha criticato l’Argentina del potere militare).

I due piani paralleli su cui si muovono i racconti di Galeano (bellissimo quello sui mondiali 1950, quelli del Maracanazo quando il Maracana appena inaugurato si rese testimone del «più straordinario silenzio della storia del calcio», ma ci sono anche le storie del gol di Meazza e di Hugo Sanchez) riescono ad intrecciarsi alla perfezione, divertendo e rimembrando ciò che il calcio dovrebbe fare, percorrendo una storia purtroppo decadente ma che, nei suoi momenti più veri, mantiene quella magia popolare che lo ha iniziato a far amare: «La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto col gomitolo di lana. Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi. Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia contro l’avventura proibita della libertà».

Matteo Moca
Nato nel 1990, vive a Pistoia e studia a Bologna. Studioso di Letterature comparate, fondatore di una rivista cartacea mensile di musica, cinema e letteratura dal nome Feedback Magazine, morta postuma 2013. Collabora a diverse redazioni online (tra cui 404filenotfound, Sonofmarketing, Tellusfolio). Lacanian and Proust addicted.
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