Tutte le storie sono una, con infinite declinazioni e solo due finali possibili: un individuo e un ostacolo si incontrano, se il primo riesce a decostruire il secondo, e ad accettarlo come la sfida evolutiva che rappresenta, lo supera. Se invece l’individuo si lascia sopraffare, l’evoluzione è soltanto rimandata. A un altro individuo, o a un’altra storia.
Me ne sono convinto da bambino, leggendo il mio primo atlante di mitologia, non solo greca e non solo antica. Quello che mi affascinava di molti miti era la netta disparità iniziale tra le risorse che l’eroe aveva a disposizione e la portata della sua sfida, la quale acquisiva perciò dimensioni evolutive e simboliche. Inoltre, avevo la percezione che ci fosse qualcosa di oscuro e indicibile, nascosto nell’ombra della loro civiltà d’origine: una sorta di riflesso distorto del mondo che aveva prodotto l’eroe stesso. Quest’oscurità puntualmente si manifestava mettendo alla prova non solo i protagonisti del racconto, ma tutta l’umanità che incarnavano. La ricompensa per la loro impresa non era quasi mai un bene materiale e anzi, qualora si fosse rivelato quello il loro fine ultimo, una personificazione dell’equilibrio cosmico li avrebbe privati del trofeo. Era sottile, in quel caso, il confine tra trionfo e tragedia. Era come se tutto ciò che di terreno ci fosse nel mito non si rivelasse altro che simbolo, asservito a un esercizio di elevazione, di consapevolezza spirituale. Da Odisseo a Beowulf, da Re Artù a Gesù Cristo, ogni eroe trovava pace, in questa o in un’altra vita, soltanto se era proprio la pace il suo fine ultimo.
Nelle civiltà odierne i miti hanno ceduto il passo alla scienza e alla storia e sono andati a riporsi altrove, in una sorta di immaginario ad alveare, uno spazio inafferrabile e magmatico in grado di contenere tutti i tòpoi della narrazione umanistica: la cultura pop. Ogni simbolo se ne sta lì, più o meno partecipe allo zeitgeist, in attesa che una sua nuova interpretazione venga riproposta a fini commerciali e di intrattenimento.
Penso non sia un caso il fatto che nella contemporaneità i supereroi abbiano trovato, al cinema e in televisione, così tanto spazio. Hanno iniziato a far parte della mia vita in tenera età, quando erano soltanto un fenomeno relativamente di nicchia. Erano un’alternativa colorata e chiassosa al mio atlante mitologico, e riproponevano percorsi analoghi: le prove individuali, le sfide collettive, l’unione tra eroi, talvolta anche l’alleanza tra esseri umani e divinità, affinché non fossero le tenebre a trionfare alla fine della storia. C’era Eracle, ma anche gli Argonauti. C’era Osiride, ma anche il resto dell’Enneade, c’erano Gilgamesh insieme a Enkidu, le forze norrene della luce che si univano per fronteggiare il Ragnarok, i Pandava che facevano lo stesso per opporsi ai Kaurava. Ai loro palazzi antichi ed esotici venivano sostituiti i grattacieli delle metropoli contemporanee, o stelle e pianeti di galassie lontane.
A questo proposito, non credo sia un caso il fatto che i film e le serie di maggior successo con dei supereroi come protagonisti siano quelle che ne mettono insieme diversi: gli Avengers, la Justice League, gli X-Men, tutte le varie iterazioni di Spider-Man non sono altro che la trasposizione collettiva dei miti antichi nel linguaggio della cultura pop contemporanea. Tra le loro file troviamo echi pop di archetipi eterogenei: i messia giudaico-cristiani, i semidei della tradizione classica, Aladino e la Lampada Magica, Martin Luther King, il Capitano Ahab, Mefistofele del Faust e i detective di Edgar Allan Poe, tutti insieme, tutti trasportati in un ventunesimo secolo iper-tecnologico rispetto alla tradizione arcaica. Viene da chiedersi, suppongo – specie a chi non ne ha mai subito il fascino –, cosa ci sia di tanto interessante, in queste storie di carta colorata, dal dubbio valore artistico.
Tutto ciò che vi hanno raccontato, quando vi hanno detto che sono “soltanto” fumetti, è vero. Eppure la connessione tra mito classico e fiction superumana è talmente evidente da risultare automatica anche a un bambino di nove anni. I miti derivano da visioni, le visioni sorgono in un momento di ricerca interiore, un tentativo di far specchiare il proprio mondo inconscio in quello esteriore. In Myth and Body Joseph Campbell paragona i miti ai muscoli del corpo, il loro contrarsi e flettersi al gioco di forze opposte che produce energia mettendo in moto il corpo stesso. In questo caso il corpo è l’umanità che trova nel mito una parabola esemplare della propria esperienza. È altrettanto evidente come i muscoli di carta colorata di Superman che vola tra i grattacieli di Metropolis siano un tentativo di riconsegnare il mito classico a un contesto moderno, che potremmo definire pop proprio perché nasce nell’epoca della cultura popolare di massa. Il medium e i linguaggi primigeni da cui deriva questo nuovo mito sono spesso e volentieri naif, ma quanto basta allo sguardo di un bambino per mettere in moto la stessa danza di simboli e archetipi che ha alimentato l’immaginazione degli aedi nell’antichità. Cambiano i media, non cambiano le istanze. La semplicità del linguaggio è un vantaggio sia per gli autori che per i fruitori, ma non scredita la necessità da cui scaturisce. Il motivo per cui, con buona pace di Martin Scorsese, questo immaginario abbia esteso il suo dominio al mondo cinematografico negli ultimi decenni sta proprio nel bisogno del pubblico, sazio di mondane biografie di gangster e tycoon, e affamato di titani che fanno a botte nel cielo, come lo sono stato io a nove anni, in un paese di ottomila anime a picco sul mare di Calabria.
Le narrazioni superumane, proprio come il mito, applicano categorie umane a contesti oltre-umani, di immediata percezione ma di non immediata spiegazione, come i fenomeni atmosferici, l’evoluzione della specie, la vita nello spazio, le chiavi di volta della storia e i conseguenti mutamenti sociali, e abbandonano l’ambientazione realistica in favore di una narrazione sospesa tra il verosimile e l’escapismo sfrenato.
Narrazione sospesa che, proprio come la materia mitologica e quella cavalleresca, ha i suoi codici e i suoi canoni: i costumi sgargianti, le identità segrete, i civili in pericolo o addirittura il mondo costantemente minacciato dalle grinfie di antagonisti pronti a conquistarlo o distruggerlo. Ancora: i superpoteri quale simbolo di un’interiorità complessa, spesso ottenuti accidentalmente o, più raramente, come conseguenza di una nascita dalle circostanze straordinarie, gli universi paralleli, i futuri alternativi, i rocamboleschi ritorni dalla morte. Con poco sforzo, questi codici possono essere interpretati quali simboli di un’umanità che non si accontenta della propria ostentata linearità, che cerca di riscattare gli ostacoli, quelli quotidiani così come quelli epocali, e tinteggiarli di èpos. Il suo linguaggio è parallelo rispetto a quello classico, ma aggiornato a quella che potremmo definire un’epoca di riproducibilità tecnica, di ibridazione della coscienza organica (come quando ti affidi a un algoritmo per incontrare la tua supposta anima gemella) e, soprattutto, di abbattimento delle distanze analogiche. Un’epoca che, molto pigramente, possiamo definire post-umana.
Confesso che questo è un termine che detesto, perché porta a fare distinguo sterili tra cosa è umano e cosa non lo è. Dal momento che tutto ciò che un essere umano intuisce, osserva, descrive e conosce viene filtrato attraverso percezioni squisitamente umane, è lecito sospettare che niente non lo sia e, di conseguenza, tutto possa esserlo.
Ciò che definiamo superumano, dunque, potrebbe non essere altro che una proiezione impaziente, un’insofferenza rispetto all’attesa evolutiva e una dichiarazione d’amore incondizionato alla dimensione immaginativa. Superumano è tutto ciò che non possiamo fare, ma possiamo immaginare di fare. È formulare l’inverosimile e affidargli il riscatto dai propri vincoli terreni. È farsi ispirare da ciò che ancora non si è. In quanto tale, potrebbe non esserci nulla di più umano.
Il problema del narratore di superstorie, in un’epoca che spolpa fino all’osso il frutto per ragioni commerciali, è trovare modi rilevanti per raccontare nuovi miti. Qualunque bambino può inventare una storia di supereroi, ma questa finirà per riflettere nient’altro che il proprio mondo personale, legittimo e spesso incantevole, ma per sua natura transitorio. Pensate a quante storie immaginate a nove anni vorreste vedere interpretate sul grande schermo da attori hollywoodiani: io nessuna.
Perché le superstorie siano rilevanti è dunque necessario, come ha detto Alan Moore, che suonino vere su un piano umano, ma anche che siano profondamente consapevoli dell’archetipo sul quale lavorano. È necessario che prendano spunto dai miti che popolano lo spazio bianco tra una vignetta e l’altra. È convinzione di chi scrive che in questo secolo scarso di materia supereroica si sia prodotto abbastanza materiale da coprire tutto lo spazio simbolico dell’esperienza umana. Questa improvvisa saturazione mediatica potrebbe essere il segnale di un ciclo compiuto, di una maturità raggiunta in un dato momento storico: quello attuale. L’idea alla base del percorso che vi invito a percorrere insieme è conoscere meglio i supereroi per conoscere noi stessi e, così facendo, compiere quel salto di immaginazione necessario ad arricchire le autonarrazioni del nostro tempo.
Compito che, non a caso, nell’antichità veniva assegnato al mito.
0.2. Brevi cenni e ultime premesse
Per capire come nasce l’elemento letterario supereroistico è necessario dargli un contesto storico. I primi riscontri del termine ‘supereroe’ vengono registrati intorno ai primi del ‘9001, qualche decennio prima della creazione del genere fumettistico per sé, e farebbero riferimento a figure unite da un elemento comune: il costume, l’abbigliamento tipizzato composto generalmente da maschera e calzamaglia. A questo proposito, non è difficile trovare alcune analogie (almeno per quanto riguarda la calzamaglia) negli eroi delle ballate medievali quali Robin Hood, in quanto prosecutori di una continuità eroica rispetto all’antichità, ma in tema di maschere e identità segrete è altresì impossibile non fare riferimento alla Primula Rossa di Emma Orczy (1905)2. In seguito saranno i protagonisti delle pulp fiction a raccogliere questa eredità (insieme a quella orrorifica di Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft) e a trasferirla su carta: toccherà prima a Zorro (1919) e The Shadow (1930) e poi, finalmente in formato comic strip, a The Phantom (1936) di Lee Falk, che può essere considerato giustamente il pioniere del genere, ma ancora privo di quegli elementi che diventeranno canone soltanto con Superman. Sempre sotto forma di strisce ma privi di maschera, sono poi Mandrake The Magician e Flash Gordon (1934) a iniziare filoni prolifici per il rispettivo genere nei decenni a venire, ovvero quello magico/sovrannaturale per quanto riguarda il primo e di quello della frontiera dello spazio, nel caso del secondo.
È tuttavia convinzione di chi vi scrive che le narrazioni superumane si smarchino dall’essere una banale rivisitazione in salsa yankee di miti precedenti, e vadano invece ad affondare le proprie radici in un terreno assai più fertile di archetipi che mescolano più influenze culturali. Il fatto che queste influenze trovino il proprio sfogo crono-storico negli Stati Uniti del 1938 – all’alba della Grande Depressione –, con la pubblicazione dell’albo a fumetti Action Comics n.1, non è un caso, poiché da quella depressione gli USA usciranno definitivamente solo con la vittoria della Seconda Guerra Mondiale e con il consolidamento quale prima potenza mondiale, nonché principale egemonia commerciale, sia in termini di intrattenimento mediatico che di influenza sullo stile di vita occidentale. Fossero nati all’epoca dell’Impero Romano, i supereroi avrebbero parlato latino e si sarebbero chiamati Claudius o Caius, invece si chiamano Clark, Bruce, Steve, Tony e sono prevalentemente anglofoni. Probabilmente perché nel ventesimo secolo prendesse piede una mitologia nuova, era ineludibile che avvenisse attraverso il megafono di una forza colonizzatrice, nella stessa maniera in cui i miti classici sono stati assorbiti dal potere centrale nell’ambito dell’egemonia romana e poi sono stati propagati in tutto l’Occidente. D’altronde, non esiste alcun Prometeo liberatore senza uno Zeus tiranno che detiene il dominio sul fuoco.
Del rapporto stretto tra iconografia classica e fumetto pop si è già scritto tanto ma vale la pena ripetere qualche rapido esempio, abusato ma utile: la Justice League, supergruppo di punta della DC Comics, non è stato in assoluto il primo tentativo di ensemble di più eroi3, ma di sicuro è quello che nell’immaginario pop ha saputo ritagliarsi il primato di compagine più iconica, anche grazie alle serie animate a essa dedicate nella seconda metà del ventesimo secolo, prima che gli Avengers della Marvel spopolassero al cinema. Se si guarda alla sua formazione classica, si noteranno diverse coincidenze con il pantheon greco-romano. Batman, forte del suo rapporto stretto con l’ombra e con l’elaborazione del lutto, può essere associato al mondo di Ade/Plutone, Wonder Woman ad Atena/Minerva per il suo spirito guerriero ma anche per la propensione all’esercizio della giustizia. Flash può essere associato a Ermes/Mercurio per la sua velocità, Aquaman, re dei mari con tanto di tridente, a Poseidone/Nettuno, il meccanico Cyborg a Efesto/Vulcano, il mutaforma Martian Manhunter a un Proteo dalle fattezze aliene. Il ruolo di Apollo dovrebbe essere affidato a Superman, per diretta associazione con le connotazioni solari del personaggio, ma il suo archetipo – come vedremo – sembra affondare le sue radici prevalentemente nella tradizione giudaico-cristiana, ragion per cui questo posto andrebbe idealmente ceduto a Lanterna Verde, iconograficamente connesso a una visione simbolica della luce come principio creativo.
Sarebbe tuttavia riduttivo relegare le categorie superumane al semplice parallelo con la cultura classica e facendo riferimento ai soli eroi della DC Comics. Nel 1963 è infatti la Marvel Comics a scombinare le carte in via definitiva con la sua formula del ‘supereroe con super-problemi’, ponendo la fallibilità dell’essere umano al centro dell’impresa eroica. I suoi protagonisti sono individui tormentati che ricevono i propri superpoteri spesso in circostanze accidentali o tragiche, e portano avanti la propria crociata da una prospettiva che include sempre qualche livello di incomprensione rispetto al mondo civile. La Marvel crea un vero e proprio mucchio selvaggio di personaggi eterogenei, mettendo insieme gli dèi veri e propri della tradizione mitologica europea (Thor, Ercole), in squadra insieme a milionari alcolizzati, a prodotti di famiglie disfunzionali, a scienziati goffi e a tutta una lunga serie di reietti. Dagli anni ‘60 in poi, sull’onda delle lotte civili dell’epoca, vengono dunque creati nuovi modelli eroici e antieroici, fallibili e fuori controllo (Hulk), perseguitati dalla massa poiché considerati diversi (gli X-Men), o calati nella dimessa ordinarietà del lettore contemporaneo (Spider-Man), assecondando uno zeitgeist che vede l’umanità sempre più in cerca di esaltazione delle proprie capacità inespresse, e di una redenzione dalla propria corruttibile finitezza.
Anche in questo caso avremo a che fare con personaggi a cui possiamo trovare analogie più desuete di quelle classiche, ma altrettanto familiari. Difficile ignorare le similitudini tra l’iconografia classica di uno Spider-Man penzolante a testa in giù, devoto al mantra “da un grande potere derivano grandi responsabilità”, e l’arcano maggiore n. XII dei tarocchi, il cosiddetto “Appeso”, raffigurato come un giovane capovolto, il cui piede destro è libero e l’espressione è insolitamente serena per un condannato. Esso simboleggia il sacrificio volontario, consapevole, che gli permette di osservare il mondo da un’altra prospettiva, affatto convenzionale.
«Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito.
Il mondo si legge anche all’incontrario.
Tutto è chiaro»4
(Il paladino Orlando ne “Il Castello dei destini incrociati”, di Italo Calvino)
1. Gli archetipi e le rivoluzioni del genere
1.1 Il primo ingrediente: il superuomo diurno
Tutto ha inizio a Glenville, un sobborgo di Cleveland popolato da migranti europei di origine ebraica e da afroamericani, a metà degli anni ‘30. Lì iniziano a realizzare i loro primi fumetti Jerry Siegel e Joe Shuster, non ancora ventenni. Il padre di Jerry, sceneggiatore, è morto l’anno prima, colpito da un attacco cardiaco conseguenza di una rapina a mano armata nella sua merceria. E Jerry, per il suo nuovo soggetto, decide di partire da un pianeta lontano, un vecchio pianeta popolato da individui tali e quali a noi. Che esplode.
È la fine cruenta di una civiltà, dalla quale trova scampo solo un bambino, messo in salvo da una navetta d’emergenza costruita dal padre scienziato. È un piccolo Mosè che raggiunge l’altra riva del fiume in un razzo, invece che in una cesta. Da adulto, in piena Grande Depressione, poiché i proiettili gli rimbalzeranno addosso troverà naturale diventare un campione degli oppressi.
Forte come Ercole, sradicato dal proprio suolo natio come Mosè , solare e incline all’amicizia come il dio persiano Mitra, ha un costume con le mutande sopra ai calzoni come i forzuti del circo. Nella sua prima apparizione svuota come se fosse una lattina un’automobile zeppa di gangster e bulli, sbatte contro un muro un marito violento e butta giù da un grattacielo un politico corrotto, salvo poi riprenderlo per farlo confessare le proprie malefatte. Per la prima volta nella cultura popolare gli echi messianici della mitologia antica vengono associati a tematiche veriste, e propagati attraverso un media considerato povero. Superman coglie qualcosa nello zeitgeist e il successo diventa presto transmediale, propagandosi attraverso gli sceneggiati radiofonici e televisivi.
Nella seconda metà del novecento, Superman muta le proprie caratteristiche seguendo il passo della cultura occidentale che l’ha prodotto: combatte i nazisti negli anni ‘40, le sue avventure diventano più surreali e umoristiche negli anni ‘50, si fa esploratore del cosmo negli anni ‘60. Negli anni ‘70 subisce un ripiegamento intimista: la penna che ne scrive le imprese finisce in mano a giovani contestatori, ne consegue che la sua gamma di poteri vasta e pressoché illimitata subisca un ridimensionamento. Superman diventa perciò maggiormente vulnerabile, il mondo intorno a lui più fragile e verosimile. Con il film del 1978 di Richard Donner e l’interpretazione a tinte messianiche e ottimiste di Christopher Reeve, l’icona a stelle e strisce riceve la consacrazione definitiva quale patrimonio della cultura pop mondiale.
Il set di superpoteri che vengono associati al personaggio evolve dunque pian piano, facendone un Ercole volante, proattivo, dalla personalità compassionevole e riflessiva. I personaggi del genere supereroistico che ne imiteranno le caratteristiche sono decine e decine: il Capitan Marvel della Fawcett Comics (poi inglobato dalla DC Comics e oggi noto nei fumetti e al cinema come Shazam) è di fatto una versione favolistica dell’archetipo, in cui un bambino dalla difficile storia famigliare si trasforma, grazie a una parola magica, in un Superman in grado di compiere imprese straordinarie. Il britannico Miracleman creato da Mick Anglo, ed esaltato da Alan Moore è a sua volta ispirato a questo personaggio e ascrivibile agli stessi archetipi apollinei e fantastici. Tra i personaggi DC che invece possiamo considerare variazioni virtuose sul tema, ci sono il Segugio di Marte, unico sopravvissuto del Pianeta Rosso (il quale presenta un set di poteri simile a quello di Superman, con l’aggiunta della capacità di metamorfosi) e, in misura minore, Aquaman, letteralmente un Superman acquatico che è straniero sul suo stesso pianeta, dato che il suo mondo perduto è quello, sommerso, di Atlantide. La stessa Marvel ha dato vita a personaggi che sono omaggi all’archetipo supermaniano, alcune problematiche e antieroiche, come Hyperion e Sentry, altre più nettamente virtuose come il semisconosciuto Aquarian e il Capitan Marvel originale (anche noto come Mar-Vell) i quali, oltre ad avere pressappoco lo stesso range di poteri di Superman, condividono con lui anche un’origine aliena. La lista si allunga con l’afroamericano Icon della Milestone Comics, il glaciale Apollo della Wildstorm Comics, l’inquietante e malvagio Homelander della saga ‘The Boys’ (di fatto una versione white suprematist di Superman), e con la lunga lista di personaggi omologhi editi dalla Image Comics, dal popolare Invincible – di fatto una versione adolescente di Superman con un padre malvagio – a figure più marcatamente derivative quali Supreme, Mister Majestic e il Samaritano di Astro City.
Un certo tipo di fissazione scientista, sempre più preponderante nei fumetti a partire dagli anni ‘60, darà inoltre vita a versioni “nucleari” dell’archetipo, ossia personaggi il cui vastissimo range di poteri si basa sulla capacità di manipolare la materia a livello subatomico, come nel caso del Capitan Atom della Charlton Comics (che sarà l’ispirazione per il Dottor Manhattan del capolavoro Watchmen) e del Doctor Solar della Gold Key Comics.
Pur divergenti, tutti questi echi si propagano da un unico punto: più che un’esplorazione del concetto di fantasia al potere, un discorso sul potere visto attraverso gli occhi della fantasia. In conclusione, l’archetipo Superman è stato talmente dirompente, nella sua efficace miscela di miti classici e istanze moderne, da dare origine a un vero e proprio stampo, nel genere fumettistico: il semidio volante e proattivo, tendenzialmente amico dell’umanità, nel cui riflesso distorto e nicciano si può nascondere una certa sfiducia nei confronti del Potere.
1.2 Il secondo ingrediente: l’Ombra e l’ossessione
Il racconto poliziesco, la letteratura horror e il giallo psicologico hanno in comune un nobile progenitore: Edgar Allan Poe. Le sue storie cupe indagano i labirinti dell’animo umano, servendosi dell’orrore come filo di Arianna. Quelle atmosfere sono talmente suggestive e ghiotte che nel 1900, alle soglie degli anni venti, continuano a propagarsi nei pulp magazine, riviste poco amate dalla critica che propongono narrativa avventurosa, spesso raccapricciante, talvolta anche eroica. In questa cornice, nel 1919, Johnston McCulley dà vita sulla carta a un ricco nobiluomo che indossa una maschera nera per nascondere la sua identità e opporsi alla tirannia dei governatori corrotti della sua città. Il personaggio ha così tanto successo da venire trasposto neanche un anno dopo in un film muto, interpretato da Douglas Fairbanks. Il film si chiama The mark of Zorro. Se la curva temporale che va da Poe a Zorro fosse una nursery, è lì che sarebbe nato Batman.
Avventuriero e indagatore del mistero, vigilante e detective, Batman è una vittima illustre della propria tenebra metropolitana, un personaggio diviso tra senso della giustizia e necessità di usare la violenza, desideroso di infondere paura nei propri nemici, ma anche nella gente che deve proteggere. La sua è una crociata eterna e solitaria contro forze oscure ma ‘umane, troppo umane’ che gli si moltiplicano intorno ogni giorno.
Neanche a farlo apposta, la storia stessa della sua nascita editoriale è avvolta nel mistero. Quello che per decenni è stato considerato il suo unico creatore, Bob Kane, si è infatti a lungo rifiutato di dividere gli onori con quello che di fatto fu il suo co-autore – e, si vocifera, anche ghost-writer –, un suo associato di nome Bill Finger che morì in povertà e nel semi-anonimato a metà degli anni ‘70, e a cui sarebbero state riconosciute parte delle royalties soltanto nel 2015. Ad oggi non è ancora chiaro quanto, nelle prime sortite editoriali di Batman, fosse realmente attribuibile a Kane in termini di storie, atmosfere e disegni. Fatto sta che il risultato di quegli sforzi avrebbe lasciato all’industria un’impronta forse ancora più profonda di quella di Superman, in termini di successo commerciale e influenza nella cultura pop.
Innanzitutto c’è da dire che l’innovazione di Batman è nel suo essere, a differenza del collega dalle origini aliene, “solo” un uomo privo di superpoteri, che grazie a una motivazione interiore senza precedenti, diventa qualcosa di più: non un superuomo, ma una leggenda.
Al contrario di Superman, oltretutto, Batman indossa una maschera, agisce nel buio, ha a che fare con il lato oscuro della realtà, con l’abisso, quello che se lo guardi a lungo alla fine ti guarda dentro, eccetera. Chi ama Batman subisce la fascinazione della notte, l’idea che nel buio nessuno ti veda e che lì tu sia in grado di essere e fare tutto ciò che di giorno non ti è concesso. Batman fa al posto del lettore quello che non sempre questi si può concedere, nonostante lo voglia tanto: un tour nella tenebra del proprio tessuto sociale.
Ma c’è di più: Batman è refugium peccatorum di pulsioni conservatrici più o meno inconfessabili, la lotta al crimine del suo alter ego milionario Bruce Wayne rappresenta una mozione di sfiducia al sistema istituzionale di sicurezza, nonché un ottimo escamotage per attribuire un movente etico a un crociata moralista, basata sul pestare a mani nude i malfattori. Batman è un ricco cittadino preoccupato, ossessionato dal proprio dramma personale (la morte dei genitori per mano di un rapinatore), che è disposto a sacrificare sé stesso per aiutare la comunità ma decide di farlo a modo suo, combattendo la paura con la paura, perché il fine giustifica i mezzi spesso e volentieri.
Il numero di supereroi che presentano affinità più o meno dirette con Batman è sconfinato: solo la Marvel conta un nutrito gruppo di giustizieri in costume dalla storia personale tragica, il cui range di abilità super-umane o è minimale o rasenta il grado zero: dai più popolari Daredevil e Moon Knight ai meno riusciti Nighthawk e il Sudario. La stessa DC Comics si concede diverse variazioni sul tema del giustiziere mascherato che opera in un contesto urbano – si veda il popolare arciere Green Arrow, un Robin Hood metropolitano –, e in alcuni casi arriva a tingere di soprannaturale il tema della lotta al crimine, come accade con lo Spettro, presentato letteralmente quale incarnazione dello Spirito della Vendetta. Il conteggio diventa complicato se si includono anche tutte le altre case editrici che si sono occupate di supereroi nell’ultimo secolo.
Tuttavia, il contributo fondamentale di Batman al genere non si riscontra soltanto sulla facciata eroica della pagina, ma anche e soprattutto su quella dedicata agli antagonisti: Batman instaura un rapporto talmente ossessivo e simbiotico con la tenebra che spesso i suoi avversari sono vicini ad essere i veri protagonisti del fumetto, si guardi al successo degli spin-off dedicati a personaggi come il Joker, che meriterebbe un approfondimento a parte. L’Uomo Pipistrello è dunque il progenitore di un filone letterario in cui, più che dalle proprie capacità, l’eroe si lascia definire dal male con cui si misura.
1.3 Il terzo ingrediente: il viaggio dell’eroina
Nel 1913 William Moulton Marston, studente di psicologia dell’Università di Harvard, utilizza un test sulla pressione sanguigna come metodo di ricerca della menzogna. In pratica realizza il primo prototipo di poligrafo, la cosiddetta ‘macchina della verità’. Nel 1928 poi pubblica Emotions of Normal People, lavoro riconosciuto come fondamentale per l’elaborazione, in psicologia, della teoria DISC, modello comportamentale in quattro quadranti che serve a esaminare il comportamento degli individui nel loro ambiente.
Nel 1940, ormai psicologo affermato, rilascia un’intervista dal titolo Don’t laugh at the comic books a una rivista per famiglie, in cui descrive il grande potenziale educativo dei fumetti stessi. Il pezzo attira l’attenzione di Max Gaines, un editore, che assume Marston come consulente. In un settore nuovo come quello del fumetto supereroistico, dominato da uomini come Superman e Batman, e figlio dell’era dei pulp magazine in cui i duri e puri erano i protagonisti dell’avventura e le donne relegate al ruolo di vittime imponenti, William Moulton Marston pensò che sarebbe stato interessante creare un nuovo supereroe. che non si servisse solo dei pugni per affrontare il male.
Per caratterizzare il nuovo personaggio l’autore, che viveva una relazione poligama, si fece ispirare dalle sue partner, la moglie Elizabeth Holloway e la compagna Olive Byrne, e soprattutto fece ricorso, negli anni successivi alla sua creazione, alla sua ex studentessa Joye Hummel come ghost-writer, alla quale i giusti meriti verranno riconosciuti solo nel 2014. Fu così che, da questo milieu amoroso-intellettuale, sul finire del 1941 nacque Wonder Woman.
Diana è la figlia della Regina delle Amazzoni Ippolita, e grazie alla sua nascita semidivina è forte, veloce e invulnerabile quanto Superman. Abbandona l’Isola Paradiso, dove vive insieme alla sua sorellanza, per combattere la violenza dell’uomo sul suo mondo, quello del patriarcato. Lo fa armata solo della sua volontà e di un lazo magico, che costringe chi ne rimane avvolto a dire la verità.
Il riferimento alla mitologia classica è talmente evidente da consentire un’esegesi molto più diretta e accessibile delle sue ascendenze letterarie e culturali. Saggia come Atena e indomita come Artemide, Diana è l’eroina in grado di abbattere confini prestabiliti e di tracciarne nuovi, una portatrice di Risveglio in grado sia di proteggere che di ispirare a proteggersi.
Non si tratta di una versione al femminile di un supereroe maschio, come accadrà nel caso di Supergirl o Batwoman, ma di un archetipo sorgivo e autonomo, un’icona di Potere e indipendenza inscindibile dal genere femminile. Soprattutto, proprio per la sua attitudine alla sorellanza, Wonder Woman porta istanze di cooperazione tra i suoi colleghi (non è raro vederla caratterizzata come la forza aggregante della Justice League), non riconosce né sa codificare le ipocrisie e i dettami delle convenzioni sociali e religiose del mondo occidentale. La sua forza nasce dalla capacità di creare legame con l’altro da sé: che sia una sorella amazzone o un sodale.
Tuttavia, nonostante la sua natura di supereroina avversa al patriarcato, neanche lei sarà immune, negli sciovinisti anni ‘50, dall’ossessione per il matrimonio. Ancora, negli anni ‘70 subirà una perdita momentanea dei super-poteri. Nonostante nella volontà degli autori (prevalentemente maschi per molti decenni), questo cambiamento puntasse a un ripiegamento intimista del personaggio, verrà revocato a furor di popolo proprio perché visto dal pubblico femminista come il contrario dell’empowerment richiesto dall’archetipo. Al netto di questi saltuari passi indietro Wonder Woman rimarrà un insuperabile termine di paragone per tutte le supereroine che nasceranno dopo di lei.
Si pensi a Capitan Marvel (intesa come la versione Marvel del personaggio, dato che ne sono esistite diverse e di diversi generi) una semplice terrestre che da umana, conseguirà un’evoluzione “cosmica” che la renderà semi-onnipotente: o alla maestosa Tempesta degli X-Men, fiera dominatrice degli elementi atmosferici e instancabile guida, sul campo di battaglia, delle minoranze oppresse.
1.4 Quarto ingrediente: il supereroe con super-problemi
Nei primi anni ‘50 una campagna moralizzatrice portata avanti dallo psichiatra Fredric Wertham e dal senatore Estes Kefauver accusa gli albi a fumetti, in particolare quelli con supereroi come protagonisti, di corrompere le menti dei giovani lettori con rappresentazioni di violenza estrema e sessualità ambigua.
Le case editrici sono costrette ad adottare una regolamentazione severa in termini di contenuti grafici e argomenti trattati, ma le vendite crollano di lì a poco. Eccezion fatta per Superman, Batman e Wonder Woman che sono ormai abbastanza popolari da campare di rendita – pur subendo notevoli modifiche nei toni e nelle atmosfere per aderire al costume vigente –, le case editrici ripiegano su fumetti western o blandamente horror. In molti casi si tratta di materiale destinato a non rimanere impresso nell’immaginario collettivo.
Nei primi anni ‘60 infine, in seguito al successo inatteso della Justice League of America (supergruppo che comprende i tre capisaldi DC Comics) Martin Goodman – editore di quella che di lì a poco diventerà la Marvel Comics – suggerisce al suo uomo di fiducia Stan Lee di realizzare un fumetto incentrato su un gruppo di avventurieri con superpoteri. Data la diffidenza ancora persistente sui supereroi, Stan Lee punta forte su elementi di fantascienza consolidati e vincenti, lasciando libero sfogo al suo partner disegnatore Jack Kirby, col contributo del quale dà vita sulla carta a personaggi fittizi che hanno sì abilità straordinarie, ma che almeno inizialmente vengono raffigurati in abiti civili. Si assicura inoltre che tra i personaggi figuri un mostro, perché qualora le cose si dovessero mettere male il fumetto verrebbe spacciato per un horror. Nacquero così i Fantastici Quattro, una famiglia atipica e disfunzionale di esploratori dell’ignoto, che acquisisce i suoi poteri durante un viaggio alla scoperta del cosmo.
Negli anni successivi fu la volta di Hulk, degli X-Men, di Spider-Man e del Dottor Strange (questi ultimi due Stan Lee li realizzò invece in collaborazione col disegnatore Steve Ditko).
Non si è mai capito quali fossero le percentuali esatte della paternità di questo ingrediente segreto, fatto sta che Stan Lee, sceneggiatore, insieme a Jack Kirby e a Steve Ditko, che definire disegnatori è riduttivo, lo resero un marchio di fabbrica a partire dal 1961: supereroi con super-problemi.
Personaggi dalle capacità straordinarie dotati di caratterizzazioni squisitamente umane, in un mondo che fino al giorno prima era stato dei super esseri al di là di qualsiasi debolezza o di avventurieri milionari sempre un passo avanti al problema.
La rivoluzione Marvel impose fragilità, insicurezze, basse emozioni come la gelosia, l’invidia, la rabbia, la sfiducia, la testardaggine. L’intero spettro emotivo di persone comuni, finite al centro di una storia straordinaria.
Altro elemento significativo: la gran parte dei personaggi in questione non ha scelto volontariamente di ottenere i suoi poteri, questi gli capitano piuttosto a causa di incidenti che ne scatenano i mostri della psiche, come nel caso di Hulk, o che li mettono a confronto con le proprie responsabilità, come nel caso di Spider-Man.
I superpoteri dunque non vengono necessariamente visti come un dono ma spesso come un fardello, una maledizione da esorcizzare mettendosi al servizio del prossimo. Al contempo, questi fungono anche da metaforico empowerment per personaggi che vivono condizioni di disabilità.
Daredevil è cieco, Iron Man è tenuto in vita da un complesso peacemaker, il Dottor Strange ha perso l’uso delle mani prima di ricevere la sua iniziazione alle Arti Mistiche. Persino Thor, letteralmente il Dio del Tuono norreno, nella sua primissima incarnazione è un medico umano con problemi di deambulazione a cui capita di reperire, nelle mitiche grotte della Scandinavia, il martello di Uru, Mjolnir.
La ricetta è quella giusta e il momento è il più fertile possibile: il mondo Marvel si rivela un carrozzone talmente variopinto che tocca trasversalmente più tipi di pubblico, soddisfacendone sia le istanze ludiche che quelle di identificazione: ognuno si può riconoscere in più personaggi perché la loro caratterizzazione si fonda sul concetto di imperfezione, di disadattamento, di non adesione allo standard eroico.
Al netto degli Iron Man, dei Capitan America e degli Hulk (che poi non è altro che una digressione “nucleare” sul tema Jekyll e Hyde), le creazioni che più saltano all’occhio per la loro originalità, sono due e infatti sono quelle che storicamente hanno raggiunto il maggior successo editoriale per la Casa delle Idee, prima che questa conseguisse l’egemonia cinematografica odierna: si tratta di Spider-Man e degli X-Men.
Il primo è una persona comune a cui il destino ha affidato capacità straordinarie, che indossa una maschera per proteggere la propria identità ordinaria e si lascia definire dalle azioni che compie. Chiunque, nelle stesse condizioni di Peter Parker, potrebbe diventare Spider-Man, a patto di saper sviluppare il proprio senso di responsabilità di fronte a un trauma subito. La felice mescolanza di elementi che il personaggio rappresenta, all’interno del genere supereroistico, viene esaltata dall’originalità del suo set di poteri, dal suo legame con la reale città di New York, al contrario delle metropoli fittizie in cui operano Superman e Batman, e soprattutto dal suo status di giovane uomo in via di maturazione: custode cioè di quel margine di errore e inesperienza in cui l’identificazione del pubblico più giovane, giustamente, sguazza.
Dall’altra parte ci sono gli X-Men, paladini dell’etnia mutante, ovvero di tutte le persone nate con un gene speciale che gli conferisce fattezze e poteri che fanno paura al comune homo sapiens sapiens. Si tratta di una squadra di eroi tragici, che tenta di proteggere un mondo che li teme e li odia, costantemente in bilico tra il sogno di integrazione pacifica del fondatore Charles Xavier e le teorie separatiste dell’antagonista Magneto. Il filone mutante Marvel, ispirato dalle lotte per i diritti civili degli anni ‘60 e ciclicamente rinvigorito dalle tematiche attiviste delle decadi successive, rappresenta la coralità nella coralità, un mondo a sé in cui la linea della moralità e dell’etica è molto più sfumata, e può essere attraversata in entrambe le direzioni in continuazione. Questo perché al centro della sua narrazione c’è la ricerca di un equilibrio tra sopravvivenza e integrazione. Nei fumetti degli X-Men ci si interroga da decenni, con esiti prevalentemente degni, su cosa voglia dire accettazione, tolleranza, convivenza e, soprattutto, discriminazione.
Se Spider-Man ridefinisce i crismi dell’eroe mascherato solitario, gli X-Men non si limitano a fare lo stesso al plurale, ma introducono il concetto di compagine eroica riluttante, presa a metà tra speranza e persecuzione. Una qualità del tutto nuova del gioco, iniziato il quale nulla nei fumetti sarà più lo stesso.
2. Compendi e conclusioni: lo spazio infinito, l’Aldilà, la distopia e il multiverso
Se finora ci siamo limitati a parlare di archetipi e personaggi, per completare il quadro è probabilmente necessario concentrarsi sulle frontiere.
Superman, Batman e Wonder Woman hanno avuto un ruolo pionieristico e la prima ondata di personaggi Marvel ne ha avuto uno rivoluzionario, ma nello spazio che intercorre tra i primi e i secondi è avvenuta un’escalation di contesti e atmosfere che ha, da un lato, definito il genere e dall’altro aperto scenari e potenzialità narrative che vanno ben oltre la città da salvare e i civili da difendere.
Trattandosi di fantasie colorate con ascendenze mitologiche, quando parliamo di scenari intendiamo tutte le strade non percorribili a piedi: continenti dirimpettai e mondi lontanissimi, alcuni ostili, altri disabitati, altri ancora floridi e civilissimi, universi che vibrano a frequenze parallele, regni sommersi e nascosti nel cuore del più antico dei continenti, non-luoghi abitati da entità al di fuori del tempo, persino l’inferno stesso, col Diavolo e le sue sacche gonfie di anime prigioniere. Nelle storie di supereroi tutto questo coabita a dispetto delle distanze, c’è spazio per ogni ipotesi di esistenza.
Nel mondo bidimensionale dei fumetti queste soglie erano state attraversate per la prima volta da tre personaggi che abbiamo già nominato in precedenza, ma che non possiamo ascrivere all’universo supereroistico per cavilli tecnici: stiamo parlando del Flash Gordon di Alex Raymond, esploratore del cosmo e dei suoi mondi fantastici, del mago Mandrake e dell’invincibile Phantom, protettore della giungla, entrambi creati da Lee Falk. Nati tra il 1934 e il 1936, sono stati ancora più pionieristici dei campioni DC nel rapporto con le soglie dell’immaginario, e agli eroi in costume hanno lasciato un’eredità di scenari e possibilità narrative che non ha fatto che espandersi, soprattutto dagli anni ‘60 in poi.
A questo proposito due personaggi meritano una menzione particolare, in quanto novelli Virgilio per gli appassionati del genere. Il super velocista Flash, ad esempio, non è soltanto una sorta di Ermes contemporaneo col potere di arrivare in anticipo sul posto di lavoro, ma anche il primo a schiudere le porte del multiverso sulle pagine di un fumetto. Nel 1961 infatti, grazie al suo potere di far vibrare le molecole a velocità supersonica attraverso le dimensioni parallele, è in assoluto il primo supereroe a incontrare il suo alter ego di un’altra Terra. Da allora, da buon primatista, lo farà parecchie volte. Per lo stesso motivo, sarà anche uno dei più lesti a viaggiare avanti e indietro nel tempo.
Per quanto riguarda la frontiera dello spazio infinito, invece, è Lanterna Verde a presentarci un primo, cospicuo numero di razze e mondi alieni che fino ad allora avevano popolato soltanto la fantasia distratta del pubblico. Questi è una sorta di avventuriero scavezzacollo, appartenente a un ordine di guerrieri spaziali a cui si può aderire soltanto mostrando grandi doti di volontà e capacità di superare qualsiasi tipo di paura. È il detentore di un anello del potere in grado di creare qualunque oggetto si riesca a immaginare, dal più semplice al più complesso, e di qualsiasi dimensione, composto di energia verde. Un anello che gli consente di sopravvivere nello spazio siderale, di volare a velocità elevate e di tradurre istantaneamente qualunque linguaggio, permettendogli dunque di comunicare con qualunque forma di vita aliena. Il tono delle avventure di questi due personaggi influenzerà e ispirerà a sua volta la nascita dell’altrettanto nutrito cast di viaggiatori dello spazio-tempo che hanno arricchito il mondo Marvel, dagli eremiti spaziali Silver Surfer e Adam Warlock alla popolarissima armata Brancaleone nota come i Guardiani della Galassia.
Per quanto riguarda la frontiera immaginaria del mondo conosciuto, invece, spetta alla Marvel un primato importante: la realizzazione di un primo eroe mascherato nativo africano. Nel 1966 Pantera Nera e il regno ipertecnologico di Wakanda fanno il loro esordio nel mondo a fumetti e danno una prima risposta al problema della penuria di protagonisti non bianchi enon anglosassoni. Da allora in poi, pur con gli inciampi dovuti alle fluttuazioni del dibattito su immaginario coloniale, diritti civili e rappresentazione, le porte del multietnicismo tra gli eroi in costume si potranno dire definitivamente aperte.
Sempre in casa Marvel, infine, vale la pena citare il motociclista infernale Ghost Rider, un teschio infuocato vestito di pelle a cavallo di una Harley Davidson, quale definitivo suggello dell’egemonia supereroistica anche sul già consolidato filone horror. Come lo Spettro nella DC Comics e le Erinni nella mitologia greca, anche Ghost Rider è l’incarnazione dello Spirito della Vendetta e non sarà infrequente nelle sue avventure incontrare il Diavolo in persona e i suoi demoniaci servitori.
Per esigenze di narrazione, poi, c’è da dire che al cosmo infinito, ai viaggi nel tempo e a quelli all’inferno si è aggiunto, negli anni, un florilegio di universi paralleli, versioni alternative che vanno da Superman afroamericani a Spider-Men di più mondi. Il sogno di un solo essere umano in costume, in volo sui grattacieli, è diventato un ripetitore di sogni infiniti, pluralisti.
Va da sé che il grafico lineare di archetipi semplici, presentato all’inizio, abbia assunto nell’arco di novant’anni le forme di un mosaico complesso, ricco di doppioni, postille e varianti (come d’altronde vale per tutti i miti classici). Per approcciare questo mondo bisogna quindi abbandonare l’idea di una linearità narrativa, almeno in senso classico. Qualsiasi sia il personaggio che si vuole approfondire, nell’approcciarsi al mondo dei supereroi, ogni inizio è sempre arbitrario, perché si deve cimentare con una vocazione alla molteplicità. Si tratta di un mondo che ha abbracciato, in nome dell’intrattenimento, la propria natura cangiante, reticolare, multipla.
D’altro canto, partireste da Esiodo per approfondire il mito greco? O dall’Odissea, che già presuppone tutta una conoscenza pregressa della materia? O forse dalle Argonautiche, opera ellenistica che poggia su tradizioni orali molto più antiche? Ogni narrazione lineare sistematizza solo una parte del mosaico, per questo anche con il mondo dei supereroi, così come per quello del mito, tentare di tracciare una mappatura squisitamente cronologica si rivelerebbe un approccio riduttivo, limitante, solo in parte efficace.
Per iniziare con queste storie di carta colorata, dal dubbio valore artistico, il consiglio di chi scrive è partire da ciò che si percepisce come più familiare, vicino. Con la narrazione nella quale pare di sentir risuonare la propria.
Un ringraziamento speciale a Gaia Benzi, compagna di chiacchiere in maschera e costume, alla scoperta di mondi paralleli.
Copertina a cura di Demi Straulino