Cronache assurde di viaggio, Festival di Locarno #3
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Cronache assurde di viaggio, Festival di Locarno #3

Vende sempre gli stessi calzini ed ogni volta che lo vedo mi chiedo dove riesca a procurarsene così tanti.

Introduzione al Festival di Locarno

Antonio non si fa fotografare perché si mette scuorno di uscire su internet. Nei treni tra Roma e Napoli è un’istituzione, trovarlo anche sul Roma Milano non mi stupisce così tanto. Vende sempre gli stessi calzini ed ogni volta che lo vedo mi chiedo dove riesca a procurarsene così tanti. Chiacchieriamo e per ammazzare il tempo di entrambi provo a chiedere qualcosa in più su di lui. Fa un lavoro infame e strano ma che ritengo profondamente onesto. Per qualche motivo mi viene in mente di chiedere quali film piacciono ad uno come lui. Mi risponde che al cinema non ci va da anni ma che in tv preferisce le commedie, gli fanno dimenticare i problemi per almeno un’ora e mezza. «Cosa ne penseresti di qualcuno che va per 10 giorni ad un festival di cinema a vedere film praticamente dalla mattina alla sera?» Mi risponde in maniera semplice e perfetta, «Te li mangi anche i film?». Mentre comincio questo pezzo sono all’altezza di Como, accanto a me un ragazzo dorme dopo aver letto il bellissimo numero di Dylan Dog Johnny Freak e un giapponese riprende dal finestrino il paesaggio che scorre accanto al treno; i contorni ruvidi della campagna italiana si confondono con quelli delle prime province svizzere diventando improvvisamente più geometrici. La loro tonalità è più chiara e persino il verde mi sembra più luminoso. A pensarci bene sono a digiuno da stamattina. Entro in sala per vedere Sketches of Myahk di Koichi Onishi. Un giapponese sorridente mi dice «Hello!», ha in testa un cappello di paglia che mi ricorda Sampei ed è visibilmente emozionato, gli rispondo con un sorriso e di primo acchitto mi sembra uno di quelli che ti aiutano a trovare il posto.

Mi faccio spazio tra il pubblico e nel sedermi pesto il piede di una turista tedesca che mi sta accanto, rigorosamente in sandali. Le chiedo se va tutto bene e visto che mi risponde in tedesco credo legittimamente che mi stia insultando. Nel frattempo il tipo con il cappello di Sampei viene chiamato a presentare la serata: è il regista. Dice poche cose ma interessanti, una frase mi colpisce particolarmente «Vi chiedo solo una cosa: guardatelo senza pensare troppo.». Nella provincia di Miyako, vicino Okinawa, le donne portano avanti una tradizione secolare semplicemente cantando. Questa musica popolare nasce nei campi di riso per alleggerire il peso grave della fatica e rischia oggi di sparire perché legata alla sola tradizione orale. Io naturalmente faccio tutto il contrario di quello che mi consiglia Koichi e penso tutto il tempo. Penso che è un documentario modesto, ma sincero, che di registicamente importante c’è la ricerca e l’ossessione. Il film prosegue e pian piano il numero di donne intervistate e chiamate a cantare diventa sempre più alto, ad un tratto mi sento osservato, come se fossi il loro interlocutore. Capisco. Interrogarsi su vita e morte della tradizione musicale vorrebbe dire raccogliere solo il tema marginale del film, correggo il tiro. Comunicare e testimoniare è ciò che interessa realmente ad Onishi. Mi piace e trovo che in fondo sia un utilizzo nobile per una macchina da presa. Incidere nella memoria queste canzoni perché qualcuno, in futuro, possa ancora ascoltarle.

Seguo Les Chants de Mandrin di Rabah Ameur-Zaimeche con a fianco un giornalista tedesco appena arrivato, il film è di quelli da comicità involontaria e tra inquadrature in cui l’operatore sbaglia continuamente a riprendere, lunghe ed estenuanti code su paesaggi e cavalli che pascolano, sguardi in macchina, personaggi che vengono dimenticati completamente nel corso della storia, io continuo a chiedermi come ci sia finito un film del genere all’interno del concorso internazionale. Fatto sta che con film di questo tipo divento insofferente, quindi ogni tanto sbuffo o ridacchio e il tipo tedesco accanto a me reagisce puntualmente catalogando ogni mia reazione su un suo bloc notes. Verso la fine comincio a capire la trama, ma qualsiasi sintesi sarebbe inadeguata rispetto alla semplice definizione di noia. Low Life di Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval invece, è un film. Anche abbastanza complesso. D’altronde se in un pentolone con dentro l’Eau Froide e The Dreamers ci metti anche continui riferimenti al cinema di Godard questo esce. L’intento è raccontare la deriva di chi viene dichiarato clandestino ed è costretto a nascondersi, deriva che a quanto pare non si supera neanche con l’amore. Il film, seguendo un impianto da Nouvelle Vague, è volutamente disordinato: propone una storia d’amore centrale ma la usa solo per descrivere due ambienti e due punti di vista, il legale e l’illegale. Alcune, molte immagini sono potenti e arrivano dritte in pancia, altre sbagliano mira e vanno perdute nella confusione. Rimane la sensazione agrodolce dell’aver visto un film che, in potenza, poteva essere bellissimo. La consapevolezza che è l’opera di due registi emergenti pulisce un po’ il palato.

Qualche anno fa Massimo Coppola ci aveva già provato. Con il suo documentario Politica Zero aveva seguito quattro candidati ventenni alla soglia delle elezioni del 2006. Milano 55,1. Cronaca di una settimana di passioni aggiorna e ricalibra lo spunto. Siamo a Milano, alle recenti elezioni amministrative tra Moratti e Pisapia. Sotto la direzione artistica di Luca Mosso e Bruno Oliviero più di cinquanta registi della scena emergente milanese si sono uniti sotto l’unico comune denominatore di seguire la politica attiva dei giorni che hanno preceduto le elezioni. Il punto di vista cambia continuamente creando un effetto a macchia d’olio. La macchina da presa è sempre presente e, complice uno strepitoso montaggio, riesce a costruire un racconto in divenire da un numero enorme di contributi, circa 200 ore di girato complessivo. Bruno Oliviero, campano di origini, finita la proiezione spiega che per lui questo film va considerato come una cartolina rivolta alla sua città: Napoli. Una cartolina per sollecitare un sentimento attivo che non sia solo politico ma anche sociale.

Sopra: Les Chants de Mandrin di Rabah Ameur-Zaimeche Sketches of Myahk di Koichi Onishi Low Life di Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval Milano 55,1. Cronaca di una settimana di passioni

Sergio Proto
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