Ho un soffitto bianco, nel centro c’è un disegno geometrico in rilievo, anch’esso bianco. Non ha molti dettagli in cui perdersi, se non alcune piccole crepe leggere, e forse il gioco di luci e ombre che si crea con i rilievi del quadrato disegnato. Ogni sera riscopro il mio soffitto bianco. Nel momento in cui vado a dormire e mi sdraio sul letto, sentendo nella schiena quella sensazione di sollievo più totale, come se avessi lavorato in miniera, invece ho solo cercato anche oggi di mettere insieme i pezzi della mia nuova vita da neolaureata e neosingle. Diciamo che dopo l’ennesimo colloquio muto tra il mio sguardo fisso, il soffitto e il senso di vuoto abissale e irremovibile che non smette di abitare il mio corpo ho deciso di affrontare la cosa, anche solo scrivendone.
Ogni periodo è il periodo peggiore della vita di qualcuno e nell’ultimo anno è stata una situazione più comune del solito (o forse no?). Per quanto mi riguarda, laurearsi sotto una pandemia mondiale non è ciò che c’è di più speranzoso. Per chi ha deciso di dover fare i primi passi nel mondo del lavoro, scegliendo di non continuare a studiare, è una situazione assai debilitante. Sia chiaro che scrivo queste righe ben cosciente di non avere il problema più grave in assoluto, e che i neolaureati non sono la vittima numero uno di questa pandemia. Fatto sta che ha portato anche a noi una bella dose di precarietà lavorativa, oltre che psicologica. Bisogna solo rimandare la nostra entrata nel mondo, aspettare.
L’attesa è una condizione che ha cominciato ad abitare sempre di più le nostre vite. Tutto è fermo, non si assumono persone nuove. Si aspetta. Tu che volevi andartene da casa e soprattutto cambiare città (più che un desiderio ora è diventata una necessità) devi aspettare. E il peso delle quattro mura che ormai quasi da un anno circondano la tua vita è diventato insostenibile, soprattutto se si aggiunge una convivenza ormai insoffribile. Quando riesci a uscire, vaghi per una città che non fa altro che confermare lo straniamento che senti dentro. Ripercorri strade che facevi quando eri un’altra persona, forse cercando di esorcizzare qualcosa, ma non fai altro che scoprire passo dopo passo quanto sei afflitto in realtà. Nel ricordo di quella sensazione che anche quando non succedeva niente, anche quando le giornate erano forse meno produttive di queste, sentivi la tranquillità di avere una vita piena.
Vladimir Jankélévitch nel suo saggio L’avventura, la noia, la serietà distingue nei tre fattori tre modi di abitare il tempo. Ciò che è vissuto e passionalmente sperato nell’avventura è la comparsa improvvisa del destino, di quella deviazione che cambierà la tua vita. L’avventura non è più nella sfera dell’azione, ma è una disposizione esistenziale ad accogliere l’imprevisto, è uno “stile di vita”. L’avventura è l’eccitazione di un nuovo inizio, che però è circoscritta nell’istante, ossia non ha una durata, è ciò che muore nascendo. La serietà invece, non è un modo di vivere il tempo, ma di pensarlo e prenderlo in considerazione nella durata più lunga possibile. La serietà racchiude una durata creatrice, che avanza, in cui costruisci la tua vita, senza nessun desiderio di sorpresa. La serietà, come anche la noia, considerano il destino come un intervallo di tempo. E se l’avventura si riconosce nell’istante intenso di un nuovo inizio, la sua continuazione sarà, secondo i casi, seria o noiosa.
Come l’attesa è sempre più presente nelle nostre vite, così anche la noia. E a volte raggiungiamo un’apatia tale da non riuscire neanche più a desiderare qualcosa come quell’avventura. Nonostante la noia sia la predisposizione per accogliere l’avventura, spesso si materializza come paura della noia stessa. E questa inquietudine fa sì che la noia sia proiettata verso il futuro, verso l’aspettativa del futuro che troppo lontano finisce per svuotare il presente di tutto il suo valore. Perciò il tempo della noia diventa un tempo negativo, che non avanza, e noi finiamo per non abitare più il tempo e cominciamo a subirlo.
Questa condizione, la noia per paura della noia stessa, può tramutarsi velocemente in uno stato di angoscia, soprattutto se affiancata da un’attesa, magari sotto sotto senza speranza.
Quante volte ti hanno detto «È normale che all’inizio sia difficile», «Non ci sei solo tu in questa situazione, per tutti quanti è tutto fermo»? Apparentemente non avresti motivo di angoscia. Ma per l’appunto l’angoscia è una paura senza oggetto, è l’incapacità di definire il punto preciso in cui giace o da cui nasce quella sensazione. È un timore vacuo, che può essere anche causato da quell’impressione di mortale solitudine che sopraggiunge alla fine di una giornata sprecata. Jankélévitch definisce quella sensazione il “je ne sais quoi”, impalpabile e crudele.
Ora le giornate non produttive non sono più salvate da quella sensazione di pienezza della vita. Quando affronti la fine di una relazione importante, inevitabilmente hai una sensazione di smarrimento (?), non si sa bene come definirla, è vaga anche questa. Fatto sta che puoi anche essere una persona forte e indipendente, ma è innegabilmente un cambiamento, grosso. E in un modo o nell’altro riesci a sentire delusione e rabbia. Ma ancora una volta, logicizzi le tue emozioni e capisci che non hai motivo di sentire rabbia o delusione. E quando un sentimento è infondato, è inquietante. Quando c’è un’impalpabilità crescente che si insinua vorticosamente, reagisci sempre meno.
“Rinunciare al mondo”, questo fa il protagonista di Un homme qui dort di George Perec. Con un racconto che non avanza, si legge di un giovane uomo che si ritrova nell’indifferenza più totale per il “non-gesto” di non alzarsi la mattina di un esame. Un uomo che ammazza il tempo, lo annulla. Non è né la noia che ti predispone all’avventura, né la serietà con cui pianifichi qualcosa. Nulla è pianificato, e quella che potrebbe sembrare noia è in realtà apatia. Il disinteresse di tutto ciò che ti circonda. Il rifiuto di una socialità. Il rifiuto del linguaggio, incapace di descrivere ciò che ti succede. Una condizione inspiegabile, eppure inevitabile. Tutto è pesantezza. Vivi tra l’indifferenza generale e il dolore psichico e fisico più atroce. All’improvviso ti ritrovi con gli occhi fissi su quel soffitto bianco, non pensi a niente, non senti niente, non hai voglia di niente.
Ma accorgerti di avere dentro il vuoto cosmico è terrificante. Senti il bisogno di attivarti, di fare qualcosa. In fondo la dinamica di una società che non si ferma mai, che ha il costante bisogno di produrre, si è ben radicata nel tuo cervello. Magari vedere gente e fare cose potrebbe distoglierti dalla tua condizione. Quello specifico affetto che non hai più puoi benissimo trovarlo da altre parti. Non hai bisogno di “qualcuno”.
Finalmente trovi la motivazione di reagire, senti di nuovo il bisogno di contatto fisico, torna in te la forza di volontà necessaria per uscire da quella noia, che in realtà è una situazione molto più complessa.
Ed ecco che ti scontri di nuovo con la realtà. Da un anno viviamo nel mezzo di una pandemia che ci impedisce di essere come siamo sempre stati. Non possiamo abbracciare un amico che non vedevamo da tempo. Le cene, i luoghi-momenti di evasione, il senso di pace e felicità dopo una serata passata a ballare, l’intimità di condividere un drink, di far assaggiare il proprio piatto, di smezzare una sigaretta. E se hai solo una laurea triennale spesso l’unica cosa che puoi fare è trovare uno stage, anche minimamente pagato. Ma nessuno prende stagisti ora. E se stai vivendo una convivenza che ti sta letteralmente corrodendo dentro, non puoi cambiare città o anche solo casa perché non puoi mantenerti.
Gli ultimi quattro mesi sono stati il periodo peggiore della mia vita, finora. Senza certezze, senza sfoghi. Con l’angoscia di non capire perché così tante persone avessero così tante aspettative su di me. Col bisogno frenetico di dover sempre fare qualcosa di utile. Senza riposo. Cercando di colmare il vuoto lasciato da una relazione quasi totalizzante.
La pandemia ci ha fatto riconsiderare un sacco di cose. Ci ha fatto scoprire lati di noi che non conoscevamo del tutto. Ci ha fatto cambiare il modo in cui vivevamo il tempo. Ci ha fatto cambiare le nostre abitudine. Ha trasformato le nostre prospettive di vita. Ci ha fatto fermare. Ci ha impedito di essere continuamente proiettati verso la prossima cosa che avremmo dovuto fare. Ha mutato il nostro sguardo dall’esterno verso l’interno. Non è più stato possibile vivere in quella confort zone autodistruttiva. Abbiamo dovuto reinventarci, gestire situazioni psicologiche che forse prima ci sarebbero sembrate impossibili da superare. E ci ha spinto a parlarne.
In copertina © Sophie Benini Pietromarchi