Heroin In Tahiti | BELLAGENTE 2016
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Heroin In Tahiti | BELLAGENTE 2016

Sabato 12 marzo, BELLAGENTE 2016 è al MONK.

Non avevo mai ascoltato nulla degli Heroin In Tahiti quando li ho visti dal vivo per la prima volta qualche anno fa. Era un periodo in cui non vivevo a Roma e quasi iniziavo a sentirmi di passaggio quando ci tornavo, una sensazione strana, di sicuro accentuata dalle già ben rare escursioni che facevo al Pigneto, un quartiere che in un modo o in un altro mi sembra sempre lontano da qualsiasi casa in cui abito.

heroin
Mi ricordo che l’alienazione che stavo provando quei giorni fu di grande aiuto per rendere quell’epifania musicale molto più brutale e diretta, che è un modo sempre prezioso e raro di vivere l’epifania musicale, anche perché non è che si può scegliere. Poi da quella sera al Dal Verme ho avuto modo di assistere ad altri concerti degli Heroin In Tahiti e ascoltare i loro dischi, sono anche tornato a vivere stabilmente a Roma anche se il Pigneto mi sembra sempre lontano, sebbene nel frattempo ci sia arrivata la metro. Sta di fatto che durante la fatidica notte in cui sono stati scelti i partecipanti di Bellagente 2016, non ci sono stati dubbi sul fatto che il duo composto da Valerio Mattioli e Francesco de Figueiredo dovesse farne parte.


«Io e Francesco ci conosciamo da un sacco di tempo, suonavamo già assieme in un altro gruppo, poi lui si è comprato un sintetizzatore perché voleva fare la musica cosmica e io ho preso una chitarra perché volevo fare il rock’n’roll», mi dice Valerio all’inizio di una lunga chiacchierata. E infatti il risultato di questa somma è il primo LP Death Surf uscito nel 2012 per la Boring Machines, in cui sono espliciti tutti i riferimenti alla library music e allo spaghetti sound che si sciolgono e si dilatano letteralmente nei laghi krautrock e dark ambient di fondo.
Sono sempre un po’ in imbarazzo quando mi tocca usare termini metaforici, o etichette e tutto il resto, e sono contento di aver già passato questo punto, anche perché una delle cose che invece mi interessa molto di più quando parlo con i musicisti, è la strumentazione, i pedali, conoscere le fisse che hanno e il modo in cui registrano i dischi: «Io uso una Eko X27, che è una chitarra italiana degli anni ’60 ultraeconomica, anche perché per essere dei feticisti degli strumenti bisogna avere un budget di cui non dispongo: le basi per dire le faccio su una mediocre Groovebox MC303; quando la prima si ruppe, ne comprai un’altra identica al Laurentino 38 pagandola 80 euro (forse era rubata). Chiaro, ho avuto anch’io le mie fisse: sono molto affezionato a un overdrive Fulltone GT 500, che fondamentalmente è il distorsore che dà il suono alla chitarra. Poi ho un costosissimo (200 euro!) riverbero Blue Sky che comprai in un slancio di follia. Francesco usa sintetizzatori di cui personalmente non ricordo manco le sigle, ma considera che per anni siamo andati avanti a pedalini Behringer».

Per quanto riguarda la concezione e la produzione di un disco invece, «lo “studio” (se lo vuoi chiamare così) è il salotto di casa mia. Ci sono periodi in cui ci vediamo più volte a settimana e magari registriamo dei brani improvvisando, ma anche altri in cui non ci vediamo per mesi e lavoriamo in totale solitudine scambiandoci file, registrazioni, incoraggiamenti e ogni tanto anche insulti».
In ogni caso lo schema consueto degli Heroin In Tahiti è quello di portare in giro i pezzi dal vivo prima di registrarli, un processo in linea di massima inverso rispetto a quello standard che vuole prima il disco e poi il tour, e che considerando le differenze tra il suono live e quello su disco degli Heroin In Tahiti – secondo me il primo più espanso ed esponenziale mentre il secondo viene contenuto, se non di certo nel formato canzone, nel formato traccia – sembra appunto un lavoro volto soprattutto a fare ordine e contenere il suono.
Un lavoro affinato nel tempo e che ha raggiunto il migliore equilibrio con l’ultimo Sun and Violence, un disco doppio che ha ricevuto riconoscimenti unanimi in Italia e all’estero. Anche se Valerio ironizza quando gli dico che secondo me i loro dischi sono registrati bene: «stai scherzando? La scheda audio è praticamente un giocattolo, il programma che usiamo per registrare manco lo nomino per non suscitare l’ilarità generale, e il primo disco l’abbiamo fatto su un vecchio portatile Toshiba che si fuse subito dopo: a parte che abbiamo rischiato di perdere tutto il lavoro, l’altro particolare è che abbiamo imparato che le tracce andavano salvate in wav dopo tipo 3 anni. All’inizio salvavamo tutto in mp3. A qualità 128, ovviamente: sai, per occupare meno spazio».

Ad ogni modo nell’ultimo anno il coefficiente artistico del progetto è lievitato e con merito, così come quello della Boring Machines, decretando che è un periodo più che favorevole per la cosiddetta “psichedelia occulta italiana” di cui il festival Thalassa al Dal Verme è il principale palcoscenico annuale e che quest’anno sarà interamente dedicato a celebrare la decade dell’etichetta fondata da Andrea Ongarato di cui gli Heroin In Tahiti sono appunto un fiore all’occhiello dichiarato.

Ma tornando alla psichedelia occulta italiana, espressione coniata da Antonio Ciarletta su quell’ormai famoso Blow Up del gennaio 2012, senza immaginare – credo – che poi quell’espressione avesse tanta fortuna prima all’estero che in Italia ma che, soprattutto, venisse usata un po’ a casaccio negli anni successivi. Tant’è che, anche se spesso vengono inseriti nel calderone gruppi molto differenti tra loro e senza un reale collegamento contenutistico o sonoro, di fatto si è venuta a creare una scena ed è interessante analizzare come sia fatta di focolai nati quasi contemporaneamente su tutta la penisola: «sì, diciamo che non c’è stata una mozione programmatica per decidere di “fare la psichedelia italiana”. Magari era qualcosa che era un po’ nell’aria, anche perché tra molti gruppi c’è sicuramente un trascorso condiviso, con alcuni ci conosciamo anche da tanto tempo, anzi da ben prima degli stessi Heroin In Tahiti. Sfatiamo però questo equivoco sull’aggettivo “occulto”: io credo che Ciarletta non volesse intendere che ci fossero accezioni esoteriche di sorta, quanto più un’oscurità nei riferimenti non direttamente percepibili. Per capirci, gli Heroin In Tahiti non fanno “musica per messe nere”, almeno credo».

In quattro anni gli Heroin In Tahiti hanno pubblicato, oltre ai già citati album, uno split album assieme ad Ensemble Economique e Canicola, una cassetta uscita in cento copie, entrambi con la NO=FI Recordings; da una collaborazione con Phil Collins (l’artista, non quello dei Genesis) è nato successivamente il singolo Peplum accompagnato da un video realizzato da Massimiliano Bomba, e nel frattempo fanno anche un sacco di altre cose. Francesco (che cura anche l’artwork dei dischi) è tra i fondatori del magazine NERO che fa parte della decina Bellagente 2016 nella sezione arte, mentre Valerio scrive soprattutto di cultura e attualità, principalmente su Prismo, Vice e il neonato The Towner. Per questo motivo gli chiedo la sua opinione sulla situazione del fermento culturale a Roma, osservandola dal punto di vista sia della proposta musicale che dei luoghi di aggregazione che ne agevolano lo sviluppo: «Sai, i momenti sono ciclici. Tendenzialmente ti direi che Roma ora come ora non è una città particolarmente eccitante: credo che anche nel recente passato abbia vissuto momenti migliori a livello di freschezza, discorsi e novità che circolavano; ma è anche vero che, almeno stando a sentire quelli che c’erano, non è il deserto che era prima degli anni ’90, quando poi arrivarono i centri sociali a salvare la situazione». Perché appunto siamo, almeno per quanto riguarda l’underground, nell’era post-centri sociali, che è fatta principalmente di zero politica e zero collettività, tant’è che si può dire che non esistano più di una scarsa manciata di luoghi di ritrovo nei quali riconoscersi, al contrario proliferano festival ed eventi monouso, dai quali l’individuo si può affrancare facilmente.

Mi chiedo se ci sia un motivo specifico che spieghi questa situazione: «Io penso che, in generale, tutta una serie di esperimenti, fenomeni o luoghi che nascevano con aspirazioni di rottura, siano infine stati assorbiti, come spesso succede. Prendi il caso classico del Pigneto: nel 2008 – che non sono tantissimi anni fa – era ancora un quartiere in cui nascevano esperienze eterodosse, non allineate. Adesso ci vai ed è una distesa di bar di merda e ritrovi per teste di cazzo, e la lingua ufficiale del Pigneto gentrificato è diventata la stessa della “narrazione dominante”, se capisci che intendo. Forse c’è stato anche un peccato d’origine, un difetto a monte di cui magari non eravamo pienamente consci: un posto come il Fanfulla, che per inciso ha salvato la vita a me come a tantissimi altri, nasceva in fondo come rifugio involontario per i superstiti di un riflusso collettivo. Era un periodo in cui c’era questo atteggiamento generalizzato di rinuncia, ripiegamento “nel privato”, o anche semplice stanchezza e voglia di disimpegno. Intendiamoci: dal Fanfulla sono venute fuori cose bellissime, progetti strampalati, eventi assurdi, dischi, fanzine… e di cose bellissime continuano a uscirne, visto che (nonostante il cambio di sede) ancora esiste. Però intanto, mentre noi si stava a fare serate che portavano nomi tipo Spasticalia, il quartiere diventava l’epicentro di operazioni e meccanismi sempre più perversi ed esclusivi (nel senso di esclusione). Quello che è successo al Pigneto nell’arco degli ultimi dieci anni, è sinceramente aberrante».

È anche vero che forse non c’è stato un ricambio generazionale. A Roma non sta accadendo quello che per esempio da qualche anno sta accadendo a Milano con Macao, tirato su anche da giovani e giovanissimi, mentre qui quegli esperimenti che già c’erano e che in maniera diversa andavano in una direzione simile (per esempio il Teatro Valle Occupato o ESC) sono naufragati.

Al contrario di quanto detto finora, tornando alla musica, c’è chi potrebbe sostenere che attualmente ci sia anche un certo fermento a Roma, per esempio grazie a I Cani o Calcutta: «Con tutto l’affetto che provo per Niccolò ed Edo – e al di là della musica in sé che come noto non è il mio ideale – mi lascia perplesso questo loro atteggiamento introverso, rinunciatario, privo di ambizioni che non siano l’amara constatazione della realtà, condita magari di disincanto a volte cinico a volte ironico a volte romantico». Che però secondo me è la cartina di tornasole di quello che sta accadendo e anche conseguenza di quell’arretrare degli ultimi anni: «Secondo me sono due fenomeni speculari; il cosiddetto “indie” magari è più rassicurante, consolatorio; il fantomatico “underground” à la Fanfulla o Dal Verme è più marcio, tossico, scoppiato eccetera. Ma sono entrambi linguaggi che riflettono una temperie, e che si portano dietro quell’introversione, quella rinuncia a intervenire sulle cose, che viene dal riflusso di cui dicevamo prima. Ora: questo non può continuare in eterno anche per banali motivi di consunzione, e onestamente dopo dieci anni direi pure che basta, anche perché che ci abbiamo guadagnato? Poi vai a capire se e come rintracciare i germi di un cambio di passo, di atteggiamento, di mentalità. Magari se questo cambio ci sarà, verrà da dimensioni non necessariamente “urbane”, magari i canali saranno più immateriali, virtuali… Io ovviamente continuo a preferire il mondo reale perché è bello ubriacarsi tutti assieme in un ex garage, ma in fondo che ne so?».


Poi tornando agli Heroin In Tahiti, inaspettatamente arriva una bella notizia: «stiamo registrando il nuovo disco, anche se non sarà una roba enorme come Sun and Violence». Anche perché come già detto, gli altri impegni sono tanti; Valerio ha appena finito di lavorare a un libro dedicato alla musica italiana tra anni ’60 e ’70: «è un libro che ho impiegato 5 anni a scrivere, e che più o meno si è sviluppato in contemporanea con gli Heroin In Tahiti. Infatti all’inizio avevo pensato di chiamarlo Spaghetti Wasteland [dal titolo di un brano di Death Surf], solo che all’editore non piaceva, quindi ancora stiamo contrattando sul titolo definitivo. Di base ho seguito i suggerimenti e le suggestioni che sono venute dalla riscoperta di quel periodo: perché come sai negli ultimi anni c’è stato questo grande ritorno di interesse per un certo tipo di sonorità italiane, e io ho provato a mettere un po’ in ordine i tasselli sia dal punto di vista musicale che genericamente culturale, politico, generazionale e così via. Il periodo coperto va dal 1964 al 1976: da Morricone a Parco Lambro, per capirci. È una specie di “storia alternativa” dello spaghetti-sound».
E chissà che qualcuno un giorno non scriva invece un libro sulle controculture di inizio millennio, sulla psichedelia occulta italiana, sulla scena del Fanfulla e sugli Heroin In Tahiti. Speriamo.

 

Foto di Marco Rapaccini (Officine Fotografiche Roma)

 

Edoardo Vitale
Scrive di musica, cinema e attualità su vari magazine.
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