In occasione dell’uscita in Italia per D Editore di Anarcoccultismo. Dissertazione sulle cospirazioni dei re e sulle cospirazioni dei popoli di Erica Lagalisse, abbiamo chiacchierato di attualità, filosofia politica, complotti e mitologie con il traduttore Enrico Monacelli.
Partiamo con una domanda di rito: cosa significa “anarcoccultismo” e perché è importante aver tradotto questo libro in Italia?
Quella del titolo è una questione particolare: era necessario trovarne uno che rendesse possibile rivendere un libro che sarebbe stato difficile introdurre all’interno del mercato italiano, per tutta una serie di motivi intrinseci all’edizione inglese. Prima di tutto il titolo originale è Occult Features of Anarchism: With Attention to the Conspiracy of Kings and the Conspiracy of the Peoples, un titolo lunghissimo; il libro, poi, nasce come studio accademico di tutta una serie di fenomeni che secondo Erica Lagalisse sono diventati di primaria importanza all’interno del dibattito politico. Anarcoccultismo quindi è un modo per trasformare in qualcosa di più appetibile un titolo che sicuramente sarebbe stato difficile presentare al pubblico. Non c’è quindi un grosso studio concettuale dietro, ma ha sicuramente il vantaggio di avere un impatto maggiore, di mostrare subito quali sono gli elementi “scabrosi” del testo: magia, occultismo, cospirazioni e tutta una serie di posizioni politiche “di nicchia”, che non entrano facilmente nel mainstream.
Riguardo all’importanza del libro, le sue questioni centrali, la teologia politica, il lato irrazionale della politica e le conspiracy theory che sono oggetto dell’ultima parte, stanno diventando sempre più importanti perché — come stiamo vedendo nella vita di tutti i giorni — entrambi gli argomenti hanno preso il posto di tre quarti del dibattito politico, sono diventati l’ambiente in cui dobbiamo articolare le nostre riflessioni sul mondo che ci circonda, cosa che era impensabile fino a vent’anni fa.
Un fatto estremamente nuovo, dovuto alle strutture in cui il nostro discorso politico abita, perché è indubbio che l’altra forza del libro è di parlare di dibattiti che sono fortemente digitali quando diventano contemporanei, quindi dibattiti che hanno a che fare non più con l’analisi di fase di un intellettuale X ma che hanno a che fare con determinati video di YouTube di David Icke sui rettiliani.
Il libro è strutturato in un certo modo, per cui se all’inizio si presenta come un saggio divulgativo, che restituisce un certo quadro storico-filosofico probabilmente già noto a chi abbia questo tipo di formazione, nella seconda parte si fa molto più denso e forse anche più controverso. Erica Lagalisse approda ad una serie di conclusioni, prima fra tutte l’idea che il “complotto” rappresenti un contenitore molto ampio, nel quale possiamo far rientrare tanto teorie sui politici corrotti, quanto quelle sugli alieni con poteri psichici. E dal momento che le prime si fondano su dubbi razionali e legittimi, probabilmente molto più fondati di quanto saremmo portati a pensare, dovrebbero forse più correttamente essere definite “teorie critiche”. Sebbene sia un’antropologa interessata ad un altro tipo di approccio, questa sua intuizione mi sembra molto interessante dal punto di vista filosofico-politico.
L’opera è pensata esplicitamente per un pubblico ampio, che non ha delle basi teoriche forti. Quindi ripete tutta una serie di punti che ormai un certo pubblico che legge teoria critica dall’adolescenza in avanti dà sicuramente un po’ per scontati. Per cui è indubbiamente un libro “facile” all’inizio; allo stesso tempo, però, ha la particolarità di avere alla base una teoria abbastanza controintuitiva — anche per chi questi dibattiti li ha navigati — ossia quest’idea per cui è giusto guardare il lato irrazionale dei sistemi politici costituiti. Ad esempio, sappiamo tutti che i regimi totalitari hanno una base mitologica fortissima, sappiamo che la società del consumo, la società capitalista ha tutta quella Babilonia hollywodiana di Kenneth Anger piena di mostri mitologici che la sorregge. C’è questa idea, molto forte nel libro, che questo lavoro andrebbe fatto anche per tutte quelle teorie che sono genericamente contro il presente, per cui questo tipo di analisi andrebbe fatta e rigirata anche a noi stessi, o comunque a tutti coloro che assumono una veste critica nei confronti del mondo. L’analisi che l’autrice fa delle mitologie delle teorie critiche, insomma, ha come risultato quello di farci vedere come una certa vulgata critica, anche accademica, condivide tutta una serie di basi con il pensiero del complotto. È un’intuizione che certamente molti di noi vorrebbero allontanare, non vorrebbero sentirsi dare dei complottisti, o perlomeno non vorrebbero pensare di essere soggetti a quello stesso tipo di irrazionalità che attribuiamo al teorico della cospirazione.
Lagalisse infatti dice che certi accademici bianchi nordamericani non affrontano fino in fondo la questione perché potrebbe portare alla luce il loro vero privilegio di classe: chi è più esposto alle teorie del complotto spesso appartiene alle classi meno abbienti. Cito testualmente: «In realtà, non esiste un principio in base al quale si possa distinguere tra una teoria del complotto e un ragionevole dubbio. Nella misura in cui l’espressione “teoria del complotto” ha un significato, esso risiede unicamente nella possibilità di denigrare alcune idee popolari (e quindi subalterne) al fine di squalificarle. Le teorie del complotto elaborate da chi è “in alto” non vengono etichettate come tali, anche se sono palesemente false o irrealistiche, mentre le teorie del complotto esposte da chi è “in basso” vengono immediatamente riconosciute come fandonie». Insomma, tutto quello in cui gli stessi accademici credono ha in realtà molto più a che fare con tutto questo, storicamente, e oggi è importante anche riappropriarsene, pur facendo le dovute scremature. Quindi, come dicevi, l’autrice “smaschera” tutto un mondo militante e accademico: mi sembra questo uno degli approdi cruciali del testo.
Durante la traduzione del libro, la cosa più sconvolgente è stata confrontarmi con l’idea che l’autrice sta sostenendo che tra il redneck che guarda un video su YouTube e l’accademico o il militante il passo è potenzialmente breve. O perlomeno: se decidiamo di non guardare effettivamente che cosa dicono le teorie del complotto, da dove vengono storicamente e che obiettivi hanno, rischiamo di non vedere i punti in comune e anche i punti di necessaria divergenza.
Sulla divergenza, la distinzione che opera Lagalisse mi sembra in questo senso fondamentale: ci sono sia delle teorie scientificamente troppo fantasiose, sia delle teorie che politicamente hanno un loro fondamento. Sappiamo che poi, da un punto di vista epistemologico, non esiste una scienza esatta, non soggetta ad errore. E infatti l’autrice si scaglia anche contro un certo materialismo dei militanti che negano con forza qualsiasi spiritualità. Mi fa sempre molto ridere l’aneddoto di mio padre, comunista che ha fatto il ’77, che per scoraggiare mia nonna dall’andare a messa le diceva che non era niente di poi così diverso da un rito vudù. Oggi suonerebbe parecchio problematico, c’è molta attenzione alle altre culture e si parla molto anche di appropriazione culturale. Su questo concetto, l’autrice si spende abbastanza: ci dice che forse anche tutta l’attenzione che rivolgiamo al non appropriarci di usanze culturali di popoli oppressi può suonare come una scusa, un modo per portare avanti il nostro privilegio colonialista, per non voler capire davvero come la spiritualità e certi rituali siano per loro fondamentali ed emancipatori.
Sì, ma alzerei ancora di più la posta in gioco: è fondamentale anche il discorso che lei fa sul problema delle identità, che è diventato uno dei punti cruciali della politica contemporanea: l’idea che tutta la politica si basi su delle rivendicazioni identitarie a cui noi accediamo a seconda della nostra posizione sociale. La cosa interessante del libro è che appunto non nega che queste politiche siano molto importanti, che effettivamente le rivendicazioni abbiano un loro statuto all’interno della politica, ma allo stesso tempo cerca di tirare il freno o sminuire l’entusiasmo nei confronti del concetto di identità, per cui l’identità potrebbe essere benissimo una posizione scelta da individui anche appartenenti a classi egemoniche che non si confrontano con l’esterno e fanno in modo che tutto rientri all’interno di categorie più o meno facilmente catalogabili.
Sì, l’autrice mette indubbiamente in luce una delle più grandi problematicità del dibattito politico contemporaneo. E a proposito di dibattiti contemporanei, l’altro discorso che mi piacerebbe affrontare è quello dei femminismi. Nel libro si racconta di come per alcune donne indigene del Messico praticare la magia performativa sia una forma di liberazione da una certa oppressione. L’intersezionalità del femminismo e l’idea di un safe space che ne deriva, di nuovo, vengono problematizzate da Erica Lagalisse, che ci mette in guardia dall’usarle al contrario, per non dar realmente voce agli oppressi…
Sì, sì, confermo.
Ma per una volta mi permetto di non essere d’accordo con lei. Le religioni hanno storicamente rappresentato un vero e proprio alibi del patriarcato. È vero che si tratta perlopiù delle tre grandi religioni monoteiste, ma non è detto che questi culti indigeni siano esenti da qualsiasi legame con una cultura patriarcale. Qual è il tuo punto di vista su questo?
La traduzione di Anarcoccultismo è stata bella anche per questo: ci sono stati dei punti che ho trovato estremamente interessanti, ed altri in cui sentivo di essere profondamente in disaccordo, come questo. C’è forse un piccolo cortocircuito all’interno del libro: se da una parte si sostiene che il concetto di identità ha dei limiti molto forti, ci sono dei punti in cui mi sembra che il concetto stesso di “indigeni” viene usato come “buoni”, o comunque non c’è una problematizzazione forte di determinate categorie. La mia piccola critica — molto situata — al libro è proprio a questa accettazione della religiosità come fattore non dico buono, ma sicuramente politicamente interessante. Questo meriterebbe quantomeno delle grosse note a piè di pagina…
Lagalisse fa delle distinzioni tra una religione secolarizzata e una più generica spiritualità, forse però la faccenda è un po’ più complessa di così…
Trovo comunque molto soddisfacente la ricostruzione della storia della religiosità del movimento anarchico, che mostra come effettivamente far finta che la religiosità non sia presente all’interno del movimento anarchico è una mistificazione, o perlomeno è una presa di posizione molto recente. Certo, non è detto che questo sia sufficiente per farmi accettare completamente la religiosità all’interno del dibattito politico.
È molto bello anche il collegamento del concetto politico di autonomia al pensiero ecologico di Anna Tsing, che ne pensi?
In tutto questo libro c’è una preoccupazione molto evidente per gli odierni dibattiti ecologici. Il discorso sulle culture indigene a me sembra sia molto collegato — e sia anche in qualche modo una risposta involontaria o forse implicita — a determinati dibattiti sull’ecologia e soprattutto sull’autonomia di certe comunità all’interno di lotte ecologiche che aprono degli scenari interessanti all’interno del libro. Aprono a questa costruzione dell’irrazionale dell’altro nell’ambito della teoria critica, a quello che è oggi il Grande Altro della teoria critica contemporanea: il pianeta in generale o comunque tutti questi movimenti planetari che noi stiamo affrontando o che dovremo affrontare e che piano piano stanno diventando sempre più centrali, prendendo il posto di dibattiti antropocentrici che erano più accettati nell’ambito fino a venti, trent’anni fa. In questo libro c’è una grandissima tensione, una grandissima apertura verso ciò che ci aspetta da qui a poco, e che rende impossibile qualsiasi altro discorso sull’identità o sui movimenti di rottura del presente se non teniamo conto della grande rottura che sarà. Insomma, tutto bene [ride].
Chiuderei con una nota sull’introduzione del gruppo di Nun, che ho trovato narrativamente affascinante. Racconta di come Schmitt abbia criticato Hobbes per aver usato l’immagine del Leviatano «senza timore e senza rispetto», in sostanza, ignorandone la valenza mitica e demoniaca. Questo libro fa lo stesso: ci dice che ci sono delle cose di cui abbiamo paura e ce le nascondiamo, ma che probabilmente ci appartengono molto di più di quanto crediamo. Anarcoccultismo vuol dire davvero disobbedienza civile, come conclude il gruppo di Nun?
Credo che si tratti di calcoli fatti con strumenti poco ortodossi circa le ricorrenze numeriche all’interno del termine Anarcoccultismo: da quello che so, il gruppo di Nun ha deciso di sottolineare la ricorrenza con la disobbedienza civile perché la trovava sostanzialmente divertente. Essendo dei cialtroni non credo sinceramente che ci siano altri significati [ride]. Questo episodio in cui Schmitt dà a Hobbes sostanzialmente dello scemo però è molto interessante: gli dice che non si è preso nemmeno la briga di sviscerare la simbologia e la mitologia del mostro che stava tirando in ballo. Ci mostra il movimento sotteso a tutto il libro: andare a guardare quelle mitologie che in un certo senso ci abitano, ma che molto spesso preferiamo lasciare nell’inconscio del nostro impegno politico. Preferiamo far finta che stiamo lottando per un mondo più razionale quando spesso siamo mossi da desideri inconsci che hanno molto a che fare con un retroterra mitologico su cui non abbiamo alcun vero controllo. Per cui, a mio avviso, la vera forza di questo libro è questa genealogia generale dei nostri desideri inconsci, di tutto quello che abbiamo fatto finta che non fosse affatto nelle nostre vite.
Enrico Monacelli è un filosofo. I suoi interessi di ricerca sono il pragmaticismo di C.S. Peirce, le politiche della negazione e del rifiuto e l’etica postumana.