Al giorno d’oggi, interrogarsi sul rapporto che ci vincola alla tecnologia significa sostanzialmente interrogarsi sul futuro del genere umano su questa terra. Troppo rapida, veloce e capillare è la diffusione delle tante apparecchiature elettroniche o informatiche di cui disponiamo, che da strumenti nelle mani dei singoli individui diventano soggetti in grado di pesare sulla vita delle persone a più livelli (non ultimo quello lavorativo).
Qual è il destino di un mondo dove i social network incidono gravemente sulla psicologia dell’individuo o sulla sua capacità di relazionarsi col prossimo; dove i progressi informatici vanno di pari passo a un peggioramento della dimensione lavorativa, sempre più all’insegna di una richiesta di incremento della produttività al prezzo di un maggior numero di ore sacrificate al lavoro (anche al di fuori degli uffici); dove le depressioni sembrano aumentare vertiginosamente; dove il controllo sull’essere umano per monitorare le sue capacità produttive o i suoi comportamenti pare ormai inevitabile; dove è quasi impossibile pensare un’alternativa al capitalismo selvaggio; qual è il destino, dicevo, di un mondo così, sempre più vicino alla distopia e alla letteratura cyberpunk? Una risposta definitiva è impossibile. Ma è sempre bene fare il punto della situazione, capire dove siamo arrivati e analizzare quali sono le proposte in grado di immaginare una strada che ci impedisca di sprofondare nella negatività più assoluta.
Un validissimo strumento lo offre D Editore con la pubblicazione di Technosapiens, ultimo libro del giornalista Andrea Daniele Signorelli. Con grande agilità e precisione nella scrittura, Signorelli descrive il panorama contemporaneo alla luce della dialettica tra umano e digitale, portando molti esempi e confrontandosi con le diverse posizioni che guardano a questa dialettica. Non si tratta, e non potrebbe essere altrimenti, di un panorama felice o su cui è possibile adagiarsi con ottimismo. Il rapporto tra tecnologia e umanità è messo fin da subito sotto l’insegna di una certa ambiguità. Le comprensibili preoccupazioni sul fatto che le intelligenze artificiali stiano diventando simili alle menti umane (o addirittura superiori, con possibili scenari apocalittici) corrono il rischio di oscurare il problema opposto, ovvero che forse è l’umanità che si sta adattando sempre più alle dimensioni di una macchina. Il monitoraggio continuo da parte di social e smartphone, la programmazione rigida della giornata ai fini di un preciso stereotipo di efficienza (soprattutto lavorativa, ma anche fisica, con i controlli di certe applicazioni dello smartphone al regime alimentare o all’attività sportiva), le tecnologie di riconoscimento facciale (come in Cina), l’organizzazione delle dinamiche da ufficio all’insegna di una competizione a premi simile ai videogiochi, l’abituarsi del linguaggio agli schemi banali e monotoni degli smart speaker: tutto questo, e altro ancora, all’insegna di una presunta razionalità, di un funzionamento della società e dei membri che la compongono simile a quello di un macchinario. «Se progettare un ambiente che costringe l’umanità a comportamenti sempre perfettamente razionali è il primo passo per rendere gli esseri umani stessi simili alle macchine, i segnali che ciò stia già avvenendo sono tutti attorno a noi e sono collegati tra loro da un unico filo rosso: il ruolo sempre più importante che le nuove tecnologie giocano nelle nostre vite. Dal presente degli smartphone al futuro prossimo dei visori in realtà aumentata, fino alle utopie delle interfacce cervello-computer, le tecnologie digitali si stanno gradualmente fondendo con il corpo umano, creando le condizioni necessarie per un’umanità potenziata: più efficiente, più razionale, più veloce e più misurabile». Questo densissimo accumulo di elementi si trova già nella breve Introduzione del libro, che mette subito in chiaro cosa si troverà nelle pagine seguenti.
Le preoccupazioni derivano soprattutto dalla semplicità, quasi impercettibile, con cui certe azioni si sono insinuate nella nostra vita ordinaria. Praticamente impossibile, al giorno d’oggi, resistere alla possibilità di essere reperibili in qualsiasi luogo e a qualsiasi ora, o magari rifiutare le dinamiche da social, con la condivisione, tutt’altro che necessaria, di ogni minimo istante o pensiero della nostra giornata mentre si è alla disperata ricerca di quella iniezione di soddisfazione garantita dal “like” («Invece di rendere i social un’estensione della nostra vita, il meccanismo dei like li ha trasformati in una trappola che ci costringe a scegliere con cura cosa pubblicare e cosa evitare di mostrare, nella speranza incessante di raccogliere il maggior numero di consensi sotto forma di like»).
Questa richiesta di reperibilità ventiquattro ore al giorno ha visto una decisiva accelerata grazie agli smartphone: per alcune categorie di persone, gli smartphone hanno rappresentato un aumento enorme di ore lavorative, vista la necessità di essere sempre connessi e disponibili e vista la difficoltà psicologica di staccare, di non visualizzare quel messaggio sul gruppo di WhatsApp o di non rispondere quando si è direttamente chiamati in causa, anche se si è già arrivati a casa e si sta cercando di vivere la propria vita. Tutto ciò in nome dell’efficienza, della produttività e della rapidità dell’esecuzione lavorativa; per non dire del fatto che con l’ausilio di mezzi informatici il lavoratore è più facilmente controllato e misurato. Viene da chiedersi non tanto se il corpo umano sarà in grado di reggere a questo eccesso di stimoli e di richieste, ma quanto sarà in grado di reggere. Anche in questa direzione si può intravedere una spiegazione al sempre maggior utilizzo di pillole e antidepressivi, al ricorso a rapidi strumenti sintetici che possano dare un soccorso immediato, seppur temporaneo. Facendo riferimento a un noto romanzo, Signorelli inquadra così il problema: «E quindi: stimolanti per stare al passo con la produttività resa possibile dalle nuove tecnologie e non rimanere indietro con tempistiche e consegne sempre più esigenti; antidepressivi e ansiolitici per combattere gli effetti di un mercato del lavoro precario che impedisce di progettare un futuro a lungo termine; pillole contro la solitudine per fronteggiare gli effetti collaterali di una società disgregata e atomizzata; pillole contro il burnout per impedire che il nostro cervello ci possa segnalare, allo stremo delle forze, quando è il momento di dire stop a tutto questo. Invece di rendere le nostre condizioni di vita e lavorative migliori, stiamo inventando farmaci che ci consentono di andare avanti anche quando è insostenibile. Stiamo progettando un mondo di merda, sfruttando i farmaci per continuare a fingere che tale non sia. Se questo scenario vi sta facendo avvertire una sensazione di déjà vu, è perché una situazione simile è stata già dipinta in un classico della distopia: Il Mondo Nuovo, pubblicato nel 1932 da Aldous Huxley».
Nell’ultima parte di Technosapiens vengono messe a confronto alcune teorie, anche estreme, che si pongono in una posizione di resistenza al dominio delle macchine. Sia l’anarco-primitivismo sia il transumanesimo, con le loro proposte radicali opposte, l’una in direzione di un ritorno alla vita precedente alle invenzioni tecnologiche l’altra di un abbandono totale al progresso quasi verso una fusione tra uomo e tecnologia, muovono dalla simile constatazione che l’attuale forma di ciò che chiamiamo progresso sta solo rovinando la vita dell’uomo. E prima di loro Nick Land aveva previsto alcune derive di cui ci accorgiamo solo ora, ponendo, in quei testi così difficili e a tratti incoerenti, le basi del concetto apocalittico di Accelerazionismo. Un concetto che ha portato conseguenze anche a livello politico, si veda il lavoro di due accelerazionisti di sinistra come Nick Srnicek e Alex Williams.
Non si tratta di abbandonarsi alle teorie più assurde, quanto di osservare il disagio generalizzato verso certe derive della società attuale e di cogliere quegli elementi che possono tornare utili per immaginare nuove proposte politiche. Ed è proprio dalla sinistra che si aspetta un rimedio ai tanti problemi di cui si è parlato e che hanno ispirato la scrittura di Signorelli; problemi che minacciano sempre più non solo i diritti civili acquisiti ma il futuro stesso degli esseri viventi.
Dei tanti argomenti toccati abbiamo parlato con l’autore del libro, Andrea Daniele Signorelli.
Technosapiens è un libro che affronta in maniera molto diretta alcune problematiche contemporanee con cui continueremo a fare i conti ancora per parecchio. Comincerei proprio dall’inizio: da dove è venuta la spinta per scrivere questo libro?
La spinta è venuta dal fatto che dal 2016 mi occupo di Intelligenze Artificiali, e inevitabilmente ho avuto modo di incrociare saggi e articoli che toccano questo tema, immaginando scenari fantascientifici con le I.A. che diventano simili all’uomo, prendono coscienza di sé e con il genere umano costretto a capire cosa fare con queste nuove situazioni. Siamo a cavallo tra utopia fantascientifica e distopia. Mentre mi occupavo di questo mi sono reso conto di alcune cose. Che nella nostra quotidianità ci troviamo a parlare con degli smart speaker con cui ti devi relazionare in maniera molto meccanica e robotizzata. Che i lavoratori sono sempre più soggetti a ranking feroci, che sono strumenti a breve termine di valutazione dell’operato di un individuo molto vicini al modo in cui analizzeremmo una macchina più che un essere umano. In un contesto non lavorativo come quello delle scuole, in Italia c’è il registro informatico, che è una forma di sorveglianza che impedisce ai ragazzi di trasgredire, e la trasgressione è un processo di crescita. Marinare la scuola è una cosa vista come negativa, certo, ma ha comunque a che fare con la decisione, con la presa di coscienza e con la scelta, mentre ora gli studenti sono sorvegliati e limitati. Parlando di innovazioni digitali, quindi, mi sembrava che l’idea delle I.A. che diventano simili all’uomo, seppure importante, non fosse interessante quanto quella opposta, ovvero come l’uomo è spinto sempre più verso una robotizzazione.
Il lavoro è centrale nel tuo discorso: il rapporto tra genere umano e tecnologia ha portato a una mostruosa richiesta di aumento dell’efficienza e della produttività, come se certe invenzioni fossero state pianificate proprio in nome di questo.
La tecnologia sembra studiata per rendere più efficienti. Più efficienti non vuol dire letteralmente che devi lavorare di più, però poi il risultato è quello. Le tecnologie ci rendono più efficienti perché ci consentono di fare determinate cose dovunque e di essere reperibili in qualsiasi contesto. Rispondo alle mail dal letto oppure quando sto al mare. Lo smartphone ha permesso passi incredibili dal punto di vista dell’aumento della richieste sul lavoro: è il tassello più importante di un processo che sta andando avanti. Il prossimo passo sarà quello dei visori in realtà aumentata che ci renderanno ancora più fusi con i nostri dispositivi che teniamo in tasca: avremo sempre sotto gli occhi il flusso di notifiche che normalmente ci travolge. Efficienza sì, ma, appunto, lavoriamo ancora più ore, perché siamo sempre reperibili, e questi strumenti, di fatto, ci consentono di produrre di più. In questo senso, invece di usare le tecnologie per liberarci, le usiamo per schiavizzarci. Siamo trattati come risorse più che come individui, da cui estrarre sempre più lavoro grazie alle nuove tecnologie. Non troveremo tempo per noi ma produrremo lavoro e basta. Ovvio poi che alla base delle invenzioni e del progresso tecnologico non c’erano questi scopi, ma non si può fare a meno di osservare che la traiettoria è questa.
La tecnologia aumenta la produzione e noi siamo talmente coinvolti nel processo che finiamo col controllare noi stessi. Non riusciamo a resistere alla tentazione di essere reperibili e di rispondere alle mail, e siamo psicologicamente coinvolti nei passaggi aziendali, col risultato che ci autocontrolliamo.
E sempre più spesso confondiamo il mezzo con il fine. Siamo sempre più nella logica capitalista. Al di là di chi fa volontariato o politica, cioè di chi va oltre il suo lavoro e si impegna per qualcosa in cui crede, mi sembra che quello che fa la logica capitalista sia confondere il mezzo con il fine. Se io lavoro per un’azienda mi devo sentire parte dell’azienda, sentire il suo “inno”, essere considerato come parte del progetto, condividere l’obiettivo, quando invece la finalità reale è solo far arricchire l’azienda che comunque mi pagherà normalmente lo stipendio. Da questo punto di vista, assomiglia a una sorta di lavaggio del cervello.
E non è un caso che si registri un aumento di problemi psicologici. Nel tuo libro questo aumento delle depressioni e delle problematiche psicologiche è correlato alla velocità del mondo tecnologicamente avanzato e informatizzato in cui viviamo, ma il lavoro sembra avere un suo ruolo.
Il sospetto che il mondo del lavoro c’entri nell’aumento dei problemi psicologici c’è. Io posso anche dire che tutto sommato preferisco una dimensione lavorativa più flessibile rispetto a quella del passato, ma si tratta di una mia scelta. Ora abbiamo il precariato a tempo indeterminato, l’essere sempre pronti a cambiare tutto. È una dimensione che può avere dei vantaggi solo e unicamente se è una scelta, ma è terribile se è un obbligo. Il non poter programmare con sicurezza il futuro, la difficoltà di acquistare una casa o anche altri obiettivi che diventano impossibili da raggiungere: mi sembra inevitabile che tutto questo possa avere ripercussioni sulla salute mentale.
Se, tra i tanti temi che hai trattato, dovevssi scegliere quello che ti preoccupa di più, su quale ti indirizzeresti?
Quello che mi preoccupa di più è sicuramente la disuguaglianza. Forse non lo tratto a fondo nel libro, pur menzionandolo, ma ciò che mi fa più paura è che la disuguaglianza, dovuta anche alla tecnologia, a certe proposte del transumanesimo, agli interventi nel campo della genetica, all’istruzione sempre più personale per chi se la può permettere, possa aumentare drasticamente. Penso che la tecnologia prestata a un capitalismo sempre più accelerato, insomma, sia il mix perfetto per dare un’impennata alle disuguaglianze. Preoccupa come la tecnologia e la biotecnologia si alleino per incrementare le disuguaglianze, creando un cocktail di fatto esplosivo. Leggevo che Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha un patrimonio di poco inferiore al PIL della Grecia. È davvero assurdo che un uomo possa accumulare una quantità di ricchezze tali da avvicinarsi a un paese intero.
In un contesto così negativo, è il paragrafo delle possibili soluzioni a essere particolarmente interessante. Tu parli di alcune proposte radicali (anarcoprimitivismo, trasumanesimo o accelerazionismo), non perché le condividi, ma perché da certe loro osservazioni è possibile prendere spunti utili per iniziare a pensare nuove idee.
Per me, le cose rappresentate queste tesi radicali e utopistiche sono essenzialmente due. Prima di tutto la necessità di pensare fuori dalla scatola, di rovesciarla, di vedere come la tecnologia sia stata alleata dal capitalismo e stia diventando una trappola. Partendo da questo, dal vedere le cose in prospettiva rovesciata e fuori dai nostri schemi, si può pensare di usare la tecnologia con finalità diverse, per aiutare l’uomo a migliorare. L’altro aspetto è legato ad alcuni spunti. Nell’accelerazionismo, ad esempio, c’è lo spunto della tecnologia come qualcosa che può regalarci dello spazio e del tempo, tornando a un discorso importante come quello sul reddito di base. Io non sottovaluto nemmeno una cosa folle come l’anarcoprimitivismo. È una teoria assurda, ma ha il merito di aver fatto notare come il presente così com’è non funzioni e l’evoluzione tecnologica si sia rivelata una trappola. Sono tesi radicali, ma possono dare strumenti per mettere in discussione ciò che nessuno mette in discussione. Può essere utile per immaginare alternative.
Noi veniamo da dieci anni in cui ci siamo bevuti lo storytelling della Silicon Valley, di un open web che doveva diventare strumento della libertà e della democrazia e che invece è diventato strumento della sorveglianza o di una sharing economy che si è trasformata in Uber. Ci siamo bevuti le teorie dell’ideologia californiana, che ora vediamo come hanno portato agli interessi di chi voleva diffondere queste storie. Non è il momento delle politiche moderate. Non ne abbiamo bisogno perché c’è troppo da recuperare, perché siamo nel momento in cui si costruisce una macchina nuova da cui ripartire. Per questo qualcosa si può trovare anche nelle tendenze radicali di cui parlavamo. La politica in questo momento sembra non darci delle risposte valide. La sinistra deve innovarsi. Se andiamo a vedere, buona parte della sinistra radicale europea è ancora troppo spesso legata a formule del passato.
Nel libro ci sono vari riferimenti alla narrativa. Le arti in genere sembrano essersi mosse in anticipo: la situazione attuale è clamorosamente vicina a quanto il cyberpunk (e non solo), nella letteratura, nel cinema o con altri mezzi (manga o anime), ha messo in scena molti anni fa. Al giorno d’oggi, secondo te, c’è una letteratura in grado di prevedere un futuro, o comunque di mettere in scena un futuro, o si è troppo impelagati nel presente fantascientifico per poter immaginare il domani?
Rispondo facendo l’esempio di Black Mirror. Quando è uscito, nel 2011, sembrava che ci stesse raccontando un futuro assurdo, ma oggi ci stiamo dentro, dopo soli dieci anni. A fare impressione è proprio questo. Le distopie classiche hanno aspettato decenni prima di arrivare a un mondo che assomigliasse a quanto avevano immaginato; quelle contemporanee no: la realtà è diventata simile a loro in poco tempo. L’impressione è che il presente stia andando a una velocità tale che supera la letteratura. La letteratura o il cinema o la serialità televisiva possono immaginare il futuro spostando l’asticella in avanti, ma la realtà li raggiunge e li supera presto. Il progetto di Black Mirror ha la realtà col fiato sul collo. C’è stato effettivamente un ritorno del cyberpunk, ma tra un po’, secondo me, rivedremo una letteratura spaziale, sulla colonizzazione dei pianeti, che è un argomento che sta diventando di attualità. The Expanse è una serie che parla di colonizzazione di mondi, ed è stata salvata dalla cancellazione grazie all’intervento Jeff Bezos che l’ha messa su Amazon Prime. Forse non è un caso, visto che si tratta della stessa persona che parla di turismo spaziale e di approdo su Marte, come Elon Musk. Del resto, loro sono persone che hanno risorse economiche spropositate e magari possono riuscire a realizzare un’idea come il turismo spaziale. Ma tornando alla domanda, è anche possibile che la narrativa torni a temi di viaggi intergalattici anche per la difficoltà di indagare il futuro prossimo.