«Sento la letteratura come un combattimento» — Intervista con Orazio Labbate
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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«Sento la letteratura come un combattimento» — Intervista con Orazio Labbate

Orazio Labbate (nato a Mazzarino nel 1985, ma cresciuto a Butera) è uno degli autori lanciati dalla collana Romanzi di Tunué, all’interno della quale detiene un singolare primato: è finora l’unico ad avere due titoli in catalogo, segno di fiducia e di identificazione nelle linee di ricerca e nell’idea di letteratura proposte dalla collana e […]

Orazio Labbate (nato a Mazzarino nel 1985, ma cresciuto a Butera) è uno degli autori lanciati dalla collana Romanzi di Tunué, all’interno della quale detiene un singolare primato: è finora l’unico ad avere due titoli in catalogo, segno di fiducia e di identificazione nelle linee di ricerca e nell’idea di letteratura proposte dalla collana e dal suo direttore, Vanni Santoni. Lo Scuru (2014) e Suttaterra (2017) sono due esplorazioni nelle viscere di una Sicilia cupa e vitale, dove i fanatismi, le suggestioni dell’ambiente e le ossessioni si mescolano in un unico, grande, dipinto fantastico, restituito da una scrittura densa e preziosa. Si tratta di due romanzi fratelli che, pur avendo una loro indipendenza, si consiglia di leggere in ordine, uno dopo l’altro, per calarsi in pieno nella vicenda che lega i due Buscemi, Razziddu e Giuseppe, protagonisti rispettivamente del primo e del secondo testo. La differenza più evidente tra le due opere è certamente quella linguistica: mentre Lo Scuru attinge ampiamente al dialetto, col risultato di scivolare sempre più all’interno della dimensione siciliana, in Suttaterra si passa a un italiano estremamente curato, di elevata potenza visiva.

 

 

Ma al di là di questo non secondario aspetto, l’impressione è che il percorso iniziato all’esordio sia stato ulteriormente approfondito e affinato. I ricordi di Razziddu, la sua iniziazione in un mondo violento e inquietante, dove si impone la figura del Signore del Puci, cedono il posto al viaggio di Giuseppe, che nel tornare in Sicilia si scontra col passato, con il peso delle sue origini e dei suoi sentimenti; un passaggio che conduce a una percezione più profonda di quanto di oscuro, di sinistro e allo stesso tempo di vigoroso, ci sia nell’animo umano.

Ma, senza dilungarsi, a questo punto è meglio lasciare direttamente la parola a Orazio.

Gianfranco Contini, in un suo saggio, ha detto: «Lo stile mi sembra essere, senz’altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose». Il primo elemento che emerge con prepotenza leggendo i tuoi libri è certamente quello stilistico. Nello Scuru c’è una fortissima componente dialettale, in Suttaterra domina l’italiano, tuttavia entrambi i romanzi brillano per un uso violento, espressivo, direi perfino corporale, della lingua. Cosa pensi allora della frase di Contini?

Sono d’accordo. L’assunto di Contini riassume, con brevità e tuttavia integrità, la mia stessa idea di lingua che dev’essere in assoluto personale; un fondamentale, e primario, atto di identità, di conoscenza dell’universalità, che lo scrittore deve sforzarsi di segnalare. Questa segnalazione non deve però risultare inautentica, seppur nata da uno studio dinamico e letterario di altre opere che aiutino lo stile nel formarsi.

Quest’atto di identificazione, ché rimane eterno e incancellabile, è l’orma più possente, originale, dell’autore affinché lo si possa ascoltare come voce, come espressione di un’umanità/disumanità tutta sua e nel mentre di tutti coloro che gli crederanno.

Tu sei stato uno dei primi autori della collana Romanzi di Tunué, e finora sei il solo che ha pubblicato due romanzi con questa casa editrice. Quanto ha contribuito alla tua maturazione l’esperienza in una collana che, fin dall’inizio, ha dato spazio a giovani scrittori valorizzando proprio la loro originalità stilistica?

Il processo di crescita è stato costellato di un costante e duro lavoro, dagli inizi a oggi. Ciò è avvenuto attraverso un rapporto solido di fiducia umana e professionale con il mio editor, Vanni Santoni. Fattori indispensabili di questo cammino produttivo sono stati e sono: la continuità temporale del rapporto editor/autore (da Lo Scuru a Suttaterra), la comune visione di letteratura, la serietà dell’atteggiamento verso la materia, la reciproca fede nei rispettivi ruoli, il dialogo produttivo e sano, la critica che porta a una nuova costruzione narrativa dell’opera e a un ribaltamento di ciò che è stato scritto. Sono pertanto molto felice del rarissimo rapporto simbiotico costruitosi con Vanni Santoni.

Come si è formato, se mi passi le etichette, questo tuo immaginario notturno, gotico, barocco? Già qualcuno aveva notato la parentela con certo sperimentalismo novecentesco (Gadda, Landolfi e Manganelli), anche e soprattutto di matrice siciliana (D’Arrigo, Bufalino e direi in particolare Consolo, autore ingiustamente poco ricordato).

Si è formato, innanzitutto, con l’amore istintivo del territorio, un amore fisico e religioso, del Sud di Sicilia, che già dimostra e accoglie gli elementi del gotico. I castelli arabo-normanni, i campi e le pianure desertiche, gli oliveti bruciati dal caldo, le chiese barocche, le colline solitarie su cui sorgono paesini desolati, strade lunghe e in mezzo al niente, dove regna una incognita natura mostruosa.

Tali caratteristiche estetiche hanno poi condotto a una mia precisa ricerca linguistica e alla scoperta di una letteratura altamente evocativa come quella dei siciliani a cui mi rivolgo spesso: D’Arrigo (con Horcynus Orca), Consolo (con Retablo, Lunaria, Nottetempo, casa per casa), Bufalino (L’Uomo invaso, Diceria dell’untore, Le menzogne della notte).

Tuttavia, non soltanto gli scrittori siciliani mi hanno supportato nel procedere creativo di una lingua gotica, direi nera, ma anche coloro che hanno fatto dello sperimentalismo la loro cifra. Il gotico difatti abbisogna spesso, a mio avviso, di un linguaggio solenne e di una sempre nuova, accurata e articolata invenzione dei periodi affinché la paura e l’incredulità acquisiscano serietà. Quindi, mi hanno accompagnato: Manganelli (Dall’Inferno, La palude definitiva, Centuria), e Landolfi (La pietra lunare, Racconto d’autunno, Il mar delle blatte e altre storie).

Come ti poni rispetto alla tradizione del fantastico? In Italia è stato frequentato poco ma bene, anche da scrittori tradizionalmente legati ad altre esperienze (e penso ad altri siciliani come Capuana, Pirandello e persino il Verga delle Storie del castello di Trezza). Da cosa dipende, secondo te, la poca attitudine italiana a questo modo letterario, il fantastico, rispetto ad altri paesi?

Io credo che la tradizione italiana del fantastico abbia una nobile storia a cui dobbiamo necessariamente fare riferimento. In breve, come già prima accennato, ecco alcuni autori  da non dimenticare: Landolfi, Manganelli, gli stessi siciliani da te citati, Morselli, e non solo. 

Segnalerei, tuttavia – e perciò mi auguro sia foriero di un più costante e solido cambiamento – un positivo movimento attuale, di sicuro impegno letterario, nel giro critico degno di evidenza, che sta portando al ritorno del fantastico (ampiamente inteso, sia chiaro, dunque della portata di un grosso stomaco del genere) con le voci di giovani scrittori. Cito due opere che mi hanno notevolmente colpito:  Voragine di Andrea Esposito (Il Saggiatore, Milano, 2018), e Libro dei fulmini di Matteo Trevisani (Atlantide, Roma, 2017).

Il fantastico (perdonami se insisto su questo punto) è difficile da circoscrivere, e chiunque si sia avventurato nell’impresa ha dovuto riconoscere l’insufficienza delle definizioni; ora, potremmo essere vaghi e dire che il fantastico è sostanzialmente l’insolito, una presenza inspiegabile e minacciosa, spesso soprannaturale, che mette a repentaglio la logica e la realtà. Nei tuoi libri questa minaccia notturna si lega sia al sacro (e al pagano), sia alla dimensione emotiva particolarmente fragile e allucinata dei tuoi personaggi (e penso naturalmente ai Buscemi, padre e figlio): perché? Cosa ti colpisce e ti affascina di questo panorama visionario?

L’ambiente in cui sono cresciuto è imbevuto di fanatismo religioso, di matrice cattolica. I motivi più spontanei di tale mia affezione sono: l’aver vissuto a stretto contatto con i riti di riferimento, con una fede espressa oltre la ragione e oltre la moderazione; l’epicità dei gesti di preghiera, la percezione assai intensa della questione del divino, il dubbio sulla presenza diabolica. Oltre a tali ragioni concrete vi è una mia sensazione di benessere (come di ordine nell’imporre narrativamente un giusto disordine filosofico-religioso) quando intraprendo la visione dove reinvento orrificamente la teologia cristiana del mio territorio.

Mi viene spontaneo continuare su questa strada. I tuoi romanzi hanno un’atmosfera molto particolare, la tua prosa ha la grande capacità di costruire spazi e orizzonti dove l’inquietudine si avverte in maniera profonda. La domanda che ti sto per fare, mi rendo conto, è un po’ strana, ma cosa rappresentano per te le ombre, la notte, la paura e le ossessioni?

Le uniche possibilità in cui mi concedo fette di immortalità. Il loro buio mi nutre di eternità mentre credo di vivere.

Qual è il tuo rapporto con la cultura statunitense? Non solo letteraria intendo. In altre interviste è stata sottolineata la tua passione per Lynch e un certo tipo di cinema (facciamo il nome di Carpenter).

Ho riconoscenza e debito verso la cultura statunitense. È fondativa delle mie suggestioni  ed è base sostanziale del mio stile.

Circa quella letteraria ecco alcuni scrittori: William Faulkner, Cormac McCarthy, Breece D’J Pancake, Thomas Wolfe, Edgar Allan Poe,  Truman Capote, Flannery O’Connor, Herman Melville, e molti altri. In merito al cinema, invece, senza dubbio le pellicole di David Lynch, di David Cronenberg, di Werner Herzog (che da molto lavora in America), di John Carpenter, e di Stanley Kubrick. Ognuno ha partecipato alla creazione di quella tensione cinematografica presente in Suttaterra e ne Lo Scuru.

Cosa ne pensi delle serie tv? Un tuo mito come Ligotti è stato ispiratore della serie di culto True Detective, e nei tuoi romanzi compare brevemente un personaggio chiamato Rust.

Le serie tv sono ormai altamente qualificate tanto quanto la letteratura dei migliori romanzi. Le serie tv si esprimono per immagini, assecondando tuttavia uno stile pregiatissimo e originale, nonché una evoluzione narrativa complessa e raffinata. Bisogna pertanto considerarle essenziali nello studio e nella creazione del romanzo nella letteratura contemporanea.

Sì, Rust è un omaggio al Rust Cohle di True Detective.

Di solito da cosa parti quando cominci a scrivere? Un’idea, un’immagine o cosa?

Quando mi trovo in Sicilia — o quando sono lontano, in solitudine  percorro la Butera-Gela e sempre in quella strada maledetta/benedetta trovo l’idea oppure l’immagine per la mia scrittura. Da lì tutto ha inizio.

La mia impressione, correggimi se sbaglio, è che hai un’idea vigorosa della letteratura, come sfida, lotta, corpo a corpo: come lettore, oltre che come scrittore, quale uso della letteratura ti dà più fastidio?

Hai detto bene. Sento la letteratura come un combattimento, come uno sviluppo ancor più carnale del mio essere. Tuttavia, non c’è un uso che mi dà più fastidio; mi delude, invece, il suo non uso o la scarsa seria considerazione di essa.

Vuoi parlarci dei tuoi progetti futuri?

Da qualche mese ricopro il ruolo di editor della collana Fiction di Centauria editore, erede diretta del marchio Fabbri. Presto, con il publisher Balthazar Pagani, annunceremo i primi autori, le uscite e il progetto circa la Narrativa.

Ad aprile uscirà, con Centauria stessa, il mio libro illustrato dal titolo Atlante del mistero, con le illustrazioni di Simone Pace. Un viaggio tra le più terrificanti fantasie architettoniche di tutti i tempi. Quaranta in tutto.

Dalla letteratura alla cinematografia e non solo: dalla Loggia nera di Twin Peaks, passando per la camera di Gregor Samsa, fino alla pensione tenebrosa che troviamo in Teatro Grottesco  di Thomas Ligotti…

Massimo Castiglioni
È nato a Roma nel 1988. Collabora con diverse riviste occupandosi prevalentemente di letteratura e cinema.
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