Viva Uber, viva il liberismo
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Viva Uber, viva il liberismo

La battaglia è la rappresentazione plastica dello scontro (violentissimo) tra il nuovo capitalismo e l’antica economia corporativa.

La settimana scorsa i tassisti parigini hanno messo sotto assedio la capitale francese per protestare contro Uber, la start up californiana a metà fra un car sharing e un servizio NCC. Non è stata la prima manifestazione, ma è stata sicuramente la più partecipata e violenta tra quelle che negli ultimi tre anni hanno visto fronteggiarsi la lobby oplita dei tassisti di tutto il mondo e il fantasma della app che gli ruba i clienti. La battaglia è la rappresentazione plastica dello scontro (violentissimo) tra il nuovo capitalismo e l’antica economia corporativa.

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Per chi non lo avesse mai sentito nominare, Uber è un servizio di trasporti privati basato su una app, che mette direttamente in contatto passeggeri e autisti; in altre parole è uguale a blablacar solo che gli autisti guadagnano sulle corse e il servizio è immediato. In particolare il servizio UberPOP è quello che ha permesso il salto di qualità globale all’azienda e ha attirato l’ira dei tassisti di mezzo mondo: chiunque abbia una macchina, 21 anni e una patente può, registrandosi sulla app, improvvisarsi tassista e scarrozzare clienti in giro con prezzi più bassi dei taxi.

Uber è attivo in più di 300 città sparse tra 60 paesi nel mondo; in Italia è presente a Roma, Firenze, Torino e Milano. Proprio nel capoluogo lombardo, dove l’ascesa di Uber è stata amplificata da Expo, si sono verificate le proteste più violente e il 26 maggio un giudice del tribunale ha bloccato UberPOP in tutta Italia, causa concorrenza sleale: lobby taxi 1, resto del mondo 0. Le motivazioni della sentenza si basano sul dilettantismo degli autisti e l’assenza di licenza che determinerebbero «un vero e proprio salto di qualità nell’incrementare e sviluppare il fenomeno dell’abusivismo»; tuttavia la sentenza manca completamente di un’analisi dei prezzi e del mercato.

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L’economia dei taxi italiani è talmente fallimentare da essere diventata una miniera da cui estrarre consumatori per creare nuovi mercati. È successo prima con l’esplosione del car sharing con Car2go e Enjoy (anticipate dal goffo tentativo statalista del car sharing comunale), e adesso con i servizi di trasporto alternativi. Non c’è da stupirsi se si guardano i dati e il sistema sovietico con cui è gestito il mercato, pianificato ai tempi in cui non era ancora nato chi per primo avrebbe pronunciato la parola app.

Il mercato dei taxi è chiuso, basato sulle licenze emesse dal comune: il tassista paga (tra i 180.000€ e i 200.000€ a Roma) per entrare in un monopolio che, senza bisogno di concorrenza o innovazione, garantisce dei profitti. Le tariffe massimali sono decise dal demiurgo Pubblico (quindi si può praticare concorrenza fra tassisti, ma indovinate in quanti lo fanno?) e, a detta dell’Autorithy antitrust, tra il 2006 e il 2014 sono sempre aumentate più dell’inflazione: «A fronte di un aumento medio dei prezzi del 15 per cento (dati Istat), a Roma le tariffe sono aumentate del 37 per cento, a Firenze del 29 per cento e a Milano del 23 per cento». Quindi l’offerta è totalmente determinata dallo Stato, che pretende di sapere meglio dei suoi cittadini quanto servano o meno i taxi: è il socialismo reale nel 2015. La domanda è colata a picco per la bassa qualità del servizio (meno del 10% dei cittadini romani usa i taxi con regolarità, e oltre il 60% non li ha mai usati), e ha ristretto il suo mercato alle fasce di reddito medio-alte. Un fallimento totale, visto l’assist straordinario fornito da un servizio di trasporto pubblico inefficiente e dai costi sempre crescenti delle auto di proprietà.

Nel sistema Uber l’offerta è completamente flessibile: gli autisti lavorano quando vogliono, le tariffe minime sono fissate a 49 centesimi al minuto, più 2,50 euro a inizio corsa (calcolato sulla base delle tabelle dell’ACI); il 20% del totale è destinato a Uber, il restante 80% va all’autista. Per i clienti la app fornisce un preventivo della corsa, un’attesa stimata, l’età dei conducenti, i dettagli sulla vettura, registra la soddisfazione per la corsa. Uber si propone come servizio per coprire i costi dell’auto, e varie inchieste hanno evidenziato che lavorare in maniera professionistica non è ugualmente profittevole. Ma chi è che lo decide? È il singolo cittadino-imprenditore che decide come impiegare il suo tempo; allo stesso modo è il consumatore che è disposto a rinunciare coscientemente a quelle fondamentali garanzie e alle chiaccherate sul 4-3-3 di Garcia che un taxi bianco assicura. Non è chiaro se al momento UberPOP sia legale o meno: secondo i tassiti non rispetterebbe la legge numero 21 del 1992, che prevede, per i servizi con autista «lo stazionamento dei mezzi avviene all’interno delle rimesse o presso i pontili di attracco». I conducenti di UberPOP girano per la città in attesa di chiamate, senza tornare a nessuna autorimessa. Inoltre non hanno alcuna licenza se non la patente di guida, quindi sarebbero colpevoli di esercizio abusivo della professione. La verità è che ci troviamo nella più classica e italiana situazione di incertezza del diritto causata da un vuoto normativo.

La differenza sia giuridica sia filosofica che separa Uber dai taxi, è che Uber non ha dipendenti e non ha clienti. È l’esempio più chiaro della sharing economy – meglio: platform economy –, quell’economia generata da app e siti capaci di mettere in contatto diretto la domanda e l’offerta. Per dirlo in milanese: disintermedia il mercato.  La prestazione è continuamente monitorata e giudicata del consumatore, la reputazione diventa la moneta più importante. Per questo l’accusa di concorrenza sleale scricchiola molto davanti al fatto che non ci troviamo sullo stesso mercato rilevante: costi, metodi, target e servizi sono diversi. La battaglia giuridica che si sta portando avanti assomiglia a un David contro Golia, dove però è David a essere il cattivo: Uber ha un valore stimato intorno ai 50 miliardi, ha raccolto più fondi di Google e Facebook prima di offrirsi in borsa, sta costruendo una sede futuristica, negli States ha organizzato una giornata in cui venivano recapitati gattini a casa per 15 minuti e se volevi li potevi adottare. I tassisti sono l’esempio scolastico di un gruppo organizzato, con un discreto peso politico (il ricatto di bloccare una città ha sconfitto Bersani, Monti e tutti i sindaci), con l’unico obiettivo di difendere la propria rendita garantita dall’economia pianificata e dalle norme assistenzialiste e corporative. Per ora, stanno ancora vincendo loro.

 

Copertina: Aurelien Meunier via The Guardian.

Filippo D'Asaro
Nasce a Roma nell’ottobre del 1992. La sua laurea triennale in scienze politiche si è rivelata fondamentale per scrivere articoli, tenere un blog personale e portare hamburger ai tavoli.
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