Il cinema di Bonifacio Angius è qualcosa di davvero anomalo in Italia, se si considera la retorica e la stucchevolezza di cui sono infarciti il 99% dei film prodotti in questo paese. Classe 1982, è ufficialmente attivo dal 2005. Una manciata di cortometraggi lo fanno conoscere e apprezzare dalla critica e da un ristretto pubblico che capisce subito di che pasta è fatto, permettendogli finalmente di realizzare il suo primo film, Perfidia: unico film italiano a essere presentato alla sessantasettesima edizione del Locarno Film Festival. Una storia di provincia, come tutto il suo cinema, incentrata sul tentativo di avvicinamento da parte di un padre nei confronti del figlio. Un figlio che passa le sue giornate al bar, vivendo in una società che non gli permette di capire quale è il suo posto nel mondo, tema presente in ogni film di Angius.
Nel 2018 arriva Ovunque proteggimi, un piccolo capolavoro esistenzialista, interpretato da un Alessandro Gazale che rompe e devasta lo schermo con la sua presenza magnetica. Impossibile smettere di guardarlo. Impossibile non empatizzare davanti a tanto dolore e spaesamento. Anche qui si parla di alcool, giornate passate davanti ai video poker, risse e storie di persone che si trovano per caso, inconsapevoli di vivere gli stessi disagi. Come lui è infatti l’altra protagonista del film, Francesca, interpretata da Francesca Niedda, prima attrice sarda a entrare nella terna delle nomination del Globo d’oro alla miglior attrice nel 2019.
La sua ultima fatica, uscita nel 2021, è I giganti, nel quale Bonifacio è anche uno degli attori protagonisti nel ruolo di Massimo. Assieme a lui c’è Stefano (che è Stefano Deffenu, il co-sceneggiatore del film assieme ad Angius), ed altri tre amici che si ritrovano in un casale di Sassari in compagnia di molta droga e alcool. Ottanta minuti secchi di cinema super-crepuscolare, a tratti onirico, una sorta di western dell’animo umano dove non c’è spazio per la redenzione, così come non c’è spazio per qualsivoglia spirito di edificazione. Vita brutale, vissuta come se fosse qualcosa che travolge l’esistente senza lasciare spazio alle sue scelte. Coazioni a ripetere che scorrono come fossero meccanismi automatici. Solitudine a palate, senso di inappropriatezza perenne e sostanze di qualsiasi tipo che entrano nei corpi per dimenticare tutto questo orrore e per raggiungere una volta per tutte la distruzione terminale. Insomma, un altro capolavoro.
Nonostante una filmografia ancora modesta dal punto di vista della quantità, è già possibile tracciare una silhouette tematica della sua poetica, caratterizzata dal disagio di vivere in una società che ha perso tutto quel poco di positivo che aveva provato a costruire. Nei personaggi dei film di Angius c’è l’orrore di affrontare il domani per l’incapacità di sopravvivere al presente, che viene combattuto attraverso lo scontro con ogni forma di autorità e istituzione, innescando un’introversione selvaggia che lascia scarse possibilità a interazioni umane pacifiche. La famiglia è la prima di queste istituzioni, nella quale emerge in maniera preponderante uno scontro di classe generazionale probabilmente insanabile, che cerca di risolversi attraverso sfuriate e silenzi. Nonostante questo affiorano rari momenti di dolcezza, mentre abbondano invece le situazioni di comicità grottesca.
Ero molto curioso di sapere se quello che mi era arrivato dai suoi film fosse qualcosa di voluto o semplicemente il frutto della mia immaginazione. Cosi l’ho contattato e gliel’ho chiesto.
Inizierei chiedendoti come è stato nascere e vivere in Sardegna. Quanto credi abbia influenzato la tua personalità?
Credo che questa sia la tipica domanda che si pone a chi riesce a mettere il naso fuori dall’isola: come se nascere in Sardegna sia un handicap. In un certo senso è vero per alcune cose e non lo è per altre. Non sono il tipico sardo orgogliosissimo della propria terra e tradizioni. Per me la Sardegna rappresenta prima di tutto la voglia di scappare da un mondo in cui spesso ti viene appioppato un ruolo da cui fai fatica ad uscire. Non a caso anche Pirandello era un isolano, anche se lo stretto di Messina è nulla in confronto alla distanza da cui il mare separa la Sardegna dal resto. Fondamentalmente la Sardegna è una terra dove regna il nepotismo e l’invidia. Una terra dove l’amicizia è sacra fino a quando sei dentro a un bar ad ubriacarti. Io ho smesso di bere ormai da parecchio, e non ho più compagnia da dare ai miei vecchi amici. Ho amore per i miei figli e per Francesca, per Stefano (Deffenu), un uomo di poche parole, fragile e sincero, con cui è bellissimo lavorare. Poi cerco di trovare energia da giovani isolani che, come me, hanno la voglia di scappare sia fisicamente, ma soprattutto con la mente.
Cosa c’è di più evasivo del creare immagini in movimento? Ecco, ringrazio la Sardegna perché è un posto talmente vuoto che ti spinge per forza a voler scappare. Troppo lunga come risposta?
Una delle cose che più apprezzo nei tuoi film sono gli esterni. Posso chiederti se sono stati scelti da te? Che ruolo hanno avuto quei luoghi nella tua vita personale? Sarebbe bello sapere se ci fossero aneddoti al riguardo.
Tutto quello che vedi nei miei film è scelto dal sottoscritto. In Perfidia, per esempio, molti luoghi erano luoghi della mia adolescenza. Posti anonimi, non luoghi – anche se questo termine è ormai troppo abusato. Di aneddoti ce ne sono tantissimi da poter scrivere un libro. Però posso dire una cosa. Non riesco ad immaginare niente nei miei ricordi di giovinezza dove il luogo di sfondo non sia un bar, essere sbronzi, magari alterati da qualcos’altro, e cose del genere. Fondamentalmente la nostra attività primaria era quella di alterarci, prenderci per il culo tra noi e prendere per il culo gli altri. Serate e serate così. Se non c’era quello, c’era la noia. Poi sì, ci innamoravamo anche noi, un gran peccato.
Questa è una domanda stupida, quindi puoi anche rispondere semplicemente dicendo “sì, è una domanda stupida”. Nei tuoi film c’è sempre una voce fuori campo. Perché senti l’esigenza di far raccontare a qualcuno che non è presente – almeno in quelle scene, o quantomeno nella temporalità di quelle scene?
è una voce che viene dall’oltretomba di me stesso. Dal profondo dell’anima del protagonista. Giudica sé stesso, giudica gli altri. Non ha vergogna di dire la verità. Tutte cose che invece non direbbe mai a nessuno in un discorso con qualcuno. In un certo senso parla con Dio. La inserisco perché penso che aggiunga profondità a quello che inizialmente potrebbe sembrare un personaggio avvolto nel suo vuoto interiore. Non c’è cosa più piena del vuoto interiore. Al suo interno c’è la paura di vivere, il senso di inadeguatezza di fronte alla vita, l’angoscia che la sconfitta porta con sé. Il vuoto è pienissimo.
In Perfidia uno dei personaggi principali è affidato al padre del protagonista, in Ovunque proteggi c’è una madre un po’ vittima dell’inquietudine del figlio. Ne I giganti tutti i personaggi sembrano essere lasciati a sé stessi. Si parla di genitorialità in maniera più diretta attraverso il tuo personaggio, mediante quella bellissima scena in cui si capisce che sei un padre, appena prima di essere picchiato. Quanto è importante per te questo aspetto? Voglio dire, mi sembra che attraverso la figura dei genitori provi a comunicare allo spettatore quanto sono cambiati i tempi. C’è una distanza incolmabile che divide coloro nati sessanta/settanta anni fa, rispetto a tutti quelli che sono venuti dopo. Sbaglio, o c’è anche questo aspetto?
Non vorrei fare il vittimista ma credo che i nostri genitori abbiano in modo evidentissimo vissuto un percorso di vita molto più semplice rispetto a quelli nati tra la fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta. Non oso pensare alla generazione dei primi dieci dei Duemila, come i miei due figli. La generazione dei nostri genitori ha avuto la pappa pronta, e non si rende conto che noi invece no. Il fatto che non se ne rendano conto, per la mia opinione, manifesta non solo menefreghismo ed egoismo, ma anche una grande violenza inconsapevole. Ci sono tutta una serie di perché e di per come, che sono diventati argomenti tabù, se ci pensi bene. Perché le generazioni precedenti non hanno alcuna voglia di cercare di capire le loro responsabilità sul presente? Non possono pretendere di essere esenti da colpe, e invece appena si prova a parlare, di questa famosa colpa, ci viene chiusa la porta in faccia. Si prova quasi a dire: “Noi eravamo meglio, ci interessavamo di politica, studiavamo di più, abbiamo lottato per i diritti”. E i vostri doveri verso il futuro? Di quello no, non si può parlare. Perché in realtà loro erano liberi di farsi i fatti loro, di sperperare, di avere un lavoro prestabilito. Tutte cose che oggi a noi mancano totalmente. E quando la soglia di povertà coinciderà con la totale mancanza di volontà di lottare? Cosa succederà, ci sarà una rivoluzione o continueremo a farci sfruttare come bestie per una vita che non vogliamo vivere? Rispondimi tu perché io non ti so rispondere.
Non so rispondere neanche io, però questo è un tema che mi interessa molto. Io personalmente penso che la voglia di lottare è qualcosa che non appartiene più ai nostri tempi. Per questo motivo il tuo cinema mi attrae così tanto. I personaggi dei tuoi film sono dei lottatori rassegnati. Persone che nascono sconfitte perché nate nel momento sbagliato (e nel posto sbagliato, dal momento che la tua descrizione della Sardegna ha il compito di amplificare questo senso di sconfitta). Ho divulgato il verbo del tuo cinema ai miei amici, in molti hanno capito il tuo messaggio, altri vedono nei tuoi personaggi una strafottenza fine a sé stessa. Ovviamente si può parlare, come si fa oggi, di carattere, di essere introversi e di cazzate tipo i bias cognitivi. Credo che la potenza dei contenuti del tuo cinema stia proprio nel mostrarci delle persone ancora in grado di capire che questo mondo fa schifo. Persone che capiscono l’epoca in cui stanno vivendo e quello che sta succedendo attorno a essi. Ecco perché automaticamente sono tutti degli sconfitti, nichilisti, spiriti autodistruttivi, perché se capisci questo non puoi non essere così. Questo è il loro unico modo di lottare.
Esatto. Mi piace molto quello che hai detto. Persone ancora in grado di capire che questo mondo fa schifo. Io stesso sono così. Forse è qui che trovo la forza di continuare. La cosa strana però è che molto spesso questi personaggi sono amati nei film e completamente isolati nella realtà. Qualcuno, come tu stesso hai detto, non li accetta neanche più nella finzione. E poi scusa cosa significa “strafottenza fine a sé stessa”? Non capisco, fine a sé stessa di cosa? Allora tutto è fino a sé stesso, anche l’essere idioti. Innanzitutto sono tutti personaggi molto sentiti perché estensioni di me stesso. Sono gli esseri umani che interessano a me. Perché sono persone a cui voglio e ho voluto bene. Purtroppo non riuscirei a descrivere gli sconfitti inconsapevoli. Forse perché li odio. Li detesto. E affidare una grossa parte della tua vita a chi detesti è molto difficile.
Sempre continuando su questo tema del cambiamento dei tempi, non credi che nel giro di pochissimi anni siano cambiate molte cose? Ad esempio nei tuoi film c’è questa ferocia, questa veracità che è anche al tempo stesso un sentimento di rivalsa nei confronti di “chi ce l’ha fatta”, che mi sembra stia pian piano scomparendo, in favore di una rassegnazione pacifica. Una sorta di omologazione felice che sta facendo scomparire queste identità “da bar” che riuscivano a mettersi in polemica col mondo esterno.
Fare cinema ti da una grande possibilità. Essere feroce, sfogare la tua rabbia verso il mondo attraverso la creazione di personaggi buttati e che si lasciano vivere da questa società sempre più incomprensibile. Vorrei manifestare anche nella vita questa rabbia, per la strada, nelle scuole, però probabilmente mi farebbero un TSO. Fare questo lavoro è un grande privilegio proprio per questo. Se fossi un idraulico questa rabbia verso il mondo dove la sfogherei, riparando un lavandino? Scusa, se in Italia regna il nepotismo, e nella maggior parte dei casi quelli che “ce l’hanno fatta” non passano attraverso il merito ma tramite un meccanismo totalmente distorto dalle conoscenze di mamma e papà o di uno zio, o di chissà cosa, posso essere un po’ incazzato per sto fatto? E poi il fatto di invidiare chi ha più di te per questo o quell’altro motivo, è un sentimento più che umano, e negarlo equivale a mentire. Io non mi rassegnerò mai, e di figli di papà ne ho stesi parecchi. E stendere un figlio di papà, ti giuro, da una gran soddisfazione. Ho iniziato a stenderli a circa ventitrè anni, ai concorsi di cortometraggi. Sfidavo i corti del saggio di diploma del centro sperimentale, con un corto realizzato con trecento euro e una camerina da turista. Poi ho continuato, solo che loro hanno il vantaggio di averci il grano, io sto sempre sul “chi vive”, con la paura di arrivare a fine mese.
Una delle cose che più apprezzo nei tuoi film è il modo in cui i personaggi si relazionano con le istituzioni. A volte affiora la violenza, quasi sempre l’indifferenza, spesso la critica. Come racconteresti la dialettica che emerge dal rapporto tra i protagonisti dei tuoi film e le istituzioni? Non vorrei essere ripetitivo, e non vorrei entrare in discorsi troppo privati. Però, un po’ per il nepotismo di cui parlavo prima, un po’ per i tagli dei vari governi (vedi sanità), le famose istituzioni in Italia non funzionano bene. Personalmente sono testimone oculare di tante ingiustizie. Dunque perché non criticarle? Perché non parlare dei problemi. In Italia i cittadini si trovano a lottare giorno dopo giorno con le istituzioni. Pensiamo alle famose “giornate della legalità”, organizzate dai vigili urbani, per esempio. Proprio durante il lockdown, i vigili urbani, hanno pestato una donna di colore perché scesa a buttare l’immondizia in orario non consentito e non era in possesso del documento d’identità. Pestata, a Sassari con tanto di video da varie angolazioni. Ginocchiate a lei e al marito che era sceso a difenderla. Pestato anche il marito, così, senza motivo. Una donna di colore pestata dai vigili urbani in pieno giorno in una cittadina qualunque come Sassari. Il giudice che fa? Assolve i vigili picchiatori dicendo che avevano svolto il loro lavoro. Questo è un esempio banale di come le istituzioni proteggono i cittadini che vivono in Italia. Per non parlare di cosa è diventata la psichiatria. Un vero organo di repressione sociale. La smetto qui perché se no mi incazzo davvero.
La droga è un altro elemento quasi onnipresente nel tuo cinema. È rappresentata come un modo per fuggire dalla realtà o come qualcosa di semplicemente autodistruttivo e nichilista? Magari è ambedue le cose per te, o nessuna delle due…
La droga è solo un pretesto molto efficace per mostrare l’autodistruttività dell’uomo e dell’umanità intera. Niente di più.
So che stai girando un nuovo film. Se ti va di raccontarmi qualcosa e dare qualche anticipazione, sarebbe bello.
Non posso dire troppo per scaramanzia, ma sarà un film di finzione quasi documentaria. La storia di una famiglia baciata dalla bellezza nel nulla di un mondo incapace di vedere, di fermarsi a contemplare chi siamo diventati. Non tarderò troppo. Per adesso continuate a richiedere I giganti su Chili e per le vostre arene estive. A presto sul grande schermo.
Copertina a cura di Demi Straulino