I Dumbo Station sono un gruppo di difficile catalogazione. Matrice e tecnica Jazz, sonorità Nu-Soul, ritmiche Funk, strutture quasi Pop. Una commistione di generi vincente, matura nonostante l’età dei quattro musicisti che animano il progetto: Paolo Zu alla chitarra, Benjamin Ventura alle tastiere, Stefano Rossi al basso e Davide Savarese alla batteria. Il 26 Gennaio uscirà il loro primo disco ufficiale per Alfa Music, che il gruppo eseguirà interamente dal vivo il giorno prima, 25 Gennaio, al Big Mama Club di Roma. Abbiamo raggiunto telefonicamente Paolo e Benjamin per farci raccontare qualcosa in più in merito al disco ed al progetto.
Come e quando vi siete conosciuti, come è nato il progetto?
Benjamin: Ci siamo conosciuti a fine 2015, io in particolare ho conosciuto Paolo grazie al gruppo Inna Cantina, formazione reggae romana in cui tutt’ora suoniamo entrambi. Sono entrato a far parte di questo progetto messo in piedi da Paolo ormai nove anni fa. Lui aveva già scritto diversi pezzi e abbiamo deciso di iniziare la ricerca di un bassista ed un batterista adatti; io ho pensato a Stefano Rossi per il basso e infine abbiamo chiamato Davide Savarese. Siamo partiti a “cannone” perché c’erano già questi pezzi scritti da Paolo che poi abbiamo arrangiato assieme, aggiungendo in seguito altri due-tre pezzi. Abbiamo registrato il disco una prima volta già a Gennaio 2016, ma l’abbiamo cestinato perché non ci soddisfaceva. Il disco “vero” lo abbiamo registrato a Maggio 2017.
Suggeriteci un album del passato ed uno contemporaneo che vi hanno ispirato e che secondo voi dovremmo ascoltare per apprezzare appieno Tirana Cafè
Paolo: Beh come disco “nuovo” sicuramente uno degli Snarky Puppy, del passato forse qualcosa del Phat Metheny Group.
B: In questi casi è tutto molto personale ma l’intento iniziale era effettivamente quello di fare qualcosa di simile, almeno come sound, agli Snarky Puppy soprattutto “We Like It Here”.
Ci sono featuring importanti nel disco, da strumentisti affermati del Jazz italiano come Maurizio Giammarco e Vincenzo Presta ad un cantante giovane ma già importante come Davide Shorty: in che rapporti siete (anche solo in quanto ad ascolti ed influenze) con la scena jazzistica italiana?
B: Una cosa che ha contribuito molto, nel coinvolgere questi musicisti, è che tre membri su quattro del gruppo ovvero tutti a parte me, il tastierista, studiano al St. Louis e lì Giammarco e Presta sono docenti, quindi personalità con cui gli altri sono entrati in contatto nel loro percorso di studi. Piano piano ci siamo fatti “coraggio” nel chiedergli di suonare sul disco.
P: Ricordo quando sono dovuto andare a chiederlo a Giammarco, mi sembrava quasi di andare al patibolo per l’ansia…
B: esatto, ore di ansia, poi fortunatamente tutti ci hanno risposto di sì. Diciamo che invece a livello di ascolti forse io e Paolo siamo più simili, influenzati prettamente dal lato jazzistico, mentre Stefano e Davide vengono da ascolti anche molto diversi, perfino dal Metal.
Il nome del gruppo, dell’album e soprattutto l’artwork di quest’ultimo sono tutti molto particolari: ce li raccontate?
P: Volendo partire dall’artwork, non ci prendiamo nessun merito. Parlai con un mio amico di lunga data che fa il grafico dicendogli «ho questo nuovo progetto che si chiama Dumbo Station, fai te»: è tutto merito di questo ragazzo qua che si chiama Lorenzo Florissi, un grafico veramente forte, ci siamo affidati a lui per tutto.
B: Stavamo cercando il nome ma non avevamo davvero nessuna idea precisa. Siamo partiti dal fatto che ci sentiamo molto “goffi”, abbiamo pensato a quale animale ci avrebbe rappresentato meglio e l’elefante, anzi il “Dumbo”, era perfetto. Tirana Cafè viene da un video su Youtube di gente che fa un picnic in Albania e durante questo picnic cominciano a sparare in aria perché è il loro modo di festeggiare: ci siamo immaginati questo ritrovo sotto forma di Cafè a Tirana dove succedono cose folli ei se Tirana Cafè è l’album, le cose folli che succedono al suo interno sono i nostri brani.
Ci sono due elementi che secondo me usate molto bene e che potenzialmente permettono di far arrivare questo lavoro a chiunque, non solo ai cultori del Jazz o della Fusion: groove ed ironia. Quanto sono importanti questi due elementi per voi?
P: sono effettivamente importanti, il groove scaturisce come detto prima dal fatto che veniamo tutti da generi diversi quindi molto spesso i brani non hanno un portamento swing ma Davide (batteria) suona Funk e Metal , anche Stefano spesso suona Funk, quindi quel genere là influisce molto sull’aspetto ritmico. Per l’ironia credo che non sia consapevole, semplicemente ci divertiamo molto, anche al di fuori del gruppo uscendo insieme e facendo un po’ di “macello” e quindi è un’attitudine che si trasporta poi in ciò che suoniamo, nel modo in cui interagiamo sul palco.
B: sì, quello che hai detto è vero. il fatto è che noi non sopportiamo quest’aura di esclusività che c’è attorno al Jazz quindi volevamo fare qualcosa di ibrido. Lo definiamo Nu-Jazz, cerchiamo di comporre seguendo una mentalità quasi “pop”, ad esempio i brani non hanno mai dei soli molto lunghi, le sezioni all’interno degli stessi sono ben definite, quasi ci fosse una strofa-ritornello-bridge come in un pezzo pop appunto. L’intento era proprio quello di fare musica che fosse appetibile alle orecchie dei più, inclusiva non esclusiva.
Dagli anni novanta in poi, la chitarra è stata un po’ “maltrattata”. Nel vostro disco occupa un posto centrale, in modo discreto e non protagonistico ma strutturalmente importante. Come vedete la situazione dello strumento attualmente?
P: in ambito pop, hip-hop, nu soul etc. scherzando tra di noi diciamo spesso che i nuovi guitar-hero di fatto sono i pianisti. In questo momento sto proprio scrivendo la mia tesi sui chitarristi moderni, dal 2000 ad oggi; negli ultimi quindici anni, gente come Kurt Rosewinkel o Jonathan Kreisbrg stanno un po’ riportando la chitarra in auge. Poi appunto per quanto riguarda il disco, come dicevo all’inizio, avendo scritto io gran parte dei brani, anche non volendolo la chitarra ha un ruolo importante.