L’unico modo per liberarci dalla cultura patriarcale è rappresentarci vincenti, talentuose, di successo?
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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L’unico modo per liberarci dalla cultura patriarcale è rappresentarci vincenti, talentuose, di successo?

È tutta qui la rappresentazione del femminile? Dov’è la donna schifosa, quella perdente, “racchia”, grassa, pelosa, fallita?

Tutti giù per terra — «Qualsiasi cosa facessi tutto mi ricadeva addosso, peggio che nei miei incubi» dice Walter Verra, il protagonista del film Tutti giù per terra di Davide Ferrario, esordio di un giovanissimo Valerio Mastrandrea nel 1996. Walter è il figlio di un operaio, ma a differenza del padre non ha ferree convinzioni politiche, non vuole cercarsi un lavoro vero, fallisce in quasi tutto quello che fa, non ha particolari velleità artistiche. Quando un suo racconto viene pubblicato in quanto «ritratto della sua generazione» sbotta rassegnato un vaffanculo. Eppure sono gli anni della Generazione X, che urla a gran voce che di realizzarsi gliene importa poco, che c’è spazio solo per le disillusioni e per tanta tristezza. Gli anni di Trainspotting e Prozac Nation, gli anni in cui la depressione veniva diagnosticata di più.

«La depressione è, o meglio era, il principale stato d’animo in società che si sono convinte di non avere nulla di meglio da sperare. I giorni di gloria del neoliberismo hanno prodotto una cultura giovanile disinteressata e rinunciataria che disprezzava gli ideali di sicurezza e consumismo dei loro genitori. Le apparteneva un’avanguardia di punk e poeti la cui rabbia s’inviluppò in un groviglio di disaffezione, riverbero e sfortunati lavori autoreferenziali.» scrive Laurie Penny in un suo fortunatissimo pezzo su The Buffler. Decisamente una generazione di falliti.

Christina Ricci in “Prozac Nation”

Venti anni dopo quei sogni sono definitivamente irraggiungibili. «Scegli la vita? Scegli una casa, una famiglia e un lavoro? Molti di noi possono solo sognare di avere abbastanza sicurezza per accontentarsi dell’idea di esserne alienati» prosegue la giornalista. La sua tesi di fondo è che oggi saremmo invece prevalentemente ansiosi: «Prozac Nation Is Now the United States of Xanax» per citare il sociologo Alex Williams.

Di sicuro, i disturbi d’ansia e quelli depressivi hanno una matrice socioeconomica comune, e certamente possono essere entrambi fortemente invalidanti, impedendoci di vivere regolarmente le nostre vite, o di raggiungere degli obiettivi.

Ancora oggi, più che mai, a nessuno di noi è concesso fallire. Ce lo insegnano fin dai banchi di scuola, ce lo ripetono all’università, dove la competizione si fa sempre più serrata, e ci arriva dritto in faccia come un treno quando entriamo nel mondo del lavoro, dove il precariato è una condizione emotivamente devastante, ma provano a vendercela come cool, all’insegna dello spirito migrante e libero della gioventù.

Che succede poi se non si ha nessuna particolare vocazione o non ci si vuole sforzare a trovarne una?

I social strabordano di foto tanto di influencer quanto di persone comuni con didascalie inneggianti alla resilienza, la capacità di resistere e adattarsi alle difficoltà della vita per poter sempre tornare in gioco più determinati che mai. Per il rassegnato, l’ansioso, il depresso, il perdente insomma, c’è poco spazio.

Non è un caso che appena serie come l’ormai cult Bojack Horseman di Netflix arrivano al pubblico, ci sia tutta una fanbase che corre a identificarsi con il cavallo di Hollywoo(b), con i suoi reiterati insuccessi, la sua tendenza ad autosabotarsi e ferire tutte le persone intorno a sé fino a restare solo. Eppure Bojack non è un personaggio goffo e naif di Nanni Moretti, uno che dice «sono fatto male» e lo possiamo citare nei meme. Non è il tenero ma Creep(y) weirdo di Tom Yorke che cantiamo intorno al falò in spiaggia d’estate con la chitarra. È soprattutto un vero stronzo, uno che se fosse un nostro amico probabilmente lo avremmo già preso a pizze in faccia. Probabilmente quello che ci aspettiamo che gli altri facciano a noi quando siamo talmente involuti nel nostro disprezzo per noi stessi da non accorgerci di cosa facciamo.

Sembra infatti che il self-hatred, il disprezzo verso se stessi dovuto all’incapacità di rispondere a certe aspettative sociali, sia spesso una conseguenza dell’internalized oppression, l’oppressione interiorizzata, ossia la tendenza a fare proprie certe forme di discriminazione o esclusione sociale ed indirizzarle verso di sé o verso i membri della propria comunità. Insomma, non solo ci sentiamo schiacciati, ma anziché incanalare la nostra frustrazione in una coscienza di classe ci rassegniamo, siamo in ansia, o finiamo gioco forza a far male a tutti quelli intorno a noi. Si tratta un po’ di quello che accade nel pluripremiato premio Oscar Parasite in una scena destinata a diventare iconica .

Anche se quello di Bojack è un dramma tutto individuale, incuriosisce sempre più la tendenza al maschile di rivendicare un nuovo tipo di loser, che non è più quello cantato da Beck, e nemmeno il protagonista di un libro di Nick Hornby. È un perdente senza redenzione, uno schifoso. E le donne?

 

Tuca e Bertie

La saga di Bojack Horseman è ora arrivata all’epilogo dopo ben sei stagioni, ma la sua scenografa e produttrice Lisa Hanawalt ne aveva ideata un’altra, probabilmente meno nota: Tuca e Bertie. Non rinnovata, purtroppo, già dopo la prima serie. Approdata su Netflix Italia lo scorso 3 Maggio, Tuca e Bertie è la storia di un tucano e un usignolo, due amiche sulla trentina che dopo aver vissuto per molti anni insieme diventano vicine di casa dopo che Bertie sceglie di convivere con il compagno pettirosso Speckle. La voce di Tuca è della stand up comedian americana Tiffany Haddish.

Se il cavallo antropomorfo rappresenta i disagi profondi della nostra epoca, i personaggi di Tuca — in particolare — e Bertie devono affrontare oltre ai drammi dell’atomizzazione sociale, del fallimento, delle dipendenze, una questione per niente irrilevante: la questione di classe. Rappresentano due donne della classe media, che si dedicano l’una ad un noioso lavoro impiegatizio che non a caso la porterà a cercare altri stimoli e l’altra, disoccupata ancora in ripresa dalla sua dipendenza da alcol, a fare saltuariamente la cam girl (in un modo del tutto originale) per arrotondare e riuscire a pagare l’affitto. Due perdenti.

Nulla in questa serie è retorico o macchiettistico: a guardarla, la prima sensazione che si prova è di sincero divertimento e di grande sollievo nel veder finalmente rappresentate le caratteristiche del femminile ad ampio spettro, fuggendo facili stereotipi ed intrattenendo con gusto.

 

Sputiamo su Lilli Gruber

C’è una grande ondata di femminismo liberale, neoliberista, rappresentato nella cultura mainstream soprattutto da pagine come Freeda, che prendono a modello brillanti donne imprenditrici: l’ultimo libro di Lilli Gruber, la nota giornalista di La7 che su internet fa proseliti s’intitola Basta! Il potere delle donne contro la battaglia del testosterone. Ma di quale potere parliamo? Un bellissimo libro che riflette sul significato del potere, Ragazze Elettriche di Naomi Alderman (The Power il titolo originale), ci insegna che un semplice ribaltamento del sistema di oppressione sarebbe solo una prospettiva distopica. 

Perché l’emancipazione e l’empowerment della donna devono per forza passare dal mito capitalista del successo? È tutta qui la rappresentazione del femminile? Dov’è la donna schifosa, quella perdente, “racchia”, grassa, pelosa, fallita? Quella che non ha soldi, la sottoproletaria, quella non aggraziata, non attraente, rumorosa?

[ATTENZIONE SPOILER SU BOJACK HORSEMAN! ndr] Quando nell’ultima stagione di Bojack Horseman Diane si abbuffava tutto il giorno perché depressa, ho sperato davvero per tutto il tempo che dopo venisse ridisegnata in una forma fisica diversa, non sempre perfetta e impeccabile, come se nulla fosse successo, come se una donna che fallisce debba nasconderlo ancor più di un uomo. Perché alle donne lasciarsi andare non è permesso. Per fortuna è stato così, a prova del fatto che certi disagi mentali modificano fortemente anche il corpo, e la fatica da affrontare diventa doppia, una lotta contro un doppio stigma: da un lato una forte sofferenza, dall’altro l’idea che non si possa e non si debba mai, in quanto donne, rendersi poco desiderabili.

Intendiamoci: la donna brutta al cinema come in tv, nei libri come nell’intrattenimento ci è sempre stata, si pensi, per restare nell’ambito del pop, alla celeberrima e stereotipata Ugly Betty, o alla simpatica portinaia del bestseller L’eleganza del riccio, che però si affranca in quanto elegante e coltissima.

La sola donna perdente è quella esclusa dal mercato del sesso, per nessun particolare demerito se non la colpa ancestrale di non rendersi abbastanza attraente: fa schifo solo ed unicamente perché non ce la si porterebbe mai a letto. Al polo opposto ci sono tutte le altre; nessuna sfumatura, nessuna sfaccettatura. 

Davvero l’unico modo per liberarci da una cultura patriarcale è rappresentarci sempre come vincenti, talentuose, di successo? Proviamo a rivendicare anche noi una rappresentazione al femminile dello schifo, della sconfitta: vogliamo le donne che si abbuffano, che ingrassano, che ruttano, che non combinano niente di buono nella vita, che sbagliano sempre, che sono un sacco di pulci, che si ubriacano, che sono sole. Più tucane antropomorfe delle quali poter dire «sono proprio io!». 

Valeria Marzano
Classe '95, vive a Roma e studia filosofia. Cerca continuamente vie di fuga ed ama i contenuti in low qual.
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