Vi sarà capitato di interrogare la Rete in cerca di risposte sui vostri problemi più fastidiosi: dermatite, allergia, reflusso gastroesofageo, ansia, emorroidi, problemi coniugali, la pansessualità.
Nel caso la risposta sia “sì”, dopo avervi idealmente mandato la mia solidarietà, posso immaginarvi mentre vi imbattete in siti e forum votati alla diffusione di “rimedi naturali”, che promettono di poter alleviare più o meno tutti i suddetti mali della vita. Rimedi omeopatici, fitoterapici, floriterapici, naturopatici. Diete vegane, pescetariane, fruttariane, basiche, dukaniane, paleodiete. Moniti e anatemi contro certi prodotti, alimenti e abitudini presunte nocive o non sostenibili. Guide alla realizzazione di deumidificatori dell’ambiente green e fai-da-te, così come di creme, cosmetici, disinfestatori di scarafaggi, mensole da cucina dalle cassette di frutta recuperate, gioielli di copertone di automobili, e ancora molto altro. A volerlo fare, ne uscirebbe un elenco particolarmente lungo, che sembra sottintendere lo stesso gruppo di parole d’ordine: naturalità, sostenibilità, riciclo, benessere, autenticità.


Sebbene la nostra epoca non sia riconducibile a paradigmi culturali ben riconoscibili, esistono alcuni temi e motivi più diffusi e “fortunati” di altri.
Potremmo parlare di ideologie, di tendenze o, per lo meno, di retoriche piuttosto diffuse. Tra queste, la categoria che per prima ci salta all’occhio è senz’altro quella del green. Un vero e proprio Scatolone Magicone in grado di raccogliere e intrecciare opinioni e credenze molto diverse tra loro.
Se disponessimo queste concezioni su un’immaginaria “linea degli stili” troveremmo ai poli estremi, da una parte, l’hipsteria e, dall’altra, il complottiamo più ignorante.
Da una parte ci sono le velleità “neo-umanistiche” degli amanti della bicicletta, il credo dello smart dei prodotti super tecnologici (dall’Iphone a Arduino), l’estetica del riuso, del vintage, dell’artigianato tradizionale, dei bistrot eco-bio super-expensive; dall’altra parte gli stessi principi vengono declinati in modo meno cool nell’immaginario complottista-populista: scie chimiche, rifiuto dei vaccini, metodo Stamina, manipolazione delle menti, Ufo, Big Pharma (per una carrellata esaustiva fate un salto su Protesi di Complotto).
Nel mezzo tra le estremità troviamo le varianti Carlita Dolce, Saicosatispalmi, Green Me, Bioradar, Animal Equality, Veganblog, Il Pasto Nudo – blog e siti che, dai cosmetici naturali all’alimentazione, cercano di istruirvi nel vostro vivere consapevole, ognuno con il relativo grado di sfumatura frikkettona/militante/salutista/responsabile; ma anche Slow Food e mercati della terra vari, ossia tutta quella realtà che ha trovato posto nell’Expo 2015.
Manie di controllo 2.0
A ben vedere, qualsiasi aspetto della nostra vita potrebbe essere sottoposto al vaglio critico del vivere consapevole. In ogni istante della giornata ci rapportiamo con oggetti realizzati in un altrove non meglio definito, di cui noi non siamo che utilizzatori, e spesso neanche quelli finali. Se ci fermiamo un attimo a pensare a quanto poco controllo esercitiamo sulle cose con cui abbiamo a che fare quotidianamente dal funzionamento del nostro corpo fino al sorgere del sole ogni mattino –, è facile essere colti dalle vertigini. Al punto che l’umanità ha preferito elaborare sofisticati sistemi psicologici e culturali per permetterci di ignorare tale inquietante verità.
Per fortuna il mondo ha fatto sufficienti passi in avanti da permetterci di capire cose come le conseguenze dei gas serra, dello sfruttamento del petrolio, della distruzione delle foreste pluviali, della sovrappopolazione, del colonialismo e dello smaltire i nostri rifiuti semplicemente lanciandoli in mare o in un bel prato verde.
Non è sempre stato così. Per moltissimo tempo non era proprio immaginabile che le nostre azioni potessero avere un effetto sull’ambiente circostante. Il mondo era semplicemente un contenitore, un enorme Leroy-Merlin, dal quale un Dio in maglietta arancione e visiera continuava a regalarci strumenti e attrezzi per costruire il nostro paradiso terrestre fai-da-te. Parole come ecosistema, organismo, resilienza, entropia, cancerogeno sono comparse nel nostro vocabolario quando, diciamo così, il grosso dei danni era già fatto.
Fino alla comparsa dell’“opinione pubblica”, quando qualche dubbio circa il funzionamento del mondo ha iniziato a insinuarsi nelle nostre menti.
È da lì che abbiamo deciso che tutti avessero il diritto di essere informati riguardo le scelte in materia di politica ambientale, energetica ed economica, dei meccanismi di produzione industriale, delle condizioni dei lavoratori, ecc. ecc. Il diritto, cioè, a formasi una propria opinione sulle decisioni che “il palazzo” prende sopra le teste dei contribuenti, ed eventualmente a dissentirne. Da lì all’idea del “consumo consapevole” è un attimo, e poi ai movimenti e alle lotte, che lentamente hanno contribuito a cambiare la mentalità di cittadini e aziende, dando parallelamente lavoro a pubblicitari, addetti al marketing, comunicatori e a tutte quelle figure aziendali intenti a costruire un bel rapporto con i consumatori.
E poi un bel giorno è arrivato Internet.

Se già la concezione del consumatore critico, quello attivo, il cui pollice verso è in grado di sfasciare le sorti delle aziende “cattive”, si era fatta largo nel blob dell’opinione pubblica Internet non ha fatto altro che ampliare e potenziare le possibilità di informazione e di azione dal basso dei singoli. O perlomeno, non ha fatto che rafforzare l’apparenza di questa possibilità, regalando agli users la sensazione d’onnipotenza di poter sapere tutto, imparare tutto e fare tutto da sé, che in fin dei conti è quasi la stessa cosa del poterlo fare davvero.
Quando avevo dodici anni c’era Naomi Klein, il boicottaggio alla Nestlè, la lotta ai CFC contenuti nelle bombolette spray e “Cancella il debito” di Jovanotti a Sanremo; oggi c’è la coppetta mestruale, il movimento contro i test sugli animali, i cosmetici senza parabeni e siliconi, i pannolini di cotone e la messa al bando dell’olio di palma.

Pannolini e merendine
Essere uno studente fuorisede attento ai propri consumi, poi, vuol dire vivere una contraddizione di termini sulla propria pelle. Significa passare ore e ore davanti al pc cercando di imparare a riconoscere un buon INCI, spulciando elenchi di prodotti sostenibili in vendita al Lidl, stilando complessi programmi di spesa settimanale disocciata per acquistare prodotti di stagione senza spendervi tutto il bonifico mensile di mamma nel giro di sei giorni. Se poi siete dei soggetti allergici, con disturbi cronici che richiedono l’acquisto mensile di medicinali, saponi, cosmetici, indumenti specifici – tutti artifici grazie ai quali potete avere una vita sociale un pochino più intensa di quella di una boa rossa in mare – allora le ore vanno moltiplicate almeno per due.
La quantità di tempo impiegato all’acquisto di un prodotto diventa, così, direttamente proporzionale alla quantità di materiale prodotto in materia. La rete è un posto che pullula di blog in cui non si fa che darvi dei consigli su come cambiare vita e votarla alla sostenibilità, al rispetto di voi stessi e della natura; consigli solitamente disseminati in 15 pagine di gallery e pop-up.
La sensazione è quella di trovarsi in un deserto di sabbia durante una tempesta di vento, mentre una potente voce dall’alto vi ripete che l’uscita è a Sud: come fare a orientarsi?
Giorni fa fa Il Post ha pubblicato la traduzione di un articolo del Washington Post, in cui si discute della supposta ecosostenibilità dei pannolini in cotone in confronto ai classici Pampers. Pare che i primi scontino l’elevato impatto ambientale della produzione del cotone, oltre che quello della loro “matutenzione”; al contrario dei secondi, le cui aziende produttrici sono ormai da anni impegnate nella realizzazione di prodotti sintetici sempre meno inquinanti. «La maggior parte dei pannolini riciclabili è fatta di cotone: rettangoli di tessuto che si inseriscono in fodere impermeabili. Sia come coltura che come tessuto, il cotone non è né sicuro né rispettoso dell’ambiente, contrariamente a quanto si pensi. (…) I recenti miglioramenti dei pannolini usa e getta spostano l’equilibrio ecologico dalla loro parte. Le aziende che li producono hanno drasticamente ridotto la quantità di petrolio e polpa di cellulosa usata», riporta l’articolo.
Ancora più controverso sembra l’ultimo eco-trend topic, il maledetto olio di palma. Oggetto di accesi dibattiti da mesi, di una petizione proposta da Il fatto alimentare – che ha obbligato le aziende alimentari a specificarne l’uso nella lista degli ingredienti dei prodotti, al posto di un più generico “grassi vegetali” – e di una mozione portata in Parlamento dal M5S.
Qualche tempo fa Report gli ha dedicato un’intera puntata. Il servizio metteva in luce la fallacia del sistema che dovrebbe certificare la provenienza sostenibile dell’olio, i danni ambientali provocati dalla sua produzione e quelli all’alimentazione dati dal suo consumo, oltre che il non rispetto delle norme in fatto di condizioni dei lavoratori. Salvo che poi, due giorni dopo, spuntano sul web un paio di articoli (ad esempio, quello su Strade e su Wired) che sottolineano come la versione di Report sia risultata piuttosto superficiale e capziosa. La prima critica riguarda il fatto che qualsiasi discorso sulla sostenibilità debba essere condotto per via comparativa: è meglio usare l’olio di palma o l’olio di girasole? Fa più male l’olio di palma o il burro? Secondo questi articoli, non porsi una domanda simile equivale a dire la “verità” a metà, dato che il discorso mediatico, tutto rivolto a demonizzare l’olio di palma, finirà per esaltare l’uso di altri grassi vegetali, che però magari hanno controindicazioni uguali o peggiori del primo.
Ma la stessa cosa avviene per i saponi e i cosmetici: dopo aver passato ore davanti lo schermo ad imparare il significato delle diciture sugli INCI, e altrettante ore da Tigotà per cercare il prodotto con la minore presenza di “bollini rossi”, è facile tornare a casa e imbattersi in post con lunghe catene di commenti in cui ci si dà battaglia sul reale potere cancerogeno di siliconi, parabeni e petrolati. Per ogni articolo in cui si condannano certi componenti, ce n’è almeno uno in cui si rivendica l’assoluta bontà degli stessi. Ve lo assicuro, quello della cosmetica consapevole è un vero e proprio viaggio all’inferno e ritorno. Ma anche il mondo dell’alimentazione alternativa non scherza.
Nella nostra percezione, se utilizzare pannolini di cotone può essere meno ecologico di utilizzare quelli sintetici, beh, vuol dire che ogni vostro sforzo di vivere in armonia con la Terra non è che fuffa. Tutto ciò si traduce in uno sforzo cognitivo continuo, nel quale mettere in discussione ogni virgola di quanto leggete. Il complottismo non è che lo stadio successivo. La pressione sociale intorno ai temi dell’ecologia e della sostenibilità è così alta da far nascere un intero business del finto eco-bio – come denunciato sempre da Report – e la corsa all’etichetta e al packaging green dei prodotti, dove basta un accenno al campo semantico della natura per indurre all’acquisto i consumatori pseudo-consapevoli.
Diamo per assodato che tutti noi, o quasi, mettiamo al primo posto nella lista delle priorità il nostro benessere (che non coincide sempre con la salute). Questo vuol dire che, almeno una volta nella vita, ci sarà capitato di scegliere un prodotto più caro e di marca, invece del solito “La taverna di zio Luigi”, in nome della qualità. In certi settori, come quello alimentare e quello cosmetico, marca e prezzo sono ancora i primi indicatori di garanzia di questa, ma nonostante per qualsiasi palato sia evidente il valore aggiunto di una spaghettata con la Voiello piuttosto che con la pasta Combino, la verità è che non abbiamo alcuna idea di quello che succede, al nostro corpo e al mondo intero, prima e dopo aver arrotolato, masticato e deglutito quelle linguine wurstel e pomodorini, né tutte le implicazioni che dipendono dallo spalmarci il fondotina di Chanel piuttosto che l’Essence in vendita all’Ovviesse, o quello fatto in casa acquistato su qualche shop on-line .
La retorica di Internet
A meno che non abbiate vinto una borsa di dottorato in biotecnologie, chimica industriale, ingegneria ambientale e cose simili, l’enorme filiera che conduce dalle materie prime agli effetti sul vostro corpo e ritorno è, per voi, qualcosa di assolutamente smaterializzato, al pari dei soldi del Monopoli. Sapete che ogni vostra azione quotidiana sottintende una quantità mostruosa di processi e meccanismi, dai più micro ai più macro, ma probabilmente ne potreste nominare giusto tre o quattro, massimo cinque, e comunque non manovrereste mai l’intera gamma di conseguenze ed effetti a catena che questi provocano. La nostra capacità di scegliere consapevolmente è del tutto delegata a un sapere che non deriva dall’esperienza diretta, ma da discorsi costruiti da terzi, su cui noi imbastiamo le nostre interpretazioni e opinioni. Tutto, quindi, dipende dalla persuasività e dal grado di credibilità che il discorso su cui costruite le vostre riflessioni saprà mettere in campo, oltre che dalla vostra “esperienza in discorsi”, grazie alla quale riuscirete a sentire più forte la puzza fetente delle balle raccontate.
Il problema è che Internet ha permesso una grande proliferazione nella quantità dei discorsi, e ha costruito l’illusione dell’accesso diretto alle informazioni. Chiunque abbia un pc e una connessione, e che sia digiuno in fatto di meccanismi culturali e della comunicazione, ha la sensazione di poter arrivare a tutto, di poter conoscere e imparare tutto direttamente, aggirando cioè quella mediazione che, poco fa, dicevo costituzionale di qualsiasi forma di conoscenza. È ciò che sta dietro all’idea del tutorial: è vero che ora anche io posso imparare a costruire una bomba, ma questo non toglie che qualcuno me lo stia insegnando in un certo modo e che magari io non sia comunque capace di farlo. Internet si è costruito il ruolo di narratore credibile e l’ha fatto a discapito degli altri mezzi di informazione (la tv, i giornali). Internet è il vendicatore implacabile della verità contro la menzogna, servile, dei “media”. E questo, in un senso e nell’altro.
Esattamente come per la questione “olio di palma sì o no”, tutto Internet non è che un posto popolato da haters dove l’importante è avere qualcuno da sbugiardare, al fine di affermare la propria verità. Se da un lato abbiamo, messi tutti insieme nello stesso calderone, i Politici, i Governi, gli Stati, le Banche, la Nato, il gruppo Bildelberg, la Nasa, gli Ameri-cani, le Aziende Farmaceutiche, riuniti tutti sotto la grande tag del Potere; dall’altra ci sono i Vegani, i Vegetariani, gli Animalisti, gli Ambientalisti, gli Omeopati, i Naturopati, i Santoni, le Femministe, gli Anarchici, i Back blok, a loro volta riassumibili in Gente che non sa di non sapere o Complottisti. Ovviamente, la cosa divertente è rilevare le intersezioni e i cortociruiti che a volte si creano tra chi insulta chi e cosa.

Retoricamente, è interessante notare come la maggior parte del discorso su Internet è volto all’affermazione di Verità che si costruiscono in modo dialettico decostruendone altre opposte, tematizzate come Menzogne. Più nello specifico, Verità Scomode contro quelle politicamente corrette del discorso ufficiale, del pensiero dominante.
Basta con questa farsa della medicina alternativa! Basta con le menzogne di Big Pharma! Tutta la verità sulle intolleranze alimentari! Sfatiamo le leggende metropolitane su allergie e industrie alimentari! Così ci avvelenano i mari! Ecco i gufi contro lo sviluppo tecnologico!
Insomma, tutta la realtà non sarebbe altro che una controcultura e una controinformazione in opposizione a un’ideologia dominante e accentratrice, che però, a questo punto, non si capisce bene quale sia. Un’eterna lotta tra Scienza e Superstizione che non fanno che rovesciarsi l’una nell’altra. Vero è che titoli come questo non danno una grossa mano alla credibilità della stampa, per cui il desiderio di informazione altra non può certo essere biasimato.
Internet e i proverbi
Andando per un secondo oltre la ricerca della Verità e soffermadosi sulla costruzione dei discorsi, tutto questo non sembra molto diverso dalla vecchia e autentica saggezza popolare, ossia quella dei proverbi. Per ogni proverbio ce n’è uno contraddittorio, che cerca di bloccare il tourbillon de la vie, innestandovi delle Verità inoppugnabili. Le persone hanno bisogno di certezze, e non di verità vere, per raccontarsi che la vita abbia un senso: olio di palma sì o olio di palma no?
Oggi come ieri non facciamo che affidarci a un’opinione piuttosto che a un’altra, solo che ora queste si sono moltiplicate terribilmente e che ognuno di noi le spaccia per più vere, più sagaci e più scaltre delle altre, spesso a partire da una competenza fai-da-te.
Insomma, la vita è difficle, il mondo funziona in modo complicato, ognuno di noi è responsabile per sé e per gli altri, e la retorica oppositiva di Internet non fa che confonderci le idee.
Di fronte a una situazione simile possiamo arrenderci all’impossibilità di salvare il pianeta e la razza umana e abbandonarci al consumismo più sfrenato, comprando quattro SUV a testa in cui friggere carne di orso polare in olio Johnson&Johnson, o giocando a freccette nei pascoli con i cotton fioc. Oppure possiamo iniziare a sterilizzarci, rinchiuderci in una yurta fatta di foglie secche e sputo su un altopiano a mangiare ortica e aspettare l’avvento dell’età dell’Acquario.
Io, in realtà, propenderei più per un “nessuna delle due”. Continuerei a leggere ore e ore di discussione sui forum sulla scientificità della dieta basica, a guardare i podcast delle puntate di Report, a ridere dell’ironia degli “esperti” ai danni di qualche ingenuo complottista nei commenti ai post. Ascolterei tutte le campane, ricordandomi che tutti i discorsi sono discorsi costruiti, cercando di tenermi alla larga dai pregiudizi e non prendendo per buona nessuna versione a priori. Un po’ come suggerisce questo comodo tutorial, che sembra fare proprio al caso nostro.