KOKOROKO: jazz, diaspora, afrobeat
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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KOKOROKO: jazz, diaspora, afrobeat

Per tutto novembre Roma sarà la capitale del jazz con il Roma Jazz Festival (che comincia con il botto): per l’occasione abbiamo intervistato i KOKOROKO.

Tra le tante citazioni attribuite a Fela Kuti ce n’è una molto bella: «la musica africana è un suono grande: è il suono di una comunità». Una comunità costretta a valicare i confini del proprio paese di origine, sparpagliandosi in giro per il mondo, ma mantenendo sempre intatto il seme che genera il suono di quella comunità, ovunque ci sia il terreno fertile per farlo crescere.

Oggi quel seme è sbocciato a Londra, creando una comunità di giovanissimi musicisti figli della diaspora e formatisi nel jazz contemporaneo. Tra i paesi che più hanno culturalmente beneficiato di questa emorragia africana c’è infatti proprio il Regno Unito. Direttamente dalla Nigeria e dalla sua gente approdata sul suolo britannico, Afrobeat e Highlife, forse i generi musicali africani più “fortunati” in assoluto, si sono infiltrati nel poroso tessuto cittadino londinese — modificando la concezione stessa del ritmo presente in città fino a quel momento. A partire dagli anni ottanta, dall’ibridazione con l’emergente musica elettronica, sono nati così generi elettronici apparentemente lontani dai due genitori analogici: jungle, broken beat, garage, grime. 

I KOKOROKO sono parte integrante di questa nuova scena londinese, movimento che per lo più gira attorno all’etichetta discografica Brownswood Recordings. L’ensemble di otto elementi è in questi giorni impegnato in un mini tour italiano tra Roma, Bologna e Milano. Loro hanno deciso di ribaltare il paradigma, prendendo le strutture ed i suoni originari di Afrobeat e Highlife e impregnandoli di quella specifica sensibilità tutta “British”: una sorta di riflessività urbana che rispecchia tanto il grigio del cielo londinese quanto l’estrema vitalità sociale e culturale delle sue strade. Il risultato, apprezzabile nel loro omonimo EP di debutto, è una musica atemporale: parla a tutti senza distinzioni anagrafiche o geografiche e si esprime al meglio proprio dal vivo. 

Sfruttando l’occasione di questo fugace passaggio italiano ho quindi raggiunto via mail il percussionista Onome Edgeworth per rivolgergli qualche domanda diacronica su Londra, l’Africa, il jazz e la società in cui gli otto giovanissimi componenti si esprimono.

Quando e come vi siete incontrati tutti?

Io e Sheila [Maurice-Gray, trombettista e fondatrice del gruppo n.d.a.] lavoravamo insieme. Parlavamo sempre molto dello stato della musica africana a Londra, così ad un certo punto lei si è mossa e ha trovato un po’ di musicisti con cui suonare. Dopo un po’ di prove abbiamo fatto il nostro primo concerto nel retro di un pub, ad una serata chiamata Good Evening Arts, a Deptford — un quartiere a Sud di Londra. È stato circa quattro anni fa, la formazione è cambiata un po’ nel tempo ma le “vibes” sono sempre le stesse. 

In che modo pensi che Londra abbia plasmato il vostro suono?

Non ci sono tanti posti nel mondo in cui trovi così tante persone suonare nel modo in cui suoniamo noi — tutti nello stesso momento storico. A Londra puoi trovare di tutto. Io sono cresciuto circondato da tantissimi musicisti provenienti dall’Africa occidentale ma ci sono anche le chiese, da cui provengono tanti musicisti, organizzazioni come Tomorrows Warriors e WAC Arts, oltre ad innumerevoli locali sparsi in tutta la città dove le persone possono andare ad esibirsi. 

Più di tutto però penso che sia l’attitudine di Londra ad essere sempre pronta ad assorbire stimoli diversi. Oggi i concerti jazz sono pieni di persone giovani che vengono per ballare, far festa, ascoltare o fare quello che gli pare. Non sono mai stato in nessun altro posto così “pronto” a supportare scene culturali differenti. Magari da qualche parte c’è la stessa atmosfera non so, ma giuro che Londra è speciale!

Come puoi spiegare a chi non è originario di Londra cosa c’è dietro questo incredibile rinascimento di Jazz giovane?

Non so neanche se si possa definire un rinascimento, credo semplicemente che le persone abbiano iniziato ad ascoltare di più. C’è stato bisogno di tanto lavoro per formare quest’attuale scena, questo gruppo. A Londra ciclicamente c’è sempre qualcosa di “grosso”: ci sono generazioni precedenti alle nostre che hanno prosperato e sono ancora in giro. Significa che la torcia viene passata di generazione in generazione. Noi siamo cresciuti con il Grime al suo picco di popolarità; quello in un certo senso ci ha dimostrato che le persone con il nostro background sociale e culturale potevano combinare cose veramente importanti.

La cosa speciale è che tutti noi siamo collegati attraverso cose “diverse”. Puoi ascoltare grime, broken beat, afrobeat, jazz, drum and bass e tanto altro ancora ma tutti questi generi provengono da “noi”, sono musica del popolo. In un certo senso si uniscono i puntini, significa che le persone possono andare ad un concerto qualunque e trovare immediatamente qualcosa di familiare che ci unisce, una connessione instantanea alla musica di tutti i tipi. 

C’è qualche altro paese, esclusi Africa e Stati Uniti, la cui musica vi sta particolarmente ispirando in questo periodo?

Il Brasile! Siamo andato a suonare in Brasile e lì il modo in cui le persone ballano e “sentono” la musica è semplicemente unico. Se riuscissimo ad avere sempre un pubblico come quello brasiliano allora non dovremmo preoccuparci di niente. Anche la loro musica è ottima, ma la cosa speciale è l’impatto, il modo in cui la musica trova questa connessione speciale con le persone. 

Vi siete mai fermati a pensare al significato politico e sociale della musica vostra e dei vostri colleghi? Nello specifico di quanto sia intimamente legata alla storia della diaspora. Cosa significa per voi?

Credo sia impossibile non pensarci. Quel discorso siamo letteralmente noi: viviamo i risultati di quella storia in questo momento, sulla nostra pelle. È soprattutto quando realizzi che non è solo storia passata ma un qualcosa che vive ora, in questo momento, di cui tu fai parte. Quando realizzi che puoi scegliere tu in prima persona come raccontare, plasmare quella narrazione — in quel momento sei libero. 

L’eccellenza è politica. Provenire da ciò da cui alcuni di noi, o le nostre famiglie, proveniamo ed eccellere è creare la storia, modellarla. Alla nostra generazione è concesso di modificare il modo in cui si parla della diaspora e di creare una piccola e personale parte di storia: è eccitante.

In tutto ciò non possiamo ignorare la storia dell’Afrobeat e dell’Highlife. La narrazione che hanno creato e di cui fanno parte questi generi è enorme. Noi cerchiamo sempre di onorare ciò e par farlo dobbiamo avere qualcosa da dire, mantenendo onestà e connessione nei confronti delle nostre culture. Prima di noi e per noi, ci hanno preceduto nella storia di questo musiche personaggi leggendari — dobbiamo onorare la loro eredità.

La vostra musica sembra riuscire a combinare la pura eccitazione ritmica tipica dell’afrobeat con una profonda riflessività, quasi un senso di calma e pace che pervade tutto. È un qualcosa di cui siete consci e che ricercate appositamente o si manifesta naturalmente quando suonate e componete?

Fino ad ora si è manifestato in modo naturale. Per un po’ di tempo abbiamo suonato solo classici afrobeat e highlife, perchè volevamo imparare a suonare quei due generi nel miglior modo possibile; quando abbiamo cominciato a capirli di più allora abbiamo iniziato a comporre la nostra musica. Quando le idee si manifestano di solito le esponiamo alla band e da lì costruiamo: crescono a seconda di chi c’è nella stanza in quel momento, influenzate dal tipo di vibe specifico di quel giorno. Afrobeat ed highlife hanno regole e strutture precise da cui ci lasciamo influenzare ma che non seguiamo pedissequamente. Lasciamo che le altre nostre influenze si manifestino in modo naturale. 

Quali sono i vostri piani per il futuro? Quando ascolteremo nuova musica?

Vogliamo continuare ad andare in tour. Siamo fortunati, abbiamo suonato in luoghi incredibili, di fronte a folle speciali. Tenendo questo a mente stiamo scrivendo il nostro primo album: arriverà presto, inshalla! [“Dio volendo” tipica espressione araba proveniente dal corano n.d.a.]

Anzi, grazie veramente a tutti quanto sono venuti ai nostri concerti fino ad ora e a chi verrà ai prossimi. È ancora dura riuscire a credere che questo è ciò che facciamo nelle nostre vite. È una vera benedizione!

Giulio Pecci
Classe ‘96, studia Lettere e Musica a La Sapienza di Roma. Scrive di musica e cultura, organizza concerti Jazz e cerca di trovare il tempo di suonare la chitarra. Alla costante ricerca del decimo a calcetto.
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