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Settembre 1840: all’Accademia delle Scienze di Torino si tiene il Secondo Congresso degli Scienziati Italiani. Ospite d’onore è il matematico e filosofo inglese Charles Babbage, che parlerà del suo progetto di Macchina Analitica – un apparecchio capace di eseguire in automatico calcoli di ogni tipo, grazie a un innovativo sistema di schede perforate. La presentazione è un successo: i partecipanti rimangono affascinati dai disegni con cui Babbage illustra il funzionamento della Macchina e sono curiosissimi dei modelli meccanici parziali che ha portato con sé.
Tra i più entusiasti c’è un trentunenne ingegnere e capitano dell’esercito piemontese, Luigi Federico Menabrea, che due anni più tardi sarà il primo a descrivere la Macchina Analitica in un articolo scientifico. È un giovane brillante, Menabrea, e la pubblicazione dell’articolo sulla Bibliothèque Universelle de Genève non sarà che la prima di una lunga serie di occasioni per dimostrare il proprio valore. Si cimenta nei campi più diversi e in ciascuno raggiunge i massimi livelli: ottiene la cattedra di scienza delle costruzioni all’Università di Torino; formula un nuovo teorema di fisica, il cosiddetto teorema del minimo lavoro; partecipa da ufficiale dell’esercito alle tre guerre d’indipendenza italiane, meritando una lunga serie di promozioni sino a ricevere il comando del genio militare. Deputato del Regno di Sardegna e poi senatore del Regno d’Italia, è ministro nei governi Ricasoli (1861) e Minghetti-Farini (1862-64). È tra i consiglieri più stretti e fidati del re Vittorio Emanuele II, che lo incarica spesso di importanti missioni diplomatiche e gli concede motu proprio il titolo di conte.
Nell’ottobre 1867, dopo le dimissioni del primo ministro Rattazzi, a Menabrea spetta il compito stesso di formare un governo. L’Italia attraversa un momento critico: l’unità è minacciata da pressioni interne ed esterne, il brigantaggio imperversa nelle regioni del Sud, incombe il rischio del tracollo economico. Il nuovo esecutivo cerca una via d’uscita nel perseguimento di tre obiettivi principali: ordine pubblico, conti in ordine, riordinamento dello Stato.
Al lettore non sarà sfuggita una certa insistenza sul concetto di ordine.
Non è un caso: il richiamo all’ordine – all’importanza di ricercarlo, e di ripristinarlo laddove sia stato violato – è una presenza costante negli interventi parlamentari di Menabrea, così come nelle sue lettere private e nelle sue memorie. All’insediamento del suo primo governo, chiede la fiducia al parlamento dicendosi dalla parte «dell’ordine interno, del riordinamento dello Stato e della prudenza». A metà ’68, definisce «uomini d’ordine» i colleghi che hanno scelto di appoggiarlo nel «riordinamento del nostro sistema finanziario e dello Stato in generale». Riferendosi alle iniziative garibaldine, scrive che all’annessione di Roma si arriverà «sulla strada ferrata dello Statuto [Albertino, NdR]», non seguendone «il desiderio disordinato». Al figlio Ottavio ricorda di aver «sempre raccomandato una vita ordinata», e con la figlia Maria cita persino la nonna Jacqueline, secondo cui una dama rispettabile deve saper tenere «trois choses en place et dans un bon ordre; l’argent familial, la perruque, et sa langue».
Perché tanta devozione all’ordine? Deformazione professionale del militare, probabilmente, o dello scienziato. Oppure dato di carattere precedente, causa e non conseguenza degli interessi di Menabrea: una tendenza naturale, andata a germogliare dove il terreno le era più fertile. Impossibile dirlo. Ma la vera incognita è un’altra, ed è quella che apre gli scorci più accattivanti sulla personalità di Menabrea: l’impegno politico. Perché mai un uomo del genere dovrebbe scegliere d’impelagarsi in un mondo così lontano dalla razionalità assoluta e fatto piuttosto di compromessi, approssimazioni, aggiustamenti? Non certo per trovarvi facili soddisfazioni. Anzi, forse proprio per il motivo opposto: per il gusto di un’impresa che sembra impossibile, l’ambizione di una vittoria che sappia di miracolo. Portare l’ordine dove regnava il caos, la pulizia dove dilaga la corruzione. Essere ricordati per aver salvato lo Stato nell’ora più difficile, e averlo elevato al livello delle grandi potenze europee. Un investimento enorme di energie ed emozioni, per Menabrea, che la travagliata esperienza di governo non ripaga. In due anni guida tre gabinetti diversi; tre volte perde la maggioranza e rassegna le dimissioni. Le grandi speranze, frustrate, lasciano il posto a un’amarezza altrettanto grande. È un uomo stanco e svilito nella forza dei propri principi, quello che presenta in aula l’ultimo rimpasto come «il ministero della conciliazione e il segnale dell’oblio degli screzi passati» – un ministero che per giunta si chiude, pochi mesi dopo, travolto dallo scandalo di presunte speculazioni.
«Vi confesso che non ho mai avuto giorni più tristi di questi», ricorderà tempo dopo in una lettera. E c’è da credergli: come sono sufficienti a sbiancargli i capelli, due soli anni sbiadiscono in lui la stessa fiducia nell’intelletto. È oppresso dalla paura di non capire più nulla e di dimenticare quel che sa, di non poter più studiare, insegnare, interpretare problemi complessi e trovare soluzioni efficienti. I suoi ragionamenti, che giudicava logici, non hanno convinto il parlamento; deve rinunciare all’idea che gli uomini, debitamente informati, compiano la scelta giusta, oppure ammettere di non saper più ragionare.
Tiene un diario quotidiano. Al termine di ogni settimana, per mettere la memoria alla prova, scrive una nota riassuntiva di tutto quel che gli è successo e la confronta con le singole note giornaliere – stessa cosa alla fine di ogni mese. Qualunque dimenticanza, anche minima, gli appare come il segno della senilità incipiente.
In realtà, le sue ansie non sono che il frutto temporaneo della delusione, e la qualità del suo lavoro scientifico non ne risente. Nel 1870 pubblica insieme a Joseph-Louis Bertrand la dimostrazione definitiva e completa del teorema del minimo lavoro: è quanto gli ci vuole per riguadagnare sicurezza e persino entusiasmo. A 61 anni torna a vivere come se il futuro fosse un foglio bianco: vuole ancora apprendere tutto quel che c’è da apprendere, capire tutto quel che se ne può capire, trovare il modo di usare le sue competenze per contribuire alla società, alla civiltà, all’ordine.
Insieme al fervore, recupera dei suoi anni giovanili anche l’intuizione mai sviluppata di un elaboratore meccanico, dal debito palese con la Macchina Analitica e tuttavia capace di processare informazioni più complesse dei soli numeri. Nei suoi appunti, con scarsa originalità ma una certa lungimiranza, lo chiama l’ordinateur.
Per potersi dedicare senza impacci all’invenzione passa lunghi periodi nella villa di St. Cassin, in Savoia. Dallo studio al primo piano immerge lo sguardo nella foresta della Chartreuse per risalire gli irti crinali alpini dell’Entremont e del Col du Mollard, fino a sfidare i riflessi accecanti della neve sul Passage de la Cochette. «Al mio pensiero pare doversi inerpicare pei monti di lì – scrive al fratello Leone nell’estate ’71 – per sciogliere le difficoltà di calcolo e di disegno che l’invenzione mi presenta. Non voglio lasciar nulla al caso, nessuna potenzialità meccanica insfruttata. È un pensiero con animo di scalatore, il mio».
Nel corso dei tre anni che passerà a progettare rileverà, e con stupore, un cambiamento radicale nel suo approccio. Da principio voleva imporre al marchingegno un obiettivo predeterminato, un’utilità finale più importante del processo in sé; col tempo, si accorge che i suoi appunti virano in una direzione diversa da quella prevista. A fatica contrasta questa tendenza, per un primo periodo, poi decide di assecondarla, desideroso di sperimentare. Non è una scelta senza inconvenienti, per un uomo affezionato all’avere tutto sotto controllo: «Assentatomi magari una settimana, capita che torni a vedere ciò che di mio stesso pugno ho scritto e disegniato [sic] la settimana avanti, e vibro come di vergogna, come chi dice una schiettezza e si scopre origliato, e strapperei il foglio. Poi penso che immorale è l’origliare quanto il parlare nascosti, e il peso grava tutto su chi parla solo perché dice la verità, che in genere non si dice». Il percorso del suo pensiero scalatore sarà poco battuto, insomma, ma non per questo è meno razionale.
Siamo agli ultimi mesi del ’72; la progettazione dell’ordinateur è quasi completa. Dalle specifiche di costruzione e funzionamento si profila ormai, più che una macchina, un vero e proprio stabilimento industriale. Non esiste, in questo periodo, nessun atto parlamentare, registro universitario o lettera che attesti l’esistenza in vita di Menabrea: dobbiamo immaginarlo dedito esclusivamente a concludere il lavoro, come ha sempre concluso tutto quel che ha cominciato. E davvero lo porta a termine, il progetto di questa macchina sorprendente che ha voluto al punto da strapparlo al mondo delle idee – il progetto di questa macchina che lui vede.
I carichi di materie prime arrivano all’elaboratore su un binario dedicato, che traccia nel piazzale un ampio cappio e poi scompare da dov’è venuto. Vicino al magazzino il treno si ferma, gli addetti scaricano. L’operazione è concitata. Fanno treno-magazzino-treno tirando e spingendo carrelli; correndo come pretendono di fare inciampano, sbandano sbattono, s’ingorgano nell’ingresso. Seguono traiettorie ubriache, parabole ridicole, puntualmente perdono pezzi per strada. Quando rompono qualcosa, è l’umore del momento a dettarne il destino: la riparazione / la discarica / l’utilizzo a ogni costo. Se vedono arrivare un secondo treno trascurano di controllare che tutti i vagoni del primo siano stati svuotati e sollecitano il macchinista a togliersi di mezzo.
Pur coi loro modi rocamboleschi, gli operai possono ancora ritenere di aver fatto un buon lavoro se rispettano un’unica regola. Alla sistemazione delle materie prime non devono accumulare pile né cataste: è preferibile sfruttare fino all’ultimo i duemila metri quadrati di magazzino, purché la macchina – secondo modalità presto chiare – abbia tutto a portata.
Conclusa la disposizione degli input e usciti gli addetti, un triplo segnale acustico avverte che la Fase Uno sta per cominciare. Il magazzino, infatti, è esso stesso un “organo” della macchina, suo solo punto d’interazione con l’esterno. Di qui transita tutto ciò che all’elaboratore serve per funzionare e ciò che dell’elaboratore si serve per trasformarsi, aggregarsi , dissolversi, trascendersi. È un processo laborioso e affascinante.
Quattro bocche circolari, posizionate agli angoli come buche di un biliardo, si aprono ronzando: una ventola in ciascuna, aumentando gradualmente di potenza, aspira tutto ciò che ha peso e diametro tali da poter essere aspirato. Quando le ventole rallentano e si spengono, arriva il turno della forza di gravità: i due lati lunghi del pavimento si inclinano sottoterra e lasciano scivolare le materie prime su una serie di nastri trasportatori, di cui presto conosceremo la destinazione. Nell’eventualità che al termine di questa operazione resti ancora qualcosa in magazzino, il tetto si abbassa al livello del suolo e finisce di spingere giù tutto quello che trova.
Già da questo primo passaggio, il capolavoro di Menabrea è palese: al fiuto del cane più addestrato può scampare una preda, l’esplosivo più instabile può ignorare un fiammifero acceso, ma non esiste input tanto insignificante che la macchina non sappia coglierlo, materiale tanto inerte da non innescarla. Abbraccia il più tiepido suggerimento col più ardente entusiasmo, fa del punto interrogativo in ogni proposta il punto esclamativo di un ordine perentorio.
A proposito di ordine. Sarebbe un errore voler ravvisare sin d’ora la sistematicità che la macchina promette: il suo inventore, determinato e consapevole delle proprie capacità, certo non si accontentava di combattere battaglie già vinte, e stilò il progetto perché le operazioni potessero partire da un livello elevato di casualità, imponendo progressivamente la ragione sulle forme brute. Maggiore il caos all’avvio, minori le probabilità di successo, massime la gratificazione finale per l’ingegno e l’utilità potenziale dell’invenzione.
Successivo momento cardine è quello che vede gli input misurati e classificati. Li ritroviamo in movimento sui nastri trasportatori e in viaggio lungo le serpentine di aspirazione: il loro moto regolare, lo sgraziato ruzzolare, il fluttuare lieve, sono disturbati da appositi strumenti di selezione che segnano nel percorso altrettanti bivi, da cui si dipartono nuovi nastri e nuovi canali. Cancelli in serie, sempre più stretti, per suddividere in base alla dimensione; pareti di pasta molle, per registrare forma e tipo di superficie; vasche colme d’acqua, per valutare la densità; bilance, dinamometri, manometri, termometri, cartine al tornasole, enciclopedie. Un complesso percorso a ostacoli che non prevede una graduatoria, come risultato ultimo, ma un numero crescente di possibili combinazioni alternative tra le materie prime. È questo l’inizio dello stadio di vera e propria elaborazione, in cui più si percepisce l’influenza delle avveniristiche intuizioni di Babbage.
Ciascuna coppia possibile è presa in esame e tradotta in codice su una scheda perforata; le schede relative a combinazioni valide, cioè quelle i cui termini possiedono in effetti qualcosa in comune, sono a propria volta analizzate in coppia e registrate su una scheda; dopo le coppie di coppie, tocca alle coppie di coppie di coppie, etc. La proliferazione è immensa: basti pensare che per 50 elementi esistono 1225 coppie, che generano in potenza 749.700 coppie, e così via. Nonostante i moltissimi abbinamenti illogici, scartati a ogni turno, un ciclo della macchina arriva a contare anche tre milioni di schede. Obiettivo ultimo di questa apparente confusione è trovare il criterio più utile e comprensivo secondo cui classificare gli input.
Il problema è che gli stessi termini si prestano a combinazioni diverse, incompatibili l’una con l’altra e dunque non perseguibili allo stesso tempo. È una situazione normalissima, derivante dalle molte nature di ciascun elemento. Pertanto, posto che la macchina è tecnicamente in grado di intraprendere qualunque singolo progetto di elaborazione, tra quelli che ha saputo individuare, come potrà sceglierne uno solo? Il buon senso detta a Menabrea la soluzione: è necessario un ordine di priorità. Come ripetersi “prima il dovere, poi il piacere” dà una direzione alle nostre giornate, così un semplice meccanismo di valutazioni a scala (“esegui A; se impossibile, esegui B; se impossibile, C”; e via di seguito) può dare una direzione agli abbinamenti.
D’altronde, una priorità ha senso solo in vista di un obiettivo misurabile. Se obiettivo è la produttività, ha senso anteporre il dovere al piacere; se obiettivo è il riposo o lo svago, decisamente no. Ma la macchina non produce in senso stretto: realizza piuttosto calcoli e lavorazioni… Da capo: con quale obiettivo? Per saperlo con certezza, bisogna individuarne distintamente i valori di fondo che in genere si ricercano nel carattere, nelle influenze ambientali, nelle esperienze passate e ricorrenti, nelle preferenze; per poi astrarre queste preferenze e decidere che non sono frutto di coincidenze ma di ragionamenti, e di una sorta di investitura del destino a difesa di esse e della loro diffusione. Questo iter non è perseguibile per Menabrea: andrebbe incontro a difficoltà sovrumane, se cercasse di automatizzare un’analisi qualitativa anziché quantitativa. La macchina deve essere impostata in modo che sua preferenza, valore, obiettivo e priorità sia la sola urgenza.
S’interrompono allora le valutazioni; è tardi per accumulare nuove schede. Nei condotti si vola ai 110 km/h, i nastri in corsa sferragliano e stridono, i bracci meccanici ghermiscono quel che trovano e lo gettano di forza lungo i corridoi delle lavorazioni. Ciascun input è rapidamente bagnato o asciugato, assemblato o smontato, gridato o taciuto, ricordato o dimenticato in base al programma fornito dalle schede. Un gran numero di input che allo stato di origine non potrebbe essere incluso nella classificazione è ridotto ai componenti base.
Sboccia così la felice opportunità di delineare nuove possibili categorie.
Questa fase non è solo parte del normale svolgersi delle operazioni: occupa tra esse un posto di grande rilievo. Avendo a che fare con elementi più semplici, infatti, si può individuare quanto li accomuna secondo criteri più chiari ed essenziali, facendo un passo in più verso la certezza e l’ordine che fondano il progetto intero: perdere questo treno sarebbe imperdonabile. Bisogna dunque ricominciare a inserire input, per aumentare le probabilità di completare le categorie a cui la macchina sta lavorando.
Prendiamo un bottone. Un bottoncino di legno arrivato nel magazzino come oggetto a sé o come accessorio di un cappotto, cui poi le ventole lo hanno strappato. È la chiave di volta della categoria più comprensiva, anche se nessuno potrebbe immaginarlo fino a cose fatte. È l’anello di congiunzione tra due insiemi che grazie al bottone diventano un insieme solo, totale, che farebbe brillare gli occhi a chiunque abbia mai conosciuto la sensazione dell’incompletezza.
Quando si avviano le ventole, il bottone trema come per un terremoto. Si stacca da terra: dai suoi quattro buchetti, simili a occhi di ragno, vede roteargli intorno il magazzino in un momento; rimbalza lungo le pareti di un buio cunicolo metallico, rotola a tratti come una moneta ma la corrente lo spinge e quello striscia rotola frulla poggia accelera rotola capitombola in una tinozza che si svuota in un forno che quasi lo carbonizza e lo sputa: è setacciato appeso compresso infilzato negli occhi di ragno scambiato per una scheda rispinto a razzo nel corridoio: salta le lavorazioni (a) (c) (g) non inerenti la sua categoria, la (h) facoltativa, (m) (q) non inerenti e – quando è già sulla linea gialla al limite della zona (r) – s’infossa in silenzio, senza sollevare neppure una nuvoletta di zucchero, nella pasta soffice di un dolce bulgaro. Che succede?
Ai quattro forellini del bottone si offre lo spettacolo di una bolgia infernale: monumenti, pagine di diario, minestroni, paranoie, gas più leggeri dell’aria, leonesse, biscrome, rifiuti, ripetizioni… i nastri traboccano di input, i condotti d’aspirazione ne vomitano a fiotti e li sparano da ogni parte come palle di cannone; le vasche sono state rovesciate, le grate divelte, le molle stirate. Arrivano semilavorati in continuazione, si accumulano più in fretta di quanto la macchina riesca a smaltirli e i corridoi si intasano, restano intrappolati gli stessi strumenti che dovrebbero tenerli sgombri; la strozzatura si aggrava senza appello.
Ma non si tratta di un intoppo, tutto è previsto. Lungo le pareti dei corridoi si aprono delle botole che danno sugli interstizi tra un tunnel e l’altro. Sono canali di servizio, in teoria, ma larghi abbastanza da deviarvi gli input. Lì recuperano operatività bracci meccanici, lame, spazzole, etc. perché le scatole metalliche dove sono alloggiati si aprono anche verso l’interno. In pochi minuti dall’insorgere della crisi, la macchina ha riguadagnato un assetto equivalente all’originale. La lavorazione può proseguire.
Il bottone, ciliegina tra le più recenti sulla torta bulgara, è risucchiato immediatamente nel nuovo condotto insieme a una folta compagnia: dai corridoi circostanti arrivano input profughi a decine, simboli inconsapevoli di una speranza ingegneristica che non muore. Il nostro eroe è sottoposto alle lavorazioni (h3) e (m3), come da programma, e in un certo senso si gode il trattamento. Ignaro del suo ruolo di input eletto, sta.
Sta per passare alla fase successiva ed ultima, la (a4), quando il destino cui sembrava sfuggito lo reclama a sé. Una valanga di altri elementi, che s’ingrossa con ciò che incontra e solo dalle parti di (k3) perde finalmente impeto, lo travolge. Nel buio compatto di questa frana, neppure i suoi occhi di ragno riescono più a vedere. I nuovi canali sono presto occlusi come i vecchi e pare debbano scoppiare da un momento all’altro. La temperatura sale rapidamente; ora che anche gli interstizi tra corridoi sono bloccati, il calore non può disperdersi. (Teniamo a mente che questa, progettata nell’Ottocento, è una macchina a vapore.)
Mentre nastri trasportatori e canali di aspirazione sono sotterranei, la zona di lavorazione è visibile all’osservatore esterno. È una struttura conica, alta all’incirca come un palazzo di cinque piani, formata dalla sovrapposizione dei molti corridoi a spirale, sempre più stretti andando in alto. Anche il calore va verso l’alto, e infatti i primi incendi si avvistano in prossimità della cima. Le pareti si colorano di giallo, arancione, rosso, come la punta di un gigantesco pastello. Poi si alzano le fiamme, e la similitudine più appropriata diviene quella coi pozzi petroliferi. Poi compaiono tumori neri sulla superficie e seguono tutti lo stesso ciclo: si estendono lungo un corridoio, poi si allargano a macchia di caffè e collassano al centro, mentre le lamiere emettono lunghe grida orribili. A seconda degli input impastati insieme in ciascun punto, si possono riconoscere esplosioni, evaporazioni, accartocciamenti, convulsioni, liquefazioni, oblii.
Polvere e cenere oscurano il sole per un paio di giorni mentre si estinguono gli ultimi incendi. Terminato questo periodo, lo stabilimento si ripopola di operai che demoliscono strutture e smantellano macchinari; tornano anche i treni, che caricano detriti per portarli a fonderie e discariche. Chi è stato spettatore della catastrofe ricomincia a dormire, non fraintende più ogni miagolio notturno per una lamiera squarciata. La stretta allo stomaco, che mimava forse la strozzatura dei corridoi di lavorazione, si è allentata. La paura di morire è dimenticata, rimandata – ciò che sempre accade per la paura di morire, dal primo giorno d’infanzia in cui la si prova.
Ecco in dettaglio il regolare, prevedibile, ripetibile funzionamento della macchina. Menabrea ha completato il progetto dell’ordinateur, ha coronato la sua ambizione. Non come immaginava al principio, c’è da presumere, ma deve vedere nel piano un successo se sceglie di organizzarlo e trascriverlo a mano in tre volumi corredati di formule e immagini.
Un successo. E allora perché, dopo aver investito tanto tempo ed energie, decide di non parlarne mai più e si barrica dietro un orgoglioso silenzio? Dal 1874 torna all’insegnamento, alla vita parlamentare, all’attività diplomatica. Dell’elaboratore, almeno per iscritto, non fa più menzione; non soddisfa neppure le domande insistenti dei più cari amici. I tre volumi saranno scoperti solo con l’inventario del suo archivio, nel centenario della morte.
Provò vergogna, forse. Nascose il progetto perché la macchina, per quanto sofisticata e precisa, era in un certo senso “immorale”, imbarazzante rispetto alle convinzioni del suo inventore: aggiungeva al caos piuttosto che all’ordine e rivelava il secondo come una forma del primo, anziché il suo contrario. (Menabrea fu davvero così disonesto?) O forse fu tanto orgoglioso del progetto che pur non estinguerne l’ideale preferì lasciarlo irrealizzato. (Fu davvero così saggio?) O fu la sua una doppia invenzione, ingegneristico-architettonica e letteraria? Fu per mostrarci una verità, ingannarci, intrattenerci, che Menabrea pensò quest’Icaro di una macchina, che temeraria ascende al sole e poi precipita? (E allora perché nasconderla?)
Nell’aprile 1876, Menabrea è nominato ambasciatore a Londra. Nell’82 passa a Parigi, dove rimane per dieci anni. Ottenuto il congedo torna a St. Cassin, dove si spegne nel ’96. Nello stesso anno, a Parigi, l’editore Charpentier pubblica la prima edizione delle Vite immaginarie di Marcel Schwob.
Copertina di Alessandro Longo.