Nicola Lagioia | BELLAGENTE 2016
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Nicola Lagioia | BELLAGENTE 2016

Sabato 12 marzo, BELLAGENTE 2016 è al MONK.

All’inizio di Via Libetta Roma sembra una città fantasma. La strada è buia, gli spazi ampi, non si vedono case ma solo enormi edifici vetrati che sovrastano palazzetti bassi, vecchi e disabitati. Per strada non c’è nessuno oltre a un silenzio inspiegabile per il quartiere Ostiense. Su Via Libetta ci sono una decina di locali notturni sparsi su meno di cento metri e alle 17 di un lunedì di ottobre la strada sembra la pelle morta del fine settimana. In questo contesto Nicola Lagioia mi sembra anche lui assente e distaccato. Quella che mi ha concesso è l’ultima intervista di un lungo anno di promozione de La Ferocia, il romanzo con cui ha vinto il Premio Strega e si è definitivamente consacrato come uno dei più importanti scrittori italiani. È un periodo impegnativo per lui, e quindi abbiamo fissato un appuntamento di qualche ora a Officine Fotografiche, dove può fare sia l’intervista che le fotografie.

nicolalagioia

Lagioia ha un completo scuro, controlla spesso il cellulare e ha l’aria trafelata. Io sono un po’ teso perché mi rendo conto di quanto sia impegnato, e mi chiedo se questi incontri non siano solo una fonte di stress per uno scrittore. Scendendo giù nella stanza per le fotografie ha un atteggiamento vagamente rassegnato, ma è comunque gentile, professionale. Seduto di fronte alle luci per farsi fotografare il mezzobusto ha un’espressione triste e bella. Il fotografo gli fa notare che ha un’aria “veramente drammatica” e lui gli chiede se è un bene o è un male senza ironia, con un tono preoccupato.

Quando gli chiedo se si sta godendo il successo mi risponde di no. A quel punto sono un po’ preoccupato per la mia intervista appena cominciata, gli dico quasi per scusarmi che so che sta facendo un sacco di cose. Lui la interpreta come una richiesta di spiegarmi tutti i suoi impegni, e ho l’impressione che sia una sua routine nelle interviste. «Sto lavorando a Minimum Fax dove faccio il responsabile di Nichel. Poi faccio una trasmissione su Radio 3 sulla terza pagina. Adesso faccio anche una trasmissione su Rai 5 che si chiama Memo: parliamo di libri, teatro, fumetti. E poi faccio anche il selezionatore al Festival del Cinema di Venezia». Lo dice con un tono che non tradisce nessun fastidio.

Non so se sia più faticoso ogni volta auto-presentarsi così o riuscire a fare tutte queste cose, e nel frattempo scrivere romanzi di successo. Gli chiedo con curiosità come fa, se ha abitudini particolari, com’è una sua giornata tipo, se ha qualche segreto da svelarmi per non impazzire: «Mi piace rispondere a queste domande. Di solito fanno sempre domande poco concrete e invece il lavoro dello scrittore ha degli aspetti molto più concreti di quanto si possa immaginare». Questa cosa gli sta a cuore e la sua voce per la prima volta diventa interessata: «Hai presente il giorno della marmotta, il giorno sempre uguale? Io metterei la firma per trascorrere sempre lo stesso giorno per due, tre anni e scrivere un libro».

Lagioia è davvero uno scrittore: «In questo periodo non ho la radio quindi mi sveglio tra le 6 e le 6 e mezza e alle 7 attacco a lavorare: mi faccio dalle sette all’una e mezza. Sei ore in cui ho tutto staccato e nessuno mi deve disturbare. All’una e mezza riaccendo il telefono e faccio tutte le altre cose: lavoro per Minimum Fax, rispondo alle mail. Divido completamente la giornata in due: se posso mi faccio un pisolino di venti minuti per resettare meglio tra una cosa e l’altra. Sonni brevi perché se poi dormi troppo è un casino, sei rincoglionito».

Gli chiedo se è così metodico anche da lettore, e se quando scrive prova ad accordare la sua scrittura su quella degli autori che legge: «Forse inconsapevolmente sì, ma come lettore sono stato sempre istintivo, almeno in quello provo a non essere programmatico. Leggo quello che mi capita». Poi mi dice una cosa che dà l’idea delle profondità del suo rapporto con la letteratura: «Penso però che il desiderio di leggere un autore non è mai cieco: è sempre un desiderio al servizio di qualcos’altro. C’è sempre un motivo, anche se non sembra, che ti porta a leggere un certo autore. Non so chi sia il mandante di questa cosa ma c’è». Gli chiedo che libri ha letto durante La Ferocia: «Ho letto molto Roberto Bolaño. Ma comunque i libri che leggo e rileggo sono sempre gli stessi: Musil, Proust, Faulkner, Lowry, Nabokov».

Nabokov diceva che per avere una vera cultura non bisogna leggere molto: bastano 5 o 6 capolavori conosciuti a menadito. «Non è del tutto falso. La biblioteca di Spinoza erano 400 volumi, non tantissimi per un filosofo che ha rifondato la filosofia, no?» Gli ricordo allora una sua dichiarazione severa, in cui disse che per scrivere le prime cinque righe decenti bisognasse leggere almeno 50 bei libri l’anno: «Ma parlavo da editor di Minimum Fax!» precisa, «Leggo manoscritti di persone che hanno la pretesa di scrivere senza conoscere niente, e quindi senza avere i ferri del mestiere. È come voler fare il pittore senza conoscere Picasso: è impossibile poi trovare la tua voce» che è il lavoro più complesso per uno scrittore.

La Ferocia ha uno stile elettrico, i periodi sono appuntiti da frasi brevi, dirette. Se messo a confronto con i libri precedenti di Lagioia è evidente che c’è stato un profondo lavoro per asciugare i periodi lunghi e rotondi dei romanzi precedenti. «Quello è il lavoro più difficile, complicato, faticoso. La Ferocia ha uno stile più simile a una certa poesia tedesca. Ho letto molto Georg Trakl e ho cercato uno stile più inizio novecentesco». Una letteratura che Lagioia ama particolarmente: «Quel periodo è pieno di miei amori letterari. Tutta la brigata di Proust, Svevo, Musil, Joyce, Faulkner, Dos Passos. Ma anche la poesia italiana di Dino Campana e Amelia Rosselli».

Questo del modernismo è un punto importante per capire la differenza de La Ferocia. Dopo Riportando tutto a casa Lagioia ha esplicitamente ammesso che c’è stata una svolta nella sua scrittura, interpretabile forse anche come un rilancio delle sue ambizioni. Di recente ha dichiarato che non è vero che non si possono più scrivere grandi romanzi, e Bolaño ne è la dimostrazione. Solo che c’è bisogno di abbandonare le strettoie del postmoderno e di riprendere invece l’eredità della letteratura massimalista, di recuperare le “scorte inesaurite del modernismo”.

Gli chiedo di spiegarmi meglio i contorni di questo passaggio. «Io sono legato al post-moderno, ci ho avuto molto a che fare, anche lavorando a Minimum Fax. Figurati. La stagione degli Stati Uniti degli anni ’90 è stata ricchissima. Dall’11 settembre in poi però mi sembra che questa scena sia implosa». Per Lagioia qui c’è il segno di un suo rilancio in avanti come autore: «Per me il postmoderno è una sorta di marxismo senza escatologia. Funziona per ciò che riguarda la diagnosi, però mi sembra che sia poco capace di individuare delle vie d’uscita davvero credibili».

Per Lagioia il postmoderno racconta delle stanze senza botola, dei mondi orizzontali, mentre la grande letteratura ha sempre una verticalità, qualcosa che “sfondi”: «La letteratura vuole sempre la sua Moby Dick. Una tensione verso l’alto che io avevo trovato in Bolaño. Ma anche in Sebald o in Saramago. Per loro il mondo non si limita a quello che vediamo».

Anche ne La Ferocia c’è una continua tensione tra visibile e invisibile, tra ciò che è e ciò che appare. La realtà che viene raccontata sembra solo una delle tante possibili. Una dialettica che riesce a far sembrare il libro tanto contemporaneo quanto inattuale. «Questa cosa è stata il mio atto di coraggio. Ho abbandonato dei territori che già conoscevo, un’accordatura che già avevo. Lo sentivo prima di farlo, volevo fare questa cosa qui». Quando si parla più a fondo di letteratura le risposte di Lagioia si affinano, assumono profondità. Si prende delle pause concentrate per capire bene quale concetto vuole esprimere: «Il fatto è che il realismo non esaurisce la realtà! Sia ad andare verso la fisica che ad andare verso la metafisica. Non c’è bisogno di credere che ci sia qualche presenza ulteriore: anche ad essere materialisti sono decenni che la fisica ci dice che i sensi ci ingannano. Il tempo non è lineare, esistono i multiversi! Il mondo fisico è talmente pazzesco, e noi siamo talmente circondati dal mistero, che mi sarebbe sembrato assurdo scrivere un romanzo immaginando di dover raccontare un mondo chiuso e già perfettamente decodificato».

Gli dico che mi sembra proprio uno dei ruoli della letteratura, quello di indagare una dimensione soprasensibile del mondo. «Certo, e tornando alla domanda di prima, quello è stato per me il limite del post-moderno, cioè il fatto che pretendesse che tutto fosse mappato. Ma come fai a pensarlo? Gli strumenti che abbiamo per decifrare la realtà sono insufficienti».

La Ferocia è piena di paragrafi descrittivi fino all’aspetto più microscopico della realtà naturale. Uno sguardo che scende così nel dettaglio fisico da diventare metafisico. Come se ci fosse qualcosa di mistico che scorre sotto a quello che viene raccontato. «La Ferocia non è un romanzo realista. La vita è sacra anche se non esiste Dio. Altrimenti dovremmo ammazzarci l’uno con l’altro: non esisterebbe neanche un problema etico. C’è qualcosa che mi fa considerare un “di più” che non si vede e che la letteratura deve lambire. La poesia per esempio fa proprio questa cosa: lambire oltre il significato logico delle parole e individuare delle zone oscure, strane, misteriose».

Questo livello perturbante e oscuro che si insinua nel reale quotidiano mi fa pensare a Lynch. Non c’è niente di casuale probabilmente considerando quanto Lagioia ami il regista statunitense. «Le più belle sequenze di Lynch sono quelle in cui non succede niente. Eppure c’è qualcosa di strano». Lynch è sparso nel romanzo anche in piccoli meccanismi narrativi, come per esempio in alcuni passaggi dove vengono gonfiate delle bolle di tensione immotivata che alla fine scoppiano in un vicolo cieco. «Sì, ci sono delle cose strane. Nella vita queste sensazioni esistono: cammini per la strada, è buio, e sei teso e angosciato per qualcosa che non sai cosa sia, come se fossi in presenza di qualcosa di ulteriore».

In diverse interviste Lagioia descrive la “ferocia”, che dà il titolo al libro, come una sorta di istinto di sopravvivenza che porta ad accettare il male, almeno in certi contesti. Gli chiedo di precisarmelo ancora, perché ho l’impressione che rappresenti una specie di motore etico del romanzo. «La ferocia è un istinto di prevaricazione che nasce da una violenza originaria. L’uomo per sopravvivere come specie doveva essere per forza violento. È chiaro che come razza dovremmo staccarci da questa violenza, ma lo facciamo troppo poco».

Nel romanzo questa ferocia alimenta l’istinto di molti protagonisti, creando una specie di circolo che si spezza un paio di volte lungo la trama. Succede quando i personaggi riescono ad andare oltre sé stessi, a fare qualcosa che somiglia a un atto d’amore disinteressato. Gli chiedo se queste spezzature, che Lagioia definisce “miracoli” nel romanzo, sono un’altra sfumatura della nostra natura – il rovescio della ferocia – oppure il sopraggiungere di valori culturali che mitigano i nostri istinti.

Nella risposta c’è la fiducia di Lagioia per la cultura, ma allo stesso tempo la definizione dei suoi limiti: «I valori culturali da soli non bastano, perché possono essere dannosi. Pensa ai totalitarismi. Penso piuttosto che questi “miracoli” abbiano a che fare con un nostro istinto pre-naturale. Simile a quello che ha portato Antigone a voler seppellire il fratello: è l’istinto che ti porta a buttarti in acqua per salvare qualcuno. I valori culturali dovrebbero dare sostegno a questo tipo di istinto luminoso». Per Lagioia l’uomo ha sempre bisogno di lottare contro sé stesso: «La natura prevaricatrice, e quindi la ferocia, in noi è molto più forte. È più facile che io lotti per ottenere qualcosa che non per regalare qualcosa».

Pur avendo una ragion d’essere fortemente letteraria, La Ferocia sceglie la “visività” come canale privilegiato del racconto; in alcuni passaggi il modo di presentare le scene coincide quasi una logica da macchina da presa. Basti citare l’incipit (davvero lynchano): «Una pallida luna di tre quarti illuminava la statale alle due del mattino. La strada collegava la provincia di Taranto a Bari, e a quell’ora era di solito deserto. Correndo verso nord la carreggiata entrava e usciva da un asse immaginario, lasciandosi alle spalle uliveti e vitigni e brevi file di capannoni simili ad aviorimesse». Lagioia è un grande amante del cinema ed è anche selezionatore al Festival del cinema di Venezia, gli chiedo quindi se riconosce questo aspetto visivo del suo romanzo, e come si regola per tradurre l’influenze del cinema nel codice letterario. «La traslazione non può essere in un rapporto uno a uno, ci deve essere una traduzione di codice. È vero che il romanzo è un corpaccione che digerisce tutto, ma bisogna stare attenti non mettere cose fuori posto».

Questo rapporto col visivo mi pare abbastanza delicato per chi vuole scrivere romanzi oggi. Gli dico che per me il compito dello scrittore si è complicato ulteriormente da quando la serialità televisiva è diventata così fine e complessa, cominciando a sviluppare narrazioni molto lunghe e sfumate. La letteratura oggi mi pare di nuovo in discussione per il suo specifico.

«È vero, però la letteratura riesce a restituire i sentimenti umani fino all’ultimissima sfumatura. Una cosa che per ora è negata agli altri strumenti narrativi. Le Serie TV hanno studiato dalla letteratura ed è vero che l’impatto visivo di alcune cose non è restituibile in un romanzo, però la letteratura ha una capacità di scavo, non solo psicologico ed emotivo, ma anche nello spirito del tempo. La letteratura dovrebbe piegare le proprie trame, anche complicate, a questo specifico».

 

Foto di Marco Rapaccini (Officine Fotografiche Roma)

 

Emanuele Atturo
È nato a Roma (1988) dove vive e lavora. Laureato in Semiotica, si interessa di cultura pop e sottoculture. È caporedattore della rivista L'Ultimo Uomo e scrive in giro.
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