La corsa allo spazio dei Public Service Broadcasting
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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La corsa allo spazio dei Public Service Broadcasting

I Public Service Broadcasting sono una gioia rara per tutti i laureati in scienze storiche, disoccupati e con un sacco di tempo libero per ascoltare e recensire musica dalla mattina alla sera. Il duo londinese infatti, offre l’assurda opportunità di cimentarsi con quanto appreso sui manuali universitari, durante quei lunghi pomeriggi trascorsi in biblioteca ad […]

I Public Service Broadcasting sono una gioia rara per tutti i laureati in scienze storiche, disoccupati e con un sacco di tempo libero per ascoltare e recensire musica dalla mattina alla sera. Il duo londinese infatti, offre l’assurda opportunità di cimentarsi con quanto appreso sui manuali universitari, durante quei lunghi pomeriggi trascorsi in biblioteca ad innamorarsi della ragazza di lettere, vegetariana, con la sessualità incerta e tanti sogni nel cassetto, che si sedeva sempre al posto 127 e alla quale non hai mai trovato il coraggio di rivolgere la parola.

Mr. Willgose, Esq e Mr. Wrigglesworth (naturalmente nomi fittizi), hanno dato vita a uno dei progetti più interessanti degli ultimi anni, quando nel 2013, con il disco d’esordio Inform-Educate-Entertain (Test Card Recordings) hanno portato – anzi riportato – nei timpani del grande pubblico le gracchianti voci di propaganda della Seconda guerra mondiale, campionature audio prese da documentari che raccontano la scalata all’Everest e più in generale materiale informativo della BBC, risalente ai primi decenni del Novecento, rubato dall’archivio della British Film Institute. Il tutto adagiato su tappeti sonori post rock che dondolano tra il funky, il krautrock, un sobrio ambient elettronico e un indie poco fastidioso.

Se è vero che la combinazione di parlato e musica o l’utilizzo di materiale d’archivio non siano certo una novità assoluta – il primo esempio che salta alla mente è My Life in the Bush of Ghosts celebre e controverso album del 1989 di Brian Eno e David Byrne, da cui i PSB hanno attinto a piene mani mettendoci dentro un pizzico di John Cale, di Slint, Mogwai, Talking Heads e così via – è altrettanto vero che l’attenzione per il dettaglio e la cura estetica con la quale è stato costruito questo concept, sono encomiabili. Lo dimostra il dvd uscito a pochi mesi di distanza da Inform-Educate-Entertain, in cui la band arricchisce di immagini il discorso musicale, che del resto non è altro se non una teoria endogena dei video in questione.

In Italia, nello stesso anno, un progetto simile (sebbene privo di una matrice concettuale unica come nel caso dei PSB) che legava a doppio filo le tracce dell’album a dei video di repertorio, fu portato avanti dai Julie’s Haircut con Ashram Equinox (Woodworm/Santeria).

Oggi i Public Service Broadcasting sono tornati con un disco nuovo, ancor più monotematico e ricco di citazioni tutte da scoprire. Si intitola The race for space (Test Card Recordings/Goodfellas) e come facilmente intuibile, è incentrato su quell’intenso periodo della Guerra Fredda che va dalla fine degli anni ’50 a metà degli anni ’70 circa, in cui le due superpotenze si sono sfidate a colpi di satelliti, missili e spedizioni umane (e animali…) al di fuori dell’atmosfera terrestre.
Si parlava di cura del dettaglio, e allora ecco la possibilità di scegliere se acquistare il disco con la copertina filoamericana o filosovietica, per entrare sin da subito nel clima da aut aut e di contrapposizione tra blocchi.

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Chi ha già avuto modo di apprezzare questa band, troverà subito familiari le sonorità di The race for space, perfettamente congruente con quanto prodotto fino a oggi e con l’introduzione di poche ma significative novità. Il primo pezzo si apre con dei cori soavi e astrali, come ad accompagnarci già dai primi secondi fuori dagli spazi di competenza per la gravità terrestre, mentre la voce di Kennedy ci informa: “We choose to go to the Moon”.
Nel primo singolo invece spicca il copioso utilizzo di ottoni e archi, che esaltano le imprese del mitico Gagarin. Al cosmonauta, il primo uomo a orbitare attorno alla Terra nel 1961, non poteva che essere dedicata la traccia con maggior groove dell’intero disco, essendo probabilmente il più importante eroe nazionale sovietico, che secondo la leggenda avrebbe gridato “non vedo nessun Dio quassù!”, sebbene non ci siano registrazioni di questa frase, probabile frutto della propaganda antireligiosa del PCUS.

A completare il filotto di novità, c’è il pezzo Valentina (dedicato a Valentina Vladimirovna Tereškova, anch’essa sovietica e prima donna a viaggiare nello spazio nel 1962), in cui invece per la prima volta viene introdotto il cantato, frutto di una collaborazione con il duo dream pop britannico delle Smoke Fairies, che peraltro apriranno tutti i concerti dell’imminente tour della band.

Ma non potevano mancare i necessari tributi al programma Sputnik, con un pezzo di sette minuti a metà tra il drone ambient e la minimal wave, o la ruvida e suggestiva sonorizzazione (anche qui c’è la presenza degli archi) della tragedia dell’Apollo 1. E poi le obbligatorie citazioni per il primo sbarco sulla Luna con la trionfale e ascendente The other side che raggiunge l’apoteosi al momento dell’allunaggio, o i brevi excursus tecnici, come per E.V.A. (forse la mia traccia preferita) che nel gergo degli addetti ai lavori è l’acronimo di extra-vehicular activity, pezzo che più si rifà alle melodie e alla ritmica del disco precedente.

The race for space suona costante e compatto (ma mi viene più da dire “folto”, anche se non so se sia mai stata usata questa espressione per definire un disco, anche se rende meglio l’idea), si presenta come un lavoro completo, caratterizzato da un largo uso di differenti strumenti e le cui tracce variano di genere e intensità, senza mai scollarsi tra loro. Si nota anche una maggiore cura nel creare una sinergia tra la musica e le voci campionate, su cui si percepisce una postproduzione più attenta che rende meno freddo il rapporto tra le due sfere. Insomma, di certo non “un balzo gigante per l’umanità” o per la storia della musica, ma sicuramente un buon disco che si ascolta con piacere.

Edoardo Vitale
Scrive di musica, cinema e attualità su vari magazine.
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