Scrivere di sé, scrivere d’amore
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Scrivere di sé, scrivere d’amore

Brevi interviste su “Quello che hai amato”.

Brevi interviste su Quello che hai amato

 

Storie, storie vere, storie vere di donne: Abbiamo le prove. Storie vere di donne, storie vere di donne scrittrici, storie vere di donne scrittrici sull’amore: Quello che hai amato. La prima è la rivista culturale meno noiosa del web – insieme a DUDE MAG, ovviamente. La seconda è un’antologia di racconti. A concepire e realizzare questi progetti di nonfiction, subito dopo aver concluso il memoir Il corpo non dimentica, Violetta Bellocchio. Ho fatto qualche domanda a lei e ad altre autrici di Quello che hai amato: Giusi Marchetta, Nadia Terranova e Mari Accardi.

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Mi sembra che il filo rosso della raccolta sia l’idea che attraverso l’amore – per persone, luoghi, oggetti, libri, film – si scopra qualcosa di sé. Come s’incunea, in questo processo autoconoscitivo, la scrittura?

Violetta Bellocchio – La scrittura di nonfiction è una pratica che ci mette in contatto con quella che nel racconto di Serena Braida viene definita «la sugna»: l’energia che sta al cuore delle cose, e che porta un artista a entrare in contatto con la propria verità. Portare sulla pagina un fatto, un luogo o un’esperienza che provoca una forte reazione in chi scrive è il modo migliore – per me – di tirare fuori «la sugna». E senza una minima quantità di amore per se stessi, secondo me, è assai difficile continuare a scrivere una volta esaurita una primissima spinta iniziale.

Giusi Marchetta – Penso che scrivere significhi scavare. Ogni volta che si lavora a una storia ci si confronta con una parte dell’esistenza che non avevamo preso in considerazione o, al contrario, con un aspetto del mondo con cui conviviamo da tempo e che abbiamo bisogno di raccontare. Al tempo stesso, però, a mano a mano che la storia procede, si scopre qualcosa di se stessi perché magari ci si ritrova a usare sempre la stessa parola o si rimane bloccati su un punto che si fa fatica ad affrontare. In questo processo di conoscenza di se stessi non solo la scrittura mi sembra significativa, ma anche la non scrittura: di cosa evito di parlare? Cosa non racconterei mai e perché?

Nadia Terranova – Si comincia a scrivere pensando di conoscere benissimo il materiale scelto, e si finisce con la sorpresa di averne conosciuto aspetti che mai si sarebbero sospettati. Succede tutte le volte. La terza fase arriva con i lettori, che ti mostrano qualcosa a cui non avevi pensato, e che però hai scritto (lo fai anche tu con l’ultima domanda).

Mari Accardi – Con la scrittura metto a fuoco delle immagini che mi passano in testa, in questo caso dei ricordi. Non si tratta soltanto di trovare le parole giuste perché anche se credi di avere un inizio e una fine man mano che li tiri fuori si ribalta tutto, si moltiplicano le prospettive.

Invece di nonfiction, non avrebbe più senso parlare di autofiction?

Violetta Belloccio – Non mi sento troppo a mio agio con l’etichetta di autofiction: credo che possa essere usata per il lavoro di alcuni autori – pochi – e tra di loro certamente non ci sono io.

Giusi Marchetta – Penso che una definizione possa contenere l’altra. Ad esempio considero nonfiction anche il reportage che non lascia molto spazio all’io narrante ma si concentra soprattutto sulla vicenda o la questione da raccontare. L’autofiction credo si presti maggiormente alla costruzione romanzata quindi al racconto come nel nostro caso.

Nadia Terranova – Secondo me la cosa più elegante è parlare di “letteratura”, indipendentemente dalle dosi di invenzione o realtà.

Mari Accardi – Una volta che un’esperienza personale viene trasposta in forma narrativa diventa in qualche modo fiction, a prescindere da quanto ci sia di falso o di vero.

Al di là delle etichette, dato che il fine perseguito è quello dell’autenticità, c’è secondo te una soglia stilistico-retorica che non bisogna oltrepassare per risultare autentici?

Violetta Belloccio – Ottima domanda. Il senso del ridicolo è la prima cosa che ci si deve strappare di dosso, secondo me, quando si sta all’interno del processo creativo; quando si sceglie di raccontare se stessi mettendoci la faccia e puntando le frecce contro il fattore “tutto vero, è successo a me”, la linea tra autenticità e ridicolo può diventare molto sottile, ed è per questo che alcuni autori non arrivano mai a raccontare se stessi, optando per la soluzione (molto più comoda) del “racconto/romanzo con elementi autobiografici”. In generale, quando leggo (o edito) la nonfiction degli altri, approvo ogni scivolone verso il ridicolo se sento che l’autore ci crede davvero, che quella nota potenzialmente stonata è genuina per lui o lei. Un’immagine o una messa in atto che in un testo di finzione mi sembrerebbero kitsch, in un testo nonfiction mi sembrano rivelare moltissimo della personalità dell’autore.

Giusi Marchetta – No, non credo. Chiunque scriva sa che una narrazione è sempre una costruzione del pensiero e del linguaggio: per quanto si racconti qualcosa di accaduto realmente, il filtro che intercorre tra la storia e il lettore è quello della scrittura. Con la scrittura si dà un ordine ai fatti, li si inquadra in una cornice che li contestualizzi e gli si dà un’interpretazione. Questo però non rende meno autentico il contenuto di quanto si racconta. L’anno del pensiero magico è frutto di un’estrema attenzione per lo stile: il marito di Joan Didion non è meno morto per questo e il libro è decisamente angosciante. Anzi, lo è ancora di più perché quel tipo di scrittura, pensata e potente, riesce a restituire in pieno l’atrocità della situazione.   

Nadia Terranova – Bisogna tenere presente che si sta scrivendo un racconto, e non un diario segreto o una lettera o una chat. Scegliere una struttura in cui muoversi a proprio agio, come si fa con la narrativa, e raccontare quella storia che è solo tua, certo, ma in una forma letteraria, che sia alta o colloquiale, nella forma può somigliare anche a una fiaba, infatti c’è chi in questa raccolta ha preferito addirittura un’inusuale terza persona.

Mari Accardi – Uno dei racconti più “autentici” che ho letto tira in ballo aliene simili in tutto e per tutto alle Barbie. Si chiama La maggior parte dei miei amici sono composti per due terzi d’acqua, di Kelly Link, inserito in una raccolta fantasy. Non ci sono stati imposti limiti di forma o di stile, cosa di cui sono grata, e infatti ho trattato la mia storia come qualsiasi altra che ho scritto.

L’ospite non dorme mai comincia con un film, The Guest, e termina con un libro, Il corpo non dimentica. Sia il film diretto da Adam Wingard sia il tuo memoir ti hanno aiutata ad affrontare le tue paure. Chi tesse l’elogio dell’arte parlando proprio del sostegno che dà contro le ossessioni, solitamente omette gli elementi disturbanti della prima e quelli rassicuranti delle seconde. Tu no: prima dici che le ossessioni si prendono cura di noi con «tenerezza», e poi che scrivere di sé rende liberi ma «porta a una certa perdita di umanità». Ne vale davvero la pena?

Violetta Bellocchio – Ne vale sempre la pena. Io trovo parti preziose di me stessa nella creazione degli altri, e spesso una creazione etichettabile come “disturbante” mi provoca l’effetto di un lampo nel buio: mi sento rimessa in gioco dall’arte altrui, toccata profondamente. Riportata in vita. Nella pratica di scrittura personale, fiction o nonfiction, mi sento così soltanto quando sento di aver messo sulla pagina un’immagine (grande o piccola) che parla del privato di un personaggio. La mia perdita di umanità relativa riguardava (e riguarda) alcuni fatti che ho raccontato nel Corpo: quella parte specifica della mia storia non è più soltanto mia, non è privata, vive nello sguardo dei lettori. È diventata una parte della vita degli altri, e può smuovere qualcosa in loro come può non smuoverlo. Di certo io le ho dato un nome, a quella storia, e portandola in superficie le ho tolto una parte del potere che aveva su di me. In questo ho perso un po’ di umanità, forse. In questo momento, a porte chiuse, sento che ne sto recuperando una parte grazie a una storia di pura finzione. C’è molto potere anche nel dare i propri occhi a un personaggio immaginario, e scoprire un mondo attraverso di lui, o lei.

In Acqua s’intrecciano due piani temporali e due protagonisti: il tuo presente e il primo Novecento di Biagio, il tuo bisnonno. A un certo punto Biagio, aiutato da un po’ di compaesani, si costruisce la casa: «Cominciano a scavare in quattro (il podestà ha mal di schiena) e un mese dopo sono diventati dodici…». Mi ha colpito molto – forse troppo – il dettaglio del mal di schiena del podestà; non tanto perché potresti averlo inventato tu, indebolendo in un certo senso l’intento veridico del racconto, quanto perché anche se ti fosse stato riferito da qualcuno non sarebbe comunque necessariamente vero, dato che il podestà potrebbe aver mentito per pigrizia. Non pensi che quel mal di schiena faccia crollare la distinzione fiction/nonfiction del racconto e forse addirittura della vita? O sto solo esagerando con le seghe mentali?

Giusi Marchetta – Nel caso specifico riportando che il podestà rifiuta di partecipare al lavoro dicendo che ha mal di schiena non solo metto in conto che stia mentendo ma lo insinuo. Che stesse mentendo per evitare la fatica per me è un dato di fatto: mi sembrava divertente l’ambiguità nel raccontarlo. Detto questo: è vero che il podestà non ha partecipato? Non è vero? Ti rigiro la domanda: ti importa sul serio? Quando si scrive un racconto partendo da un fatto vero non si sta facendo cronaca: ci si impegna a costruire una storia in modo che, rispettando la vicenda, risulti interessante, linguisticamente apprezzabile e con un senso. La questione della veridicità di questo mal di schiena non penso vada a inficiare il resto della storia, se questa ha avuto un impatto sul lettore e se è stata costruita con onestà e autenticità nei confronti dei fatti di cui parla. Insomma, credo che dei racconti nonfiction prevedano comunque un’elaborazione della realtà che viene raccontata e da lettrice, (a meno che io non stia leggendo un reportage), spero sempre che questa elaborazione mi racconti una verità più vera (più profonda, più nascosta, più autentica) della semplice descrizione di un fatto realmente accaduto.

Ci siete tu e tua madre, che crescete e invecchiate, divertendovi e litigando; c’è poi qualcuno che ha smesso di crescere e invecchiare: tuo padre, che lasciandovi presto orfana e vedova vi ha segnate per sempre; e c’è infine una panda, forse la vera protagonista di ME 619753 e della vostra rielaborazione del lutto. Hai raccontato le due esperienze più terribili dell’amore: essere abbandonati, abbandonare. Com’è stato rileggerle?

Nadia Terranova – Hai ragione! Non ci avevo pensato in questi termini, è soprattutto un racconto sull’abbandono. Rileggermi mi fa sorridere e chiedere dove trovo la forza di mediare cose che mi hanno fatto soffrire e ho tenuto chiuse a chiave per anni, ma quando arrivo a quel punto l’elaborazione del dolore è già avvenuta, è stata consegnata ai lettori.


Per me Imparare il mio nome in Irlanda è la storia più enigmatica e affascinante del libro. Enigmatica perché in tutte le dinamiche relazionali raccontate – Mari-cugina, Mari-padre, Mari-Palermo, Mari-Irlanda, Mari-Conall, Mari-cibo – c’è sempre un po’ di amore, ma mai un amore, diciamo così, sano, quieto o raggiante. Affascinante, per lo stesso motivo. Qualcosa di indissociabile da ansie, nostalgie, gelosie, invidie, ossessioni: è questo, per te, l’amore?

Mari Accardi – La mia idea iniziale era quella di parlare di un’esperienza di cui un po’ mi vergognavo e che credevo di aver sprecato, salvata solo dal legame che era riuscito a crearsi, nonostante tutto, tra me e il bambino a cui facevo da baby sitter. Poi, man mano che scrivevo, mi sono accorta che in realtà erano presenti diversi tipi di amore (seppur ansiosi, ossessivi, nostalgici, eccetera, in misura variabile) ed è stato interessante per me dar loro spazio, senza giudicarli. Ho provato addirittura tenerezza per una Mari che si nasconde ricoprendosi di bolle. Che sbaglia tutto, ma a modo suo ci prova. Non so se esista l’amore sano o se ci sia un’unica definizione, la costante delle mie relazioni dopotutto sono io.

Orlando Vuono
Sa di essere stato piccolo subito sotto alle Dolomiti e medio alle università di Milano e Bologna. Non sa dove cosa perché farà da grande, né se un giorno lo diventerà.
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