Ci sono alcuni luoghi da cui non siamo mai usciti, ma in cui non potremmo affermare con certezza di essere entrati. Si tratta di luoghi a cui si accede talvolta leggendo le pagine di un romanzo, altre volte giocando un videogioco, altre ancora guardando un’opera cinematografica. Come è possibile fare i conti con esperienze di questo tipo, infinitamente replicabili, condivise con milioni di persone, non appartenenti alla vita vissuta ma decisamente meno banali rispetto a tanti momenti quotidiani? A noi sembra una buona idea, semplicemente, parlarne. Questa volta parliamo di The Green Knight di David Lowery.
MM: Non fosse stato per Elden Ring, che ha risvegliato in me l’interesse per il fantasy, mi sarei perso The Green Knight: mi pare si sia parlato poco di questo film, e spesso anche male. D’altra parte David Lowery ha adoperato una forma molto radicale per raccontare una storia che sovverte l’epico e il cavalleresco, una scelta che può non piacere o risultare addirittura respingente. Io stesso mi sono addormentato ogni volta che ho rivisto il film, data la lentezza. Ciononostante, trovo che The Green Knight abbia molto da dire. Ma prima di dire, voglio chiederti perché, secondo te, si è parlato così poco di questo lavoro di Lowery.
GN: Banalmente, ti risponderei che si è parlato poco di The Green Knight perché, in piena pandemia, si è scelto di farlo uscire in esclusiva su Amazon Prime invece di chiuderlo in un cassetto e di attendere tempi migliori per una distribuzione cinematografica. Forse è vero che lo streaming sarà il futuro del cinema, ma di sicuro non è ancora il presente: la solita trafila di festival e anteprime e interviste e recensioni e infine proiezioni nelle sale è ancora indispensabile affinché si parli tanto di un film – le eccezioni sono talmente poche da poter solo confermare la regola. A maggior ragione quando il film è così particolare: non mi sorprende che ti sia addormentato a ogni visione, perché secondo me The Green Knight è un’opera profondamente onirica – ma questa definizione necessita subito di un chiarimento. Qualsiasi film ha molto in comune con il sogno: sempre si tratta di immagini che percepiamo in uno stato di parziale immobilità, avvolti nell’oscurità di luci basse o spente, e ben disposti ad abbandonarci al loro potere illusorio. Cosa intendo allora per film onirico? Userò le parole di Christian Metz, autore del miglior libro sul cinema che abbia mai letto, Cinema e psicanalisi: “La storia del film si sviluppa sempre chiaramente (o l’oscurità, almeno, vi figura sempre come accidentale o secondaria), è una storia raccontata, una storia, insomma, che è rivestita da una narrazione. La storia del sogno è una storia «pura», una storia senza narrazione, che affiora nel tumulto o nelle tenebre, una storia che non viene a formare (deformare) alcuna istanza narrativa, una storia che non viene da nessun posto, che nessuno racconta a nessuno”. Ecco, per me un film è onirico quando la distanza tra queste due tipologie di storia è ridotta al minimo; quando l’accostamento tra le immagini, e parimenti tra le vicende, è così debole da produrre un andamento narcolettico e una progressiva perdita di senso, restando tuttavia perfettamente comprensibile. Non so come a Lowery sia venuto in mente di dare questa forma, una forma simile a quella di una storia che “nessuno racconta a nessuno”, a una delle storie raccontate per eccellenza, proveniente com’è dall’immaginario e dal folklore del ciclo arturiano, ma secondo me è una delle cose più notevoli di The Green Knight.
MM: A Lowery piace giocare con la forma. Penso a come ha lavorato su un film come Old Man and the Gun, dalla grana della pellicola fino alle inquadrature e al ritmo sonoro, per camuffarlo da heist movie con Robert Redford girato negli anni ‘70 (in realtà è tutt’altro, ed è uscito nel 2018). Tornando al sogno: in effetti, The Green Knight si apre con il sogno della guerra di Troia, un sogno di gloria sognato da un giovane smarrito, senza arte né parte, incapace di prepararsi davvero alla vita da cavaliere. Nel testo originale, invece, come nella versione di Tolkien, la storia di Troia (e di Roma) è utile a dare una cornice e una giustificazione quasi “cosmogonica” alle vicende che il narratore si appresta a raccontare. Insomma, nell’originale c’è della logica (o quantomeno una convenzione narrativa) che è nemica del sogno. Se invece si guarda il film senza sapere nulla del testo di partenza, la sensazione è che quella sequenza iniziale sia appunto un’immagine pura, da storia raccontata da nessuno a nessuno, come dicevi tu; o al massimo una sorta di accordatura, perché poi tutto il film avrà quel tono, come una continua emersione di blocchi di immagini da un oceano di apparente illogicità e incoerenza. Dico apparente perché credo che quest’impressione di smarrimento narrativo sia dovuta solo in parte all’andamento onirico del film, e molto più a come Lowery sovverte tutte le nostre aspettative su ciò che è epico e cavalleresco, e persino sul fantasy.
GN: Lowery, insomma, è uno a cui piace suggerire un certo tipo di esperienza cinematografica per poi proporne un’altra: anche A Ghost Story non era propriamente una storia di fantasmi e non aderiva minimamente alle convenzioni del genere – ed era anche così lento da far sembrare The Green Knight, al confronto, un film dal ritmo scatenato. A questo punto, sarà interessante vedere con quali facce usciranno dalle sale famiglie e ragazzini dopo aver visto il suo prossimo lavoro, Peter Pan & Wendy. Ad ogni modo, direi che nei film di Lowery il sovvertimento delle aspettative non è mai fine a se stesso. Verso la fine di The Green Knight c’è questo scambio di battute che ti spezza: Gawain domanda «Is this really all there is?» («È davvero tutto qui?»), e il Cavaliere gli risponde «What else ought there be?» («Che altro ci dovrebbe essere?»), e queste due frasi racchiudono tutta l’assurdità dell’impresa del protagonista, di questo suo lungo viaggio intrapreso solo per andare incontro a un colpo mortale, per difendere un ideale di onore cavalleresco; ma più in generale ti direi che ci trovo racchiusa tutta l’assurdità esistenziale della condizione umana. Un pensiero anche molto moderno, quindi, che mi ha fatto pensare, tornando ancora al mito, al concetto di “vergogna prometeica”: il filosofo tedesco Günther Anders chiamava così quel senso di inadeguatezza che gli esseri umani provano nei confronti delle macchine. Ne abbiamo inventate di ogni genere: capaci di volare, di andare velocissime, di sollevare pesi enormi, persino di batterci a scacchi; e ora, per provare a non sfigurare, abbiamo iniziato anche noi a imporci i loro ritmi, a restare produttivi giorno e notte, a vivere insomma un po’ come macchine. L’onore cavalleresco non fu forse, allo stesso modo, un’invenzione tutta umana da cui derivarono standard privi di senso?
MM: Visto che l’ho evocato prima in quanto reteller del Sir Gawain, riporto quello che scriveva Tolkien nel presentare il suo “mondo immaginario” in una lettera del 1951: “La Macchina è la più evidente forma moderna di Magia che possediamo, e le due [cose] sono più strettamente correlate di quanto comunemente si ritenga”. Per Tolkien la magia è una scorciatoia per accrescere il proprio potere e il dominio sugli altri, che al tempo stesso rende schiavo chi la usa. Oggi ci affidiamo a macchine che migliorano le nostre vite, ma le usiamo come fossero artefatti magici perché in fondo non ne conosciamo davvero il funzionamento: una specie di sortilegio digitale. Come nel Signore degli Anelli abbiamo gli anelli, nel caso di The Green Knight abbiamo gli incantesimi di Morgana e la cintura che protegge Gawain dalla morte – una scorciatoia per diventare cavaliere, ma direi anche “uomo”, soprattutto “maschio” (volendo, “verde”, “virile” e “forza”, hanno, in latino, la stessa radice). Come dicevi tu, quella lanciata dal Cavaliere è una sfida assurda da cui uno spirito naïf come Gawain si aspetta chissà cosa, per scoprire invece che è tutto lì, un gioco da maschi adulti fine a se stesso. Non voglio portare il discorso su chissà quale piano, ma mi sembra che Lowery abbia usato la giostra del cavalleresco per fare a pezzi una certa idea di maschio, una postura mentale anche solo indotta, che probabilmente la maggior parte degli uomini subisce e interiorizza senza farci neppure caso. In The Green Knight ho percepito il peso del dover dimostrare a tutti i costi di essere sempre all’altezza di situazioni assurde, e di doverlo fare da “maschio”, magari per poi diventare il maschio adulto che impone agli altri sfide altrettanto virili e improbabili. Per questo lo scambio finale tra Gawain e il Cavaliere mi ha fatto sorridere, nella sua leggerezza, nella complicità tra i due personaggi che sembra un po’ risollevare Gawain dalla mesta consapevolezza di aver seguito un’ambizione sbagliata. D’altra parte Gawain con la propria decapitazione, reale o solo metaforica, sceglie di fermare la ruota, di non imporre agli altri la sofferenza che deriva dalla smania di potere, di dominio sugli altri, che porterebbe addirittura alla caduta di Camelot.
GN: La sequenza della caduta di Camelot è, in fondo, il motivo per cui mi trovo adesso, a distanza di un anno dall’uscita di The Green Knight, a parlare con te di questo film. Ho trovato molto suggestivo il lungo racconto – privo di parole – di tutto il resto della vita di questo sovrano già morto, a cui basterebbe togliersi una cintura per togliersi la vita, e molto potente la scena in cui ciò avviene. A questo punto, permettimi una breve digressione: io trovo sempre più insoddisfacenti le retrospettive sulle riviste, nelle sale o su piattaforme come Mubi, perché hanno raramente un filo conduttore diverso da un attore o un regista, un movimento o un genere cinematografico. Mi chiedo se sia davvero un modo soddisfacente di esplorare quest’arte: in futuro mi interesserà di più ricordare The Green Knight come un film di Lowery, come un film fantasy o come un film in cui c’è questa sequenza? Lo ricorderò, inutile dirlo, per la caduta di Camelot, con tutti i temi che la attraversano, e i relativi possibili accostamenti: l’idea di una vita solamente immaginata (sognata?), come nelle sequenze finali in La La Land di Damien Chazelle o L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese; o il racconto delle ultime ore di vita di un uomo che si appresta a morire, come Oslo 31 August di Joachim Trier o Fuoco fatuo di Louis Malle; o ancora, uno studio sull’irrefrenabile impulso a mettersi in salvo di fronte a una minaccia, come Forza maggiore di Ruben Ostlund o The Loneliest Planet di Julia Loktev; ma anche sul classico topos del confronto tra uomo e natura, ben simboleggiato dalla lunga attesa del risveglio del Cavaliere, del tutto indifferente all’arrivo evidentemente anticipato di Gawain. Un altro elemento di interesse di quella sequenza è poi la sua collocazione, perché si trova a mio modo di vedere tra due ellissi, a cui corrispondono due decapitazioni: la prima, ipotetica, non ci viene mostrata ma viene certamente eseguita, anche se il suo effetto viene lasciato in sospeso – per effetto di un sortilegio – fino al momento in cui Gawain si slaccia la cintura; mentre la seconda, reale, che di nuovo non vediamo, è una decapitazione mancata, perché il Cavaliere lascia andare il protagonista, o semplicemente tagliata (eh sì) dal montaggio? Le ultime parole del Cavaliere, «Now, off with your head» (traducibile sia come «Ora vai via con la tua testa» che con «Ora via la tua testa») sono le più ambigue possibili. Non solo: sono curiosamente assenti in una versione della sceneggiatura che gira in rete, in cui l’ultimo a pronunciare una battuta è Gawain, quando dice «Now I’m ready» («Ora sono pronto»); sarebbe dovuto seguire poi lo schermo nero – una soggettiva della morte come per Tony Soprano? Il film, è chiaro, intende lasciar spazio a letture diverse, per cui mi incuriosisce molto il tuo riferimento a una decapitazione reale o metaforica: che idea ti sei fatto, in quali interpretazioni ti sei imbattuto? C’è un’altra sequenza, quella dell’imboscata dello sciacallo e dei suoi complici – dichiaratamente ispirata a una simile e giustamente celebre in Barry Lyndon di Stanley Kubrick (e, anche qui, possibili percorsi da seguire, fino al più terribile degli agguati filmici, quello in La fontana della vergine di Ingmar Bergman) – al termine della quale Gawain si vede morto già nella foresta, per poi ritrovarsi vivo alla conclusione di una panoramica a 360 gradi: la vita immaginata nella sequenza di Camelot non potrebbe allora essere addirittura un sogno all’interno di un altro sogno?
MM: Ma anche la volpe: è reale o sognata? I giganti? E la ragazza – anche lei senza testa – del lago? Forse più che recuperare un genere letterario, Lowery ne ha recuperato il modo, cioè l’allegoria. L’allegoria è un sistema di codificazione e decodificazione di significati univoci, certamente non ambigui, o almeno così dovrebbe funzionare. Il pentagramma sullo scudo di Gawain rappresenta le cinque virtù cavalleresche, quindi ha un significato oggettivo, non interpretabile. Sospetto, ma potrei sbagliarmi, che a noi sembri tutto sognato o interpretabile perché non abbiamo gli strumenti per decodificare l’allegoria. E forse questo è l’intento più radicale del film di Lowery: rappresentare l’incapacità d’intendersi – tra uomo e natura, tra generazioni (Gawain e Artù), tra uomo e donna (Gawain e Essel/Lady Bertilak, ma anche Morgana), soprattutto l’incapacità di leggere all’interno di sé stessi. Questo però lo sto pensando in questo preciso momento, mentre ti rispondo. Quanto alla decapitazione finale: a parte il fatto che è curioso che il “taglio” inteso in senso filmico possa alterare il senso del “taglio” vero e proprio della testa all’interno del film, effettivamente ho letto interpretazioni diverse su quella scena. Non ricordo dove, in una comunque interessante recensione, si dava per scontata la morte di Gawain. Io non sono d’accordo e anzi quel “Now, off with your head” mi ha triggerato a lungo, ma piacevolmente. Credo pure che le interpretazioni più o meno divergenti finiscano col rispecchiare quello che dice Lady Bertilak a Gawain a proposito dei libri che trascrive: ogni tanto ne cambia alcune parti, per renderli più belli. È quello che ha fatto Lowery con la storia del Cavaliere Verde, è quello che facciamo noi reinterpretandone questa o quella scena. Il che lascia intuire quanto sia vivo questo film apparentemente lento, morto – nel senso che pare appunto solo sognato, appartenente più al regno dei morti che a quello dei vivi.
GN: Trovo che The Green Knight sia un film vivo soprattutto nella misura in cui si rivela capace di reinterpretare il testo originale: se Lady Bertilak modificava i libri che trascriveva per renderli più belli, Lowery stravolge un poema medievale per inserirvi temi più contemporanei. La storia originale non solo è ricca di rimandi ai valori cavallereschi, ma si presta anche a essere interpretata in chiave religiosa – a partire dal fatto che l’episodio da cui muove la trama viene definito un “gioco di Natale”: il Cavaliere Verde potrebbe rappresentare, secondo questa lettura, un’impersonificazione del giardino dell’Eden, e la cintura sarebbe allora il frutto proibito che allontana l’uomo dallo stato di natura; oppure potrebbe alludere allo stesso Cristo redentore – redentore del peccato originale di Gawain che ha preso la cintura e inoltre beh, lo ha decapitato, ma si è poi dimostrato virtuoso in più occasioni. In The Green Knight tutti questi elementi sono capovolti o demoliti. Il Gawain del poema dimostra la sua virtù resistendo ai tentativi di seduzione di Lady Bertilak, quello di Lowery cede con una certa facilità; il Gawain (Adamo) del poema riceve la cintura (mela) per la prima volta da Lady Bertilak (Eva), mentre il Gawain di Lowery riceve la cintura per la prima volta dalla madre, ma se la fa rubare insieme all’ascia del Cavaliere quando subisce l’agguato di cui abbiamo già parlato, ed entrambi gli oggetti devono essergli consegnati una seconda volta per permettergli di proseguire nella sua avventura; il Gawain del poema magari non brilla per coraggio ma grazie al rispetto del codice cavalleresco riesce a superare tutte le prove che si trova ad affrontare; il Gawain di Lowery già all’inizio del film sembra ignorare persino le basi dell’amor cortese, ed è invece la sua amante Essel – personaggio assente nel poema – l’unica a mostrare un po’ di romanticismo. Insomma, il Gawain del poema prova a meritarsi il perdono, e il Cavaliere effettivamente lo risparmia, mentre il Gawain di Lowery fa ben poco per non andare incontro a una decapitazione che del resto è forse inevitabile, in un mondo in cui non ci sono più né Dio né redenzione, ma solo una natura indifferente. L’operazione di Lowery allora sembra essere stata questa: ribaltare il discorso cavalleresco, svuotare quello religioso, inserire temi più vicini a una sensibilità moderna e ottenere in questo modo un film che ha la stessa forza allegorica del poema, ma in cui i simboli sono tutti diversi; e forse quelli originali non sono del tutto rimossi, non sono completamente sovrascritti, e forse per questa stessa ragione quelli nuovi emergono con meno chiarezza, e il risultato è una narrazione estremamente densa di rimandi ad altro, esattamente come quella di un sogno.
MM: Sì, anche se ad esempio lo svuotamento del discorso religioso – sarà che vivo al sud, dov’è impossibile non pensarci – non fa che riaffermare il senso religioso all’interno del film, anche nella sua assenza. Mettiamola così: se Dio non è dove dovrebbe essere, allora tutto diventa potenzialmente una quest religiosa, anche l’affermazione di sé stessi all’interno di un sistema cavalleresco, come per il Gawain di Lowery. L’idea stessa di quest è, di base, un pellegrinaggio, che ha sempre qualcosa quantomeno di spirituale. Ma visto che ne hai parlato: la presenza di Essel complica ulteriormente le cose rispetto all’opera originale, soprattutto perché lei è il doppio di Lady Bertilak. Questa sovrapposizione, come pure la non-morte di Gawain nel bosco, mi ha fatto ipotizzare che alcuni di questi personaggi siano una reincarnazione, una versione alternativa di altri personaggi, o che comunque ci siano più piani di realtà che si intersecano fino a dar vita a diramazioni diverse della stessa storia (e torniamo alla riscrittura). Di certo c’è che Essel e Lady Bertilak condividono parte dello stesso destino di donne inascoltate: è Essel a suggerire inutilmente a Gawain, all’inizio, di mettere da parte tutta quella storia dell’onore per accontentarsi di essere un brav’uomo; così Lady Bertilak recita il suo pur centrale monologo sul verde (centrale proprio perché chiaramente recitato) a due uomini, Gawain e Sir Bertilak, che stanno praticamente sonnecchiando davanti al camino e continuano a farlo mentre lei parla. Un po’ come noi spettatori, o almeno come me che, lo dicevo all’inizio, mi sono addormentato guardando The Green Knight. Cosa non ho ascoltato di questo film? Cosa ho perso del tutto? Cosa ho sognato?