Il discorso sulla cultura nerd e su quali siano le peculiarità che caratterizzano il nerd, ora che tanti feticci della sua formazione acquistano sempre più spazio (o quanto meno l’immagine della sua formazione, fatta di fumetti, videogiochi e altre costanti di cui tutti abbiamo una percezione, anche vaga), è particolarmente appassionante, data la quantità di materiali che sono stati prodotti sull’argomento (su Dude Mag, qualche tempo fa, abbiamo intervistato Eleonora C. Caruso, curatrice di Nerdopoli). Una condizione iniziale, in particolare, sembra legare ogni discorso: non è possibile disegnare un quadro preciso, assoluto e indiscutibile sul nerd. Troppo fluido il campo semantico a cui la parola rimanda per poter fissare dei paletti e proporre definizioni valide per l’eternità. Meglio, allora, scegliere prospettive parziali, muoversi ai lati di questa cultura e focalizzare singole esperienze.
Il ricchissimo Guida all’immaginario nerd, da poco pubblicato da Odoya, non sfugge certo a questa situazione, ma pur partendo dalla solita premessa di insufficienza, e lasciando spazio ai punti di vista dei singoli autori, ha lo straordinario merito di imporsi come un libro particolarmente completo, tanto approfondite sono le incursioni e le riflessioni sul tema (dove la parola “immaginario” offre maggiori aperture e suggestioni della comunque valida “cultura”). Questa sensazione di completezza è dovuta proprio al fatto di aver lasciato parlare esperienze reali, percorsi individuali e terreni prediletti, senza abbandonarsi a un inventario di oggetti e temi che sarebbe stato francamente sterile (come giustamente si legge nell’introduzione: «questo inventario verrebbe a coincidere con buona parte della cultura pop — e non solo pop — senza dirci nulla su ciò che distingue — se lo distingue — il nerd da chi semplicemente vive immerso nel nostro tempo»). In molti casi è facile riconoscersi nei discorsi affrontati, in altri si possono cogliere nuovi aspetti a proposito di prodotti che il lettore ha frequentato o frequenta ancora, oppure si accolgono suggerimenti per scoprire qualcosa di nuovo (una serie, un videogioco, un fumetto, ecc.).
Si comincia con Fabrizio Venerandi e il suo capitolo sulle prime esperienze informatiche degli anni Ottanta (ma siamo ancora lontani da quella diffusione capillare che si vedrà tra i Novanta e i primi Duemila) e sullo sviluppo dei videogiochi, dove viene suggerita un’interessante definizione del nerd come colui che, sulla spinta della propria passione, non si limita a godere di un oggetto ma ne partecipa a suo modo, inizia a trasformarlo, «non accetta la realtà, perché sa che la realtà non si accetta, si compartecipa». Ma Venerandi ci ricorda che ogni generalizzazione è pericolosa, e arriva a sostenere che «i nerd non esistono», poiché ognuno è, o non è, nerd a modo suo.
A seguire, il notevole saggio di Jacopo Nacci che, passando attraverso differenti prodotti della cultura pop anni Ottanta e avvalendosi di ottime schede di approfondimento redatte da altri autori (Andrea Babich, Alessandro “DocManhattan” Apreda, Gianfranco Causapruna, Lorenzo Fantoni, Edoardo Rialti, Francesco Ristori e Vanni Santoni), identifica la forma di vita dei nerd vecchia scuola come «fondata sugli immaginari».
Gregorio Magini (intervistato, qui su Dude, per l’uscita del suo ultimo romanzo, Cometa: in quell’occasione abbiamo parlato anche di videogiochi) ci racconta, con ironia, le sue Storie da nerd, tra videogiochi e libri game, partendo da una base teorica molto forte a proposito dei mondi possibili, dei conflitti narrativi, del ruolo del lettore (un lettore nerd atipico, magari) nei confronti di questi mondi, richiamandosi poi alle avventure grafiche come ideale terreno su cui esercitare e mettere alla prova le teorie affrontate.
Alessandro Lolli, con I nerd tra sesso e potere, si allaccia a una grande quantità di personaggi di serie tv, fumetti, anime, manga e cinema — da Bart Simpson a Dylan Dog, dal Dante di Clerks al Tony Stonem di Skins — per mettere a fuoco la maniera in cui le difficoltà esistenziali proprie del nerd siano state proiettate sul mondo della finzione, all’insegna di una volontà di potenza che tocca anche la sfera sessuale.
Irene Rubino, infine, solleva un argomento particolarmente urgente analizzando la presenza, la partecipazione e la resistenza delle donne nel nerdom, dove, pur rappresentando una parte consistente dell’insieme degli appassionati, sono continuamente a rischio di rimozione e di vessazioni di ogni tipo.
Per meglio comprendere i tantissimi spunti garantiti dalla lettura del libro, abbiamo pensato di fare una bella chiacchierata con tutti gli autori.
Le interviste seguono la disposizione dei capitoli.
FABRIZIO VENERANDI
Partirei dalla fine: in uno dei paragrafi conclusivi del capitolo dici che «i nerd non esistono» sottolineando, in linea con lo spirito che guida il libro, come ognuno segua una sua strada e non si possano appiattire i nerd su un rigido stereotipo costruito sulla ripetizione di caratteristiche immutabili. Sono d’accordissimo, ma allora, scusa la domanda, di cosa parliamo quando parliamo di nerd? (Tenendo conto che un tratto comune tu stesso lo rintracci quando vedi nel nerd quella persona che non si limita a fruire passivamente qualcosa ma la trasforma nella sua testa).
Parliamo di diverse cose, di tante cose diverse e forse non è un caso che questo libro sia frutto di più autori che hanno portato una propria “zona di appartenenza” al fenomeno nerd. È sicuramente legato all’appropriazione di modelli estetici e culturali che arrivavano in rottura con quello che c’era precedentemente, quasi sempre modelli transnazionali. E sono modelli che talvolta, almeno inizialmente, non hanno avuto un grosso successo di massa pur avendone in nuce tutte le capacità, ma hanno vissuto in zone marginali destinate a gruppi ristretti di appassionati. L’informatica, da questo punto di vista, a me pare abbia una connotazione che la differenzia rispetto ad altri ambiti nerd e forse è più facile individuare le caratteristiche di chi l’abbia vissuta nel suo svolgimento e nel suo insediamento culturale e sociale.
Il tuo capitolo è particolarmente interessante perché ripercorre la storia dell’inclusione dell’informatica nelle famiglie italiane a partire dagli anni Ottanta (storia che ha preso una vistosa accelerata tra la fine dei Novanta e i primi Duemila). Tu eri un bambino all’epoca ma sei stato testimone di una vera rivoluzione culturale (home computer, videogiochi, programmazione incidono profondamente sull’immaginario): se dovessi spiegarlo in poche parole, se possibile, qual è il segno più profondo lasciato da questa rivoluzione?
Io l’ho percepito come un cambiamento enorme. Eravamo dei ragazzini e stavamo, in anticipo di un trentennio buono, sdoganando il digitale. Ne stavamo a fatica comprendendo le potenzialità, sperimentando sul campo gli immaginari, creando cose che a loro volta avrebbero influenzato la vita di altre persone. Nel libro non ne parlo, ma a fine anni Ottanta scrissi con Alessandro Uber il primo videogioco italiano multiutente online, Necronomicon. Si trattava di un MUD testuale che girava su Videotel e aveva diverse centinaia di giocatori. Ricordo ancora l’impressione profonda che provavo quando mi capitava di andare in casa di qualche giocatore, e mi veniva mostrata la mappa che il giocatore aveva disegnato con dettagliato il mondo virtuale dove si svolgeva la storia, desunta da quello che io e Alessandro avevamo scritto e programmato. Stavamo raccontando storie, creando estetiche condivise, e le stavamo comunicando con mezzi che mai si erano visti prima.
Ma soprattutto è stato qualcosa che ha fatto scattare degli switch nella nostra testa, ci ha permesso di vedere le cose che avevamo attorno con occhi diversi.

«Prima dei videogiochi, i videogiochi non c’erano», apparentemente sembra un’ovvietà, in realtà non lo è assolutamente. I videogiochi sono solo una parte di quella che nella domanda precedente ho chiamato “rivoluzione culturale” e di cui hai dato precisa testimonianza nel libro. Al giorno d’oggi, nel mondo dell’informatica, è possibile pensare a qualcosa di paragonabile a quella frattura avvenuta negli anni Ottanta? L’avvento dell’informatica ha cambiato il mondo e il modo di percepirlo; e adesso?
Credo che ora si stiano tirando le fila, il videogioco si sta accorgendo che non è solo un gioco ma è uno strumento per fare cose, artistiche, narrative, politiche, sociali. Il videogame sta prendendo sempre più consapevolezza della sua storia, delle sue estetiche e le sta riutilizzando per fini espressionistici sempre più maturi e diversi. La rivoluzione, da questo punto di vista, è ancora in corso e vedremo nei prossimi anni progetti di letteratura elettronica, di mondi digitali e piattaforme condivise sempre più interessanti e puntuali.
Se dovessi scegliere oggi qual è il media più appagante per raccontare cose, non sceglierei il romanzo, o la fiction tv, sceglierei il videogioco.
Parlando dello sguardo rivolto al passato della propria formazione, dici che «questo voltare la testa all’indietro non è nostalgia, è prendere consapevolezza della traiettoria». Qual è, quindi, la differenza tra nostalgia e presa di consapevolezza?
Nostalgia è pensare che le cose fatte negli anni Settanta o Ottanta fossero cose molto più fiche, giuste, nobili rispetto a quelle che si possono fare oggi nel digitale. Il che non è vero, anzi, oggi si hanno molte più libertà e strumenti e possibilità di un tempo. La presa di consapevolezza è capire che questi strumenti non nascono oggi per caso, come oggettini magici, ma sono parte di un percorso che ha una sua storia e che la conoscenza di questa storia è molto importante per pensare cose nuove, per sapere quello che si sta facendo oggi. Avere un buon bagaglio di idee digitali permette alle nuove idee di saltare fuori con più cognizione di causa, con più efficacia, con più coraggio.
JACOPO NACCI
Trovo molto azzeccato il titolo del libro: parlare di “immaginario”, più che di semplice “cultura” (anche se non si tratta di due termini agli antipodi), pone la questione sia a livello di patrimonio collettivo sia di uso personale di questo patrimonio. In particolare, tu dici che «se dovessi definire la mia forma di vita e la forma di vita dei nerd della vecchia scuola in accezione umanistica, direi che è una forma di vita fondata sugli immaginari». Cosa intendi?
Con immaginario intendo – lo dico con molta approssimazione – l’insieme delle caratteristiche di un ambiente narrativo, come quando diciamo che un luogo rievoca un immaginario western, o cyberpunk, o fantasy. Insomma gli immaginari per me sono schemi interiori che investono, anche emotivamente, la percezione che abbiamo del mondo esterno (e in questo senso l’immaginario nerd diventa una sorta di immaginario degli immaginari). Presumo che questi schemi ci siano sempre stati ma probabilmente non sono mai stati così condivisi nei particolari, nella riconoscibilità dei generi, nelle loro strutture di base come dopo l’avvento del cinema e degli altri media di massa. Viviamo in un’epoca in cui gli immaginari sono ipercodificati. I media producono messe in scene di immaginari di genere riconoscibili e insistiti che diventano gli stessi per miliardi di persone. Per me e per le persone con le quali ho condiviso la mia formazione, quegli immaginari erano il modo principale di leggere la realtà che ci stava davanti agli occhi, paesaggi di città, di campagna, case, strade, persino le caratteristiche psicologiche ed estetiche delle persone. Pensa anche solo al tipico smilzo un po’ oscuro dei gruppi di eroi giapponesi.
Negli ultimi tempi si registra un enorme interesse, certificato da molte pubblicazioni, a proposito del mondo nerd. Secondo te a cosa è dovuto?
A una congiuntura di condizioni, mi pare: i prodotti che un tempo erano considerati per ragazzini sono stati sdoganati presso il grande pubblico di tutte le età, chi ha vissuto la golden age degli anni Ottanta ha raggiunto la maturità intellettuale necessaria a produrre opere critiche o l’indipendenza economica che consente di acquistarle. Poi forse ci sono ragioni profonde sulle quali interrogarsi: buona parte della produzione sul mondo nerd si aggancia, anche non condividendone i presupposti, al filone della nostalgia; ecco, perché esiste questo filone? Oppure: i prodotti narrativi o ludico-narrativi che ritraggono universi fantastici hanno acquistato un’importanza maggiore? E se sì, per quale motivo? Queste sono questioni sulle quali mi piacerebbe leggere qualcosa di rilevante, se non definitivo.
In un paragrafo molto interessante tu ti schieri contro il nostalgismo. Il nostalgico rievoca banalmente gli elementi della sua infanzia e lì si ferma, negando ogni forma di approfondimento dell’opera, di cui si limita, per dire, a canticchiare la sigla o a fare osservazioni sarcastiche, e di cui non vuole sapere nulla di più di quanto sapeva all’età di sei anni. L’appassionato (e la passione contraddistingue il nerd) entra nei meccanismi, coglie i legami più profondi tra i prodotti culturali, la sua vita e il contesto in cui si inseriscono (e sì, magari anche lui ha un po’ di fisiologica nostalgia dell’infanzia, ma va oltre). Ho apprezzato molto questa distinzione perché mi è capitato più di una volta di osservare, in libri o film, un uso per lo più gratuito, o piattamente citazionistico, di molta cultura pop anni Ottanta o Novanta (che ovviamente allude all’infanzia degli autori); quali sono i rischi, se ce ne sono, di questa tendenza a rifugiarsi nel nostalgismo?
Di per sé il nostalgismo sembra andare di pari passo con una mentalità reazionaria: non mi pare che sia un rischio, però, quanto una co-occorrenza di due cose che probabilmente hanno una radice in comune, almeno finché qualcuno non riesce a mostrare la dipendenza logica della reazione intesa in senso politico dal nostalgismo per i cartoni animati, e francamente credo sia più probabile che sia il contrario, anche se certamente l’ennesima spinta emotiva alla rievocazione di pancia non credo sia salutare. Più che altro direi che il nostalgismo rinforza uno schema che distingue cultura bassa e cultura alta in base ai generi: benché spesso si spertichi a sostenere che “le cose di una volta sì che erano profonde”, il nostalgismo non va oltre questa semplice affermazione e tende a sottrarre il dato prodotto culturale all’analisi facendone un oggetto di valore affettivo prima che artigianale, il che in sostanza si riduce al solito “ma è solo un film/ è solo fantasy/ sono solo cartoni animati/ è solo un videogioco/ lasciatemi sognare” (tra l’altro mi pare si stia dando anche una tendenza speculare e contraria, un tentativo di esaltazione del piano artigianale di ogni sciocchezza che sia legata ai propri ricordi). Ora, che un’opera pop di genere non nasca nelle stesse condizioni produttive della Divina Commedia è chiaro, ma è anche vero che la diversità di condizioni produttive e di profondità dei prodotti culturali e pressoché infinita, ragion per cui ogni opera andrebbe analizzata per quel che vale e che è.
Nella tua cavalcata tra gli anni Ottanta e Novanta ti sei preoccupato di ricordare come chiudersi in un immaginario fantastico non significhi necessariamente allontanarsi dalla cosiddetta realtà, prendendo le distanze dall’escapismo negativo, di chi, in fondo, riduce «l’immaginario a svago nel quadro di una realtà che si ritiene incontestabile». Un’immersione “positiva” nell’irreale non si limita a svago ma tiene sempre lo sguardo sulla realtà. Spesso si vede nel fantastico una chiusura nella torre d’avorio della fantasia più smisurata, ma non penso si finirà mai di ribadire il contrario, di sottolineare la carica conoscitiva e contestativa dei mondi possibili. Del resto, il serissimo e impegnato realismo, come dici te, è solo un’altra forma di immaginario.
È possibile che non tutti vivano in una dimensione immaginativa costante, ma nel momento in cui ci vivi, sì, anche il realismo diventa un altro immaginario.
GREGORIO MAGINI
Nel tuo saggio cominci subito definendoti un nerd atipico, un “non-nerd”, con alcuni interessi riconducibili a un certo immaginario ma in fin dei conti lontano da ogni facile definizione; e non a caso ti concentri sui libri game e, soprattutto, sulle avventure grafiche, prodotti trasversali, a metà tra il gioco e la narrativa. Da dove deriva, secondo te, questo tuo eclettismo?
Per fortuna non siamo tutti identici all’Uomo dei fumetti dei Simpson. I nerd che rispecchiano in pieno lo stereotipo sono una minoranza, sono sempre stati una minoranza, anche quando il nerdismo, fino a una quindicina di anni fa, non era ancora un fenomeno di massa. Gli emarginati (perché il nerd nasce come figura dell’emarginazione) tendono a essere dissimili tra di loro almeno quanto sono dissimili dalla maggioranza che li emargina. Il nerd è dunque eclettico per definizione. Si muove tra immaginari vastissimi e disparati, selezionando quelli che gli vanno più a genio. Nessuno, eccetto il Dottor Manhattan, può conoscere più di una piccola frazione di questi immaginari. Non a caso parlo sempre di culture nerd, al plurale, quando non addirittura di “galassie di culture nerd”. È difficile figurarsi la vastità della produzione culturale riconducibile sotto l’ombrello generico del nerdismo; a volte ci ho provato con un’approssimazione umoristica: la battuta è che un’enciclopedia del nerdismo non può esistere; ma se potesse esistere, esisterebbe già, e sarebbe… Wikipedia.
A un certo punto sottolinei come i tuoi veri interessi si rivolgano ai mondi alternativi e ai mondi possibili, a cui dedichi un paragrafo teorico, piuttosto chiaro e denso, dove vengono chiamate in causa e discusse molte proposte critiche sui mondi finzionali (da Eco a Doležel passando per il dibattito sul postmoderno: giustamente ricordi che si tratta di questioni prettamente novecentesche). Perdona la vaghezza della domanda, ma che tipo di fascino e importanza esercitano su di te i mondi immaginari? Cosa ti attrae di tutto questo?
Il mio interesse per la letteratura si è sempre nutrito di una certa passione teorica, più verso formalizzazioni e formalismi che verso la critica a dire il vero, vedi il lavoro fatto con SIC – Scrittura Industriale Collettiva. Credo di essermi avvicinato per la prima volta a una concettualizzazione di “mondo immaginario” leggendo il saggio finale di Una pietra sopra di Italo Calvino: I livelli della realtà in letteratura. Scrive: «L’opera letteraria potrebbe essere definita come un’operazione nel linguaggio scritto che coinvolge contemporaneamente più livelli di realtà». Definizione che esemplifica pittorescamente con la frase: «Io scrivo che Omero racconta che Ulisse dice: io ho ascoltato il canto delle Sirene». Il resto del saggio fornisce una serie disorganica di spunti sui diversi aspetti della frase-rompicapo, sicuramente un po’ estemporanei ma, come spesso succede con Calvino, più profondi di quello che sembrano — varrebbe la pena rileggere oggi I livelli della realtà in letteratura, visto l’abuso che è stato fatto delle teorizzazioni ultime del Calvino delle Lezioni americane, che le ha rese inservibili. In seguito, complice anche un 1999-2000 sprecato con Scienze della Comunicazione a Bologna, con la parabola gloriosa della semiotica che si esauriva con imbarazzanti “lezioni” su Amici di Maria De Filippi, mi ingozzai della narratologia dei mondi possibili di Umberto Eco, capendoci poco o nulla se non che la formulazione di Calvino coglieva nel segno quando avvertiva che il gioco dei livelli poteva non essere semplicemente un gioco.
Questa del gioco, tra le domande che mi sono fatto, è stata ed è forse la più persistente. Le storie sono un gioco? Ovvero: le storie sono piacevoli? Non è un tipo di domanda che i narratori amano farsi, perché se venisse fuori che sono piacevoli per i motivi sbagliati o addirittura che non sono affatto necessariamente piacevoli, si troverebbero in difficoltà. A caval donato ecc. Eppure in una certa misura è necessario indagare, perché altrimenti si finisce in bocca all’ideologia dello “storytelling”, per cui una storia è una storia è una storia, e le storie funzionano cioè vendono, e allora zitto e racconta. Con lo storytelling portato all’estremo, ovvero con ogni visione tecnicistica delle arti narrative, tutte le deviazioni da ciò che comunemente si intende per storia (una cosa con personaggi, ambientazioni, trama, ritmo, e di solito anche un certo rapporto con la realtà) vengono relegate nel girone infernale dello “sperimentale”, cioè dei vaniloqui che non interessano a nessuno. Invece ho l’impressione che così facendo si scambi il mezzo per il fine e si rischi di generare storie morte, utili al massimo per rassicurare gli editori.
Il concetto di mondo immaginario mi sembra un buon correttivo all’estremismo dello storytelling, perché indica una finalità ulteriore alla narrazione: quella appunto di generare mondi immaginari. Una storia è una tecnologia per generare mondi immaginari. Tecnologia antichissima, una delle prime elaborate dall’uomo. Da questo punto di vista, sta sullo stesso piano della simulazione di ambienti 3D, pur agendo con meccanismi diversi. Si apre così la domanda: a cosa servono i mondi immaginari? Nel mio capitolo della Guida esploro, certo solo per rapidi accenni, questa problematica.
Entrando nel cuore del discorso sulle avventure grafiche (tu ti concentri soprattutto sull’Età dell’Oro che situi tra il 1987 e il 1995, tra Maniac Mansion e The Dig) accenni al concetto di “rimediazione”: «utilizzare un nuovo media come se fosse una semplice estensione di un media precedente». Una situazione tipica della fase iniziale dei nuovi media: le avventure della Sierra rimediavano la letteratura e il fumetto, quelle della Lucas rimediavano il cinema e il teatro. Al giorno d’oggi, quando ormai i videogiochi hanno probabilmente superato questa fase di rimediazione e hanno legittimato il loro ruolo nella cultura contemporanea, è possibile pensare a un fenomeno opposto? La letteratura o l’audiovisivo che rimediano i videogiochi? (Penso a una serie tv come Love, Death & Robots, decisamente in debito con certe abitudini videoludiche).
Quando l’evoluzione tecnologica apre il campo a nuove arti, dopo un periodo iniziale di sperimentazione in cui si verifica fra l’altro il fenomeno della rimediazione, avviene una rimodellazione del campo artistico nel suo complesso. Le arti preesistenti cedono parte del territorio che avevano occupato (basti pensare alla fuga dal realismo che avvenne in pittura dopo l’avvento della fotografia) e si riconfigurano attorno ai loro nuclei più solidi. Inoltre, una nuova arte che raggiunge l’egemonia inizia a retroagire sulle arti preesistenti: vedi l’impatto immenso che il cinema ebbe sulla letteratura del secolo scorso. Oggi siamo in una fase di transizione in cui il videogioco inizia solo ad affermarsi come arte egemonica, e perciò gli effetti sulle altre arti sono ancora incerti. Si vedono tentativi goffi, come è stato quello di portare l’interattività nel cinema con il famigerato Bandersnatch.
Non siamo ancora in una fase classica del videogioco, cioè in una fase di relativa maturità e stabilità delle forme. L’intensità della sperimentazione nei quarant’anni che ci separano da Space Invaders è stupefacente e possiamo già sicuramente contare su alcuni capolavori della videoludica che continueranno (estinzione permettendo) a essere giocati per decenni — chissà, forse per secoli. Ma la sensazione diffusa è che non si sia ancora trovata la quadratura del cerchio, quell’equilibrio tra fattori che contraddistingue lo zenit di un movimento artistico. Vedi per esempio il persistente conflitto fra interattività e narratività, per il quale non è ancora stata trovata una soluzione generale.
Per quanto riguarda lo specifico apporto della videoludica alla letteratura, credo che finora abbiamo assistito solo ad alcune lievi increspature della superficie: il discredito del realismo televisivo; la fantascienza che si avvicina pian piano al centro del discorso letterario; la nuova veste subculturale della letteratura… movimenti che gonfieranno in uragano quando una nuova generazione di autori prenderà di petto il problema della narrazione di un mondo completamente digitalizzato.
Proprio a metà dell’Età dell’Oro tu individui il capolavoro del genere: Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge (1991). Sono d’accordo nel ritenerlo il migliore (e in generale, penso sia tra i videogiochi più belli mai realizzati). Tu, in particolare, lo leggi sempre alla luce dei mondi possibili di cui sopra: come la fiamma che brilla sugli occhiali di Piggy nel Signore delle mosche (che tu interpreti come la realizzazione delle fantasie del personaggio, il riflesso di una irrealtà immaginaria), il tesoro di Big Whoop rappresenta «l’apoteosi dell’escapismo», l’abbandono completo alle fascinazioni della fiamma.
Il Big Whoop come «apoteosi dell’escapismo» è per me più una conseguenza delle disavventure di produzione della serie dopo l’abbandono di Ron Gilbert che una caratteristica intrinseca dei primi due Monkey Island. Si tratta cioè di un discorso interrotto, una storia lasciata incompiuta per motivi commerciali. Un ulteriore esempio, se mai ve ne fosse bisogno, del feroce darwinismo economico che regola da sempre la produzione videoludica. Come sarebbe andata a finire la saga di Monkey Island se fosse rimasta in mano a Gilbert? Lui sostiene di saperlo, ma che lo rivelerà solo se otterrà dalla Disney i diritti per sviluppare una versione alternativa di Monkey Island 3. Nel frattempo, forse per sempre, non resterà che speculare. A me piacerebbe se avesse il coraggio di dichiarare definitivamente il Big Whoop un’illusione, un’epoca della vita, l’infanzia. Il gioco potrebbe essere ambientato nel mondo “reale”, con tutta la famiglia Threepwood alle prese con la possessione di Chuckie, il fratello di Guybrush, che è tornato cambiato dopo aver rischiato la vita per salvare Guybrush dal Luna Park di Big Whoop. Poi naturalmente arriverebbero i veri pirati, quelli che depredano e scannano, e allora Chukie diventerebbe il vero pirata LeChuck, ecc.
ALESSANDRO LOLLI
Nel tuo capitolo non fai sconti e delinei in maniera piuttosto precisa il tipo di figura su cui ti concentri e i suoi relativi problemi: il nerd è quello contraddistinto dalla complementarità tra un certo tipo di interessi e una «condizione esistenziale che abbiamo descritto in tutta la sua durezza, nei disagi che comporta, nell’emarginazione che la caratterizza». Giusto per rompere il ghiaccio e introdurre i lettori al discorso: perché il nerd è segnato da questa relativa emarginazione (ieri più di oggi forse)?
Il nerd che analizzo è una persona che ha mancato di sviluppare una serie di abilità sociali, dedicando gli anni della sua formazione a una serie di interessi poco “cool”, o per lo meno, poco “cool” se presi con quella serietà che lo contraddistingue e se protratti oltre una certa età. Se è venuto prima il gesto di emarginazione, che lo ha poi orientato verso quelle passioni o se, al contrario, sono state quelle passioni a farlo percepire come uno strano, decretando quindi la sua emarginazione, è il problema dell’uovo e della gallina. Diciamo che esiste un circolo vizioso per cui più un nerd si infogna nelle sue passioni, più perde capacità sociali e viene emarginato, e al contempo, più viene emarginato e più si infogna nelle sue passioni.
Dando un’occhiata alle tante opere a cui ti richiami, si nota come in alcune il nerd riceve delle bastonate anche là dove dovrebbe primeggiare (così fa Tony Stonem nei riguardi del migliore amico Sid Jenkins in Skins); in altre ha una doppia e quasi contraddittoria identità da perdente e vincente (Dylan Dog); in altre ancora trova un “riscatto” indossando la maschera del supereroe (Peter Parker); oppure ha interessi nerd, una vita soddisfacente ma deve lottare contro i fastidiosi ex della sua ragazza (Scott Pilgrim): in maniera diversa, tutte sembrano alludere a un conflitto eterno, e non sempre risolvibile, con le privazioni o le angosce di un certo stile di vita.
Il conflitto è alla base di ogni cammino dell’eroe: si parte da una posizione A. e si deve arrivare a B. superando delle prove che cambieranno l’eroe stesso. Questo non vale solo per le storie avventurose, ma anche per i romanzi di formazione e quindi per la vita medesima, che noi viviamo costantemente come una narrazione (qui dice bene Nacci parlando degli immaginari). La storia del nerd è quella di un emarginato che deve adattarsi a vivere nella società senza perdere se stesso.
Nell’identificazione coi supereroi statunitensi (nella loro problematica e non sempre ben vista lotta contro il male) il lettore / spettatore trova pane per la sua fantasia di potenza; nell’eroe degli shōnen giapponesi (almeno di quelli su cui ti soffermi: Dragon Ball, One Piece e Naruto) si trova di fronte a un individuo contraddistinto da una spinta al miglioramento continuo e che in fin dei conti vuole semplicemente primeggiare. Nel primo caso si assiste al maltrattamento, da parte del supereroe, di un bullo diventato più pericoloso; nell’altro, come giustamente noti, i protagonisti, nella loro spinta a superare tutto e tutti, hanno addirittura qualcosa in comune con i cattivi, a loro volta desiderosi di imporsi in assoluto. Due prospettive molto diverse nel rapportarsi al mondo degli aventi i superpoteri: secondo te, quali sono le differenze, se ci sono, nell’abbracciare e nel recepire queste due culture?
I supereroi erano mossi da una missione altruistica: proteggere i più deboli. Lo stesso valeva anche per gli eroi nipponici dei super robot. Lo shōnen di arti marziali, invece, prendendo la sua ideologia proprio dalle arti marziali stesse, dalle tradizioni spirituali ad esse legate, pone al centro della narrazione il miglioramento dell’eroe in sé e per sé. Tanto è naturale questo processo che non rileviamo neppure che l’obiettivo di un Rufy o di un Naruto si traduce nella conquista del potere politico, nell’affermazione di se stessi come il migliore di tutti (rispettivamente Re dei pirati e Hokage, capo del villaggio).
Ovviamente questi eroi sono allineati dalla parte del bene, ma la cosa interessante è che fanno del bene “incidentalmente”, come conseguenza della loro missione privata. Kant direbbe che sono amorali (ma non immorali).
Stando così le cose, ai lettori arriva una fantasia di potenza molto più pura, assoluta, non compromessa con l’imperativo morale di mettersi al servizio del prossimo.
I supereroi devono fare del bene con il potere che già hanno (in genere ricevuto dal destino), gli eroi shōnen devo accrescere il loro potere per dimostrarsi i migliori.
Non manchi di rilevare, nel finale del saggio, come nel mondo dei nerd serpeggi un lato negativo davvero pauroso, fatto di misoginia e rancore, ampiamente diffuso grazie a internet. Di solito si parla di nerdismo in accezione positiva, ma a quanto pare non mancano i lati oscuri e inquietanti.
In questi ultimi anni, direi, che diversi eventi hanno macchiato la figura pubblica del nerd tanto che il suo doppio, gonfio di rancore per il prossimo, ha un nome ormai noto alla stampa generalista: l’incel.
Per dirla in poche parole, l’incel è un nerd che, partendo da una condizione di disagio reale, ha identificato male i suoi nemici e invece del cammino dell’eroe ha preso la via della discesa nell’abisso, tipica del villain.
E, come ci insegnano proprio gli shōnen, è nostro compito non solo fermare i villain, ma soprattutto redimerli.
IRENE RUBINO
Nella tua panoramica sul femminile nell’immaginario nerd, da Lisa Simpson a Bean di Disincanto, passando per le invenzioni di Rebecca Sugar (che tu ricordi essere la prima donna ad aver ideato una serie animata presso Cartoon Network), si notano dei miglioramenti in termine di caratterizzazione dei personaggi: le donne vengono un pochino meno incontro alle esigenze del pubblico maschile a favore di una maggiore completezza, o comunque sembra che siano loro offerte possibilità simili a quelle degli uomini (a Bart è permesso di tutto, Lisa deve essere impeccabile; Bean invece è incline al bere e al gioco d’azzardo come altri personaggi maschili di Matt Groening). Passi in avanti, forse lenti, ma di cui tenere conto.
I prodotti della cultura di massa in rari casi sono rivoluzionari, per lo più si limitano a fotografare (e difendere) lo status quo. Non possono però evitare di registrare i cambiamenti che avvengono nella società. Il tentativo di Groening era quello di fare satira sull’americano medio, sulla famiglia americana tipo, e non dubito che la sua fiducia nel personaggio di Lisa in quanto donna fosse sincera, ma era a doppio taglio: investendo la piccola Simpson di un ruolo salvifico l’ha schiacciata sotto l’obbligo dell’eccellenza. La società esercita un’enorme pressione sulle bambine perché siano perfette, salvo poi relegarle a ruoli marginali dopo averle rese il più possibile fragili e nevrotiche. Credo che con Bean Groening abbia fatto un notevole passo in avanti: sia grazie alle istanze femministe, che hanno resistito all’urto della violentissima reazione seguita alla cosiddetta “terza ondata” degli anni Ottanta-Novanta, che alla sua crescita personale e artistica. Steven Universe è già un altro paio di maniche: è un’opera decisamente rivoluzionaria, la prima che io ricordi a rappresentare una così vasta e sfaccettata gamma di personaggi femminili fuori dagli schemi. Restando godibile allo stesso modo per il bambino come per l’adulto più smaliziato. Un miracolo.
A livello di senso comune sembra che il nerdismo sia appannaggio unicamente degli uomini, ma giustamente ricordi i casi di donne che hanno contribuito, e non poco, all’immaginario nerd. Oltre alla già citata Sugar, vengono fatti i nomi di scrittrici come Ursula Le Guin e Marion Zimmer Bradley, oppure, nell’informatica, di Carol Show e di Roberta Williams, cofondatrice, insieme al marito, della Sierra. A cosa è dovuta, secondo te, questa relativa indifferenza?
A una forma di damnatio memoriae, quella che i greci d’età classica riservavano a personaggi infami come Crizia dei Trenta tiranni. È lo stesso fenomeno di rimozione collettiva che colpisce le donne eminenti in ogni ambito, nel timore che dalle pieghe della Storia e dalla letteratura emergano tutte quelle dimenticate, bruciate, escluse dal canone. Non quelle che si ritagliavano uno spazio nell’ombra dei “grandi uomini”, ma che molto semplicemente erano grandi.
Passando ad argomenti decisamente più drammatici, nel tuo capitolo racconti di veri e propri casi di violenza e di odio contro le donne: «Le nerd non sono mai state odiate come oggi» dici. Si osservano episodi di pesantissima misoginia nel web e non solo, il che sembra quasi paradossale visto che situazioni del genere si verificano all’interno di un mondo, quello dei nerd, che, in passato più di ora, veniva avvertito come segnato dall’emarginazione. Perché tutto questo?
Su 4chan è cresciuta e ha prosperato l’alt-right, che con gli incel (“involuntary celibacy”, così si sono autodefiniti) ha fatto della guerra alle donne uno dei suoi obiettivi principali. Ne è disceso il Gamergate in tutto il suo orrore. Non mi stupisce affatto che soggetti deboli, emarginati, alienati cadano preda dell’ideologia fascista e comincino a incolpare delle loro miserie le categorie più deboli: che altro succede del resto col razzismo, l’omofobia e altre forme di emarginazione? C’è poi un fatto molto semplice: i fascisti odiano le donne, le hanno sempre odiate, sul loro totale asservimento di classe hanno fondato la loro idea di società. Conosco poi tanti nerd illuminati che hanno abbracciato le istanze femministe e si dichiarano orgogliosamente femministi, ma molti si rifiutano invece di elaborare un’idea di maschile diversa e si rivalgono sulle donne nell’unica sfera della vita di cui si sentano padroni, quella virtuale.
A dispetto della misoginia dilagante, i dati ci dicono che la presenza femminile nel nerdom è sempre più forte, e sottolinei come la critica femminista ci offra nuovi e interessanti strumenti per leggere e interpretare la cultura di massa e la sua partecipazione di pubblico. Pur denunciando una situazione grave, mi pare che nel tuo saggio ci sia comunque un cauto ottimismo verso il futuro.
Non si tratta tanto di fiducia nelle magnifiche sorti e progressive quanto di fiducia nelle donne: credo che la loro lotta continuerà a conquistarci sempre maggiori spazi di libertà e che il tentativo di strapparceli sarà vano quanto provare a trattenere l’acqua con le mani.