Rassegna videoludica di ottobre
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Rassegna videoludica di ottobre

Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.   FAR: Lone Sails Okomotive Da un po’ di anni a questa parte sono tornati di moda i videogame esperienziali: un misto tra le avventure grafiche, i giochi di esplorazione e gli art game. Sono […]

Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

FAR: Lone Sails
Okomotive

Da un po’ di anni a questa parte sono tornati di moda i videogame esperienziali: un misto tra le avventure grafiche, i giochi di esplorazione e gli art game. Sono prodotti dedicati ad un pubblico più adulto, o più profondo dell’utente Steam medio; hanno una scarsa rigiocabilità, si prendono la briga di prendere per mano il giocatore e condurlo gentilmente in un’avventura già scriptata, con poca o nessuna deviazione dalla storia principale. Se ben fatti, sopperiscono a dinamiche di gioco semplificate con una storia ben scritta, una grafica particolare, una colonna sonora curata – spesso il mix delle precedenti varia. Pensate ai Samorost, Braid, Limbo, Journey, Sword & Sworcery, Thomas Was Alone, Dear Esther, Proteus, That Dragon, Cancer: sono tutti videogame molto diversi tra loro, ma si collocano tutti sotto questa definizione. Sebbene la bolla dei videogame esperienziali sia un po’ scoppiata (ne sono usciti di ogni risma) ogni tanto appare qualche progetto ben fatto che si affianca ai capostipiti. Credo che FAR: Lone Sails possa aggiungersi tranquillamente ai nomi sopra citati.

Il gioco, sviluppato da Okomotive, parte dalle dinamiche di un platform e ci fa controllare un piccolo personaggio senza nome, vestito di rosso, alla guida di un veicolo/vascello di ispirazione dieselpunk attraverso un mondo post apocalittico e desolato, sempre in avanti, verso la destra dello schermo. Il controllo del veicolo è relativo, in quanto il compito del giocatore è premere il bottone per attivare il motore, il freno quando serve, ricaricare il serbatoio, riparare in corsa, recuperare carburante; occasionalmente ci sono delle soste forzate in cui la guida lascia spazio a momenti puzzle-platform mai troppo complessi che servono per sbloccare il passaggio o fornire il veicolo di un nuovo, necessario pezzo.

Come dicevo sopra, a delle dinamiche non troppo complesse in questi casi fanno da contraltare un game design, una colonna sonora ed un’esperienza di gioco notevoli: il giorno e la notte si alternano, così come gli ambienti circostanti e le condizioni atmosferiche, con la musica che accompagna alla perfezione; ogni fermata è una suggestione, un ricordo del mondo di gioco desolato e distrutto, bellissimo e malinconico: zone industriali in rovina, il fondo dell’oceano ormai essiccato con enormi navi e sottomarini, il deserto e la tundra. Il bilancio tra game design, esperienza di gameplay e esperienza di gioco è un terreno scivolosissimo e, quando si parla di giochi come FAR: Lone Sails, anche decisamente personale.

Mi sento però di dire che le due ore passate su FAR: Lone Sails (il tanto di finire il gioco) sono state tra le migliori due ore passate a giocare ai videogiochi degli ultimi tre mesi, grazie anche alle suggestioni e allo spazio che lascia all’esplorazione pura della mente del giocatore (non viene detta neanche una parola in tutto il gioco). Proprio quando la formula sembra stancare ecco che cambia qualcosina: il gioco è misurato, tarato, e bello abbastanza da farci andare avanti senza pensarci due volte. Senza la pressione, lo stress o la maestria che richiedono videogiochi più complessi, i ragazzi di Okomotive hanno confezionato una bella avventura che, a fine viaggio, lascia contenti, pieni.

Mattia Pianezzi ha provato FAR: Lone Sails su Mac.

 

Hello Neighbor
Dynamic Pixels

Tra le pulsioni principali che ci trasciniamo dietro, quella alla curiosità è tra le principali. Di curiosità morì il gatto, si dice, e James Stewart sulla sua bella sedia a rotelle rischiò anche lui di rimanerci secco. Noialtri abbiamo fatto tesoro di quella tensione in maniera molto più prosaica. Se tagliamo fuori la prospettiva di ricerca scientifica e limitiamo tutto forzatamente all’intrattenimento, lo scavo tra giochi, serie, fumetti e vattelapesca frutta spesso diversi tesori. Tra questi, Hello Neighbor, che è un po’ la trasformazione del voyeurismo de La finestra sul cortile in chiave videoludica.

Difatti siamo noi, ragazzini imberbi e sospettosi che rimbalziamo il pallone per strada, alla presa con un inquietante, baffuto, vicino, che pare intento a scopi tutt’altro che nobili. E il nostro fine ultimo, quindi, diventerà proprio quello di sbirciare e intrufolarci in casa sua per capire cos’ha, questo fantomatico, tremendo vicino da nascondere. La risposta potrebbe, o meno, essere ben diversa rispetto a quanto ci aspettiamo. Il gioco, ad ogni modo, ha una struttura anomala. Di per sé prevede una visuale in soggettiva, che tuttavia è ben lontana dagli eccessi dei soliti FPS, e permette di muoversi negli esterni e nella casa dell’uomo soltanto manipolando oggetti e strumenti. Il nostro compito principale sarà quello di capire come entrare nella casa senza farci scoprire, carpire i suoi segreti e uscirne speranzosamente indenni.

La struttura, come dicevamo, è bizzarra: si tratta di una sorta di nascondino in salsa thriller, uno stealth, in sostanza. Tuttavia permette poi diverse derive atipiche. Pare infatti di muoversi in una sorta di puzzle game d’ambienti: come mi muovo? Dove, cosa posso usare per fregare il mio nemico? Inoltre, propone un game over che non è mai esattamente tale: ogni volta abbiamo la possibilità di riprovare la nostra sortita; una sorta di progressione che invita a tentare, sperimentare, correre. Sulla carta, in ogni caso, il gioco dovrebbe offrire un sistema di difficoltà crescente: ogni volta che veniamo catturati il nostro vicino impara qualcosa sul nostro conto e adatta le sue tecniche di conseguenza, rendendo la nostra vittoria sempre più difficile.

Il meccanismo funziona; ma funziona in parte. Perché in effetti si incontra in qualche caso qualche bug di troppo e, nonostante l’adattabilità del nemico, il respawn infinito, gli ambienti non perfettamente bilanciati e le dinamiche a volte macchinose non conducono agli esiti che immaginiamo i programmatori si auspicassero. Tutto sommato però l’idea è ottima, e la realizzazione grafica impatta piacevolmente grazie al suo contrasto tra il contenuto inquietante e l’apparentemente cartoonesca e zuccherosa estetica. Hello Neighbor vive insomma di luci e di ombre. Come primo passo per un ottimo lavoro futuro, e un gioco curioso e sperimentale, vale la candela. Sulla soddisfazione ludica in sé, invece, lascia un poco delusi, purtroppo.

Daniele Ferriero ha provato Hello Neighbor su Windows.

 

Mana Spark
BEHEMUTT

Il genere dei dungeon crawler procedurali è stato decisamente inflazionato negli ultimi anni: dall’infernale e frenetico bullet hell di Enter The Gungeon allo statico e strategico Darkest Dungeon, passando per le varianti più impensabili, come quella ritmica di Crypt of the Necrodancer, se ne sono esplorate praticamente tutte le possibilità. In un panorama simile non è dunque facile emergere, ma Mana Spark, pur senza brillare particolarmente, sa proporre alcune caratteristiche che lo rendono un titolo diverso dagli altri.

La prima cosa che colpisce subito è avere a disposizione come personaggio giocabile un arciere; nonostante l’arco sia spesso presente come arma secondaria nei dungeon crawler, averlo come unico strumento per sconfiggere i nemici è inizialmente spiazzante per chi è abituato ai combattimenti all’arma bianca tipici di questo genere. In questo Mana Spark ha pochi titoli con cui possa essere confrontato: viene sicuramente in mente Titan Souls, del 2015, che pure costringeva il giocatore a capire i tempi e i movimenti necessari a uscire fuori da situazioni difficili avendo la possibilità di ingaggiare i nemici solamente a distanza.

Gli stessi nemici hanno un’imprevedibile maniera di comportarsi, perché sono capaci di collaborare tra loro: ad esempio uno potrebbe montare in groppa e iniziare a cavalcarne un altro. In Mana Spark non è quindi sufficiente identificare quali avversari dobbiamo affrontare, conoscendone con l’esperienza le modalità di attacco: bisogna sempre badare anche al tipo di interazioni che i nemici possono mettere in atto in qualsiasi momento, cambiando improvvisamente le carte in tavola. Il tipo di gameplay che ne risulta è dunque più tattico del solito: il giocatore deve sempre essere in movimento, ricercare la giusta posizione per scoccare le sue frecce, osservare con attenzione i comportamenti dei nemici, e usare a suo vantaggio trappole e altri elementi ambientali.

A mitigare il livello di difficoltà ci penseranno per fortuna gli upgrade di cui è possibile rifornirsi tra un’esplorazione del sottosuolo e l’altra, nell’accampamento che all’inizio del gioco verrà creato vicino all’ingresso del dungeon, e che nel corso del gioco verrà espanso, un po’ come accade ad esempio in SteamWorld Dig. Altre scelte di game design volte ad aiutare il giocatore sembrano invece più discutibili: la presenza di una mappa di ogni livello che non si completa una stanza alla volta, ma rivela la struttura del dungeon fin dall’inizio, è vero che aiuta ad orientarsi e a pianificare i propri spostamenti, ma non si rivela un buon sostituto dei classici teletrasporti e non riduce poi molto il backtracking (la necessità di tornare ad attraversare zone già completate), com’era nelle intenzioni degli sviluppatori. Si tratta di uno tra tanti difetti di poco conto che danno però nel complesso l’idea che Mana Spark potesse essere un videogioco più rifinito.

Gilles Nicoli ha provato Mana Spark su Linux.

 

Megaquarium
Twice Circled

I gestionali stanno tornando di gran moda, e insieme a Two Point Hospital, di cui abbiamo parlato il mese scorso, Megaquarium si candida a essere uno dei migliori rappresentanti di questo glorioso genere videoludico nel 2018. Il titolo dice tutto di Megaquarium, gioco che ci permetterà di costruire e di gestire acquari sempre più grandi e prestigiosi e ricchi sia di animali che, si spera, di visitatori paganti.

Rispetto a tanti altri gestionali il tema dell’acquario qui consente di far diventare la struttura architettonica il primissimo elemento di sfida: dovremo infatti sempre separare le zone in cui si troverà a lavorare lo staff dai percorsi che faranno i visitatori. A questo scopo costruiremo diverse stanze accessibili solo al nostro personale, dove andremo a posizionare sia le vasche che tutti i macchinari necessari al funzionamento delle stesse, oltre agli attrezzi per la loro manutenzione e riparazione, e lasceremo a disposizione dei visitatori i corridoi dai quali si potranno ammirare le varie specie ospitate nel nostro acquario.

Occuparsi poi di pesci, crostacei e altra varia fauna marina genererà ulteriori grattacapi, perché ogni specie avrà bisogno di un diverso grado di temperatura e di purezza dell’acqua, oltre che di mangimi differenti. Bisognerà poi dedicarsi a ricreare gli habitat prediletti dalle varie specie: alcuni pesci hanno bisogno di piante, altri di tronchi di legno in cui nascondersi. altri ancora si troveranno bene solo in mezzo alle rocce. Non solo: alcuni pesci col tempo diventeranno più grandi e avranno bisogno di vasche più capienti. Attenzione poi alla convivenza di diverse specie all’interno della stessa vasca, perché i pesci più grandi tenderanno a vedere nei più piccoli un ottimo spuntino, e quelli più aggressivi renderanno comunque la vita complicata ai più timidi. Inutile dire che ogni volta che morirà un esemplare la reputazione del nostro acquario verrà intaccata.

Megaquarium offre così un giusto mix tra un’esperienza di gioco rilassante e una discreta quantità di problemi da risolvere e di obiettivi da raggiungere per completare ogni livello e passare all’acquario successivo, in un crescendo di complessità, man mano che si sbloccano nuove specie e nuovi macchinari, e di quantità, dato che sarà spesso necessario espandersi per fare spazio a nuove vasche e nuove strutture. Il tutto aiutati e guidati da un’interfaccia pulita ma ricca di informazioni, e deliziati da uno stile grafico cartoonesco decisamente riuscito.

Gilles Nicoli ha provato Megaquarium su Linux.

 

Pig Eat Ball
Mommy’s Best Games

Il Re Torta ha deciso di indire una serie di giochi nel suo regno, convinto di trovare nel vincitore il perfetto sposo per sua figlia; quest’ultima però ha davvero poca voglia di matrimonio, vorrebbe divertirsi a girare il mondo piuttosto, perciò decide di inforcare un paio di occhiali per rendersi assolutamente irriconoscibile e di partecipare ai giochi e vincere per conquistare la propria libertà. Sono queste le curiose premesse di Pig Eat Ball, un gioco il cui titolo equivale in sostanza a un manuale di istruzioni.

La strana struttura in cui è ambientato il gioco è infatti una stazione spaziale abitata da animali più o meno antropomorfi. Il giocatore si trova nei panni della principessa, che è un maiale: il gameplay può essere descritto come un felice incontro tra lo storico Pac-Man e il famoso browser game multiplayer Agar.io, perchè nonostante i giochi siano molto vari ruotano sempre intorno alla necessità di mangiare palline, e man mano che si mangia si diventa più grandi; o sarebbe meglio dire si ingrassa, dato Pig Eat Ball è un gioco, come dire, molto corporale.

Sparsi per il mondo del gioco ci sono dunque tante gare a cui partecipare: lo scopo è ottenere un punteggio abbastanza alto da ricevere in premio una medaglia d’oro, d’argento o di bronzo. La varietà delle proposte di questi minigiochi è uno dei punti di forza di Pig Eat Ball, che non cessa mai di introdurre nuove varianti e nuove meccaniche, e dunque non annoia mai nel lungo termine, e si presta bene anche a sessioni di gioco di pochi minuti. A volte si gareggia contro il tempo, a volte si è in competizione con degli avversari, ma la costante è la gestione delle proprie dimensioni. Ingrassando infatti la nostra principessa non sarà più in grado di attraversare certi passaggi, o di evitare di essere colpita da spine o nemici.

La soluzione in questi casi è vomitare. Avete letto bene, le palline gialle che mangiamo possono essere vomitate come palline verdi per ridurre le nostre dimensioni, salvo poi doverle di nuovo mangiare per completare il livello, ma aspettando che tornino a essere gialle: mangiare palline ancora verdi, cioè il nostro vomito, ci farà solo vomitare ancora, perdendo tempo prezioso. Tutta questa attività viene resa nel gioco, sia a livello grafico che sonoro, in maniera divertente e disgustosa, facendo di Pig Eat Ball uno dei titoli più originali e fuori di testa del 2018. È sconsigliato giocarlo dopo i pasti.

Gilles Nicoli ha provato Pig Eat Ball su Linux.

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