Libera tavola: intervista a Lorenzo Buonomini e Jacopo Manni
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Libera tavola: intervista a Lorenzo Buonomini e Jacopo Manni

Un caffè e due chiacchere con Lorenzo e Jacopo, autori del libro Libera tavola ed amanti della cucina non per moda, ma per passione e scelta etica.

Non essendo un esperto di cucina mi ritrovo puntualmente a parlarne e ad appassionarmici, pur continuando a non capirci granché. D’altronde è l’argomento che unisce lo “stivale”, se non il mondo; la lingua che si parla ovunque, universale, ricca di mille sfaccettature e ricette, che magari non ci mette d’accordo ma di sicuro ci unisce. Un caffè e due chiacchere con Lorenzo Buonomini e Jacopo Manni, autori del libro Libera tavola ed amanti della cucina non per moda, ma per passione e scelta etica, non potevo proprio farmelo mancare.

Domanda esistenziale: chef, scrittore, manager, cosa sei? In che percentuali dividi il tuo tempo tra queste attività

Lorenzo Buonomini: Sicuramente sono principalmente uno chef, direi quasi cuoco, poi gestisco anche il ristorante dove lavoro naturalmente, però si, principalmente sono uno chef. Questa cosa dello scrivere è nata quasi per gioco e ora siamo al secondo libro con Jacopo. Il primo era nato da una sua idea, di ritorno da una vacanza in campeggio e lamentandosi di aver mangiato solo wurstel, mi chiese se non si potesse fare un libro di ricette “per fornelletto”. Io gli dissi: «Jacopo c’ho da fa, essu!». Però lui è una persona che insiste molto sulle cose e quindi mi ha coinvolto.

Ora più che mai il lavoro del cuoco sta diventando non più il solo stare in cucina, anzi molto spesso con personaggi del calibro di Jamie Oliver o Gordon Ramsey si sta più fuori la cucina che dentro, non si cucina praticamente quasi più! Diciamo che ci si divide equamente tra l’essere manager del locale che si dirige e manager di sé stessi. Questa forma di popizzazione del mestiere verso cosa ci sta portando?

L.B.: Pensa che per un periodo volevano fare un album di figurine degli chef! I bambini ora lo vedono come un lavoro da fare da grande, è una cosa incredibile! Sinceramente da dove possa venire e dove possa portare una cosa del genere non lo so di preciso, ma di sicuro è frutto di un’esagerazione dell’esposizione mediatica quasi oltre il consentito. In fin dei conti si parla di cibo e le estremizzazioni “artistiche” e le interpretazioni assurde di un piatto non mi convincono troppo. C’è sempre un occhio all’innovazione, o meglio alla fantasia certo, ma più che altro nel riassemblare ingredienti che sono assolutamente tradizionali e tipici della nostra cucina e della nostra cultura, che è prettamente romana, e poi ingredienti che siano stagionali e quindi reperibili facilmente e a chilometri zero. Ecco questa è una filosofia che rispetto di più, anche se a volte anche questa è portata all’estremo.

Chef star (inteso come rock star non come chef stellati Michelin) rimangono buoni chef o si trasformano semplicemente in grandi comunicatori, santoni, padri spirituali? Banalmente è più l’aura o la bravura che riempie i locali dei vari Cracco e Vissani?

L.B.: Credo sia una commistione delle due, bisogna essere in grado e pronti a fare entrambi i ruoli. Dipende sempre dai singoli personaggi ovviamente. Io cerco di andare, per esempio, da qualcuno che magari mi costa 60/70 euro ma che sia presente.

Democratizzazione della cucina: siamo sempre stati tutti C.T. della nazionale di calcio, figurarsi quando ci siamo ritrovati a parlare di cibo. Ognuno sa la sua ed ovviamente ne sa una più degli altri. La benzina derivante dai blogger e da TripAdvisor è stato un ottimo propellente. È stato come YouTube per gli aspiranti videomaker. Ti fidi di questo tipo di democrazia culinaria?

L.B.: Il calcio è uno dei giochi più semplici del mondo, e quindi lo condividiamo tutti e ci sentiamo, sbagliando, tutti dei grandi tecnici. Allo stesso modo la cucina, che forse è arrivata tardi, è l’unica cosa che fanno tutti in tutto il mondo. Questo insieme al “mondo 2.0” ha prodotto delle distorsioni. Tante informazioni, tanta pubblicità, la possibilità di farsi conoscere dall’altro capo del mondo, cose positive ma anche estremizzazioni. Persone che per esempio, entrano nel ristorante con l’IPhone in mano e collegati alla pagina verde di TripAdvisor, che si siedono e ti guardano con un atteggiamento che ti fa domandare se siano venuti a cena a rilassarsi o a fare un esame. Cosa devi fare con quell’IPhone? Rilassati, facciamocela prendere bene, sei venuto per cenare!

È questa democrazia culinaria che permette a Jamie Oliver di fare una carbonara con lo yogurt? È colpa del pubblico se uno chef può permettersi di usare lo yogurt nella carbonara o il pubblico/clientela ha subito questo processo? Un po’ come nella politica: i politici sono tutti uguali o le persone sono tutte uguali e negli stessi posti di potere si comporterebbero tutti allo stesso modo?

L.B.: Quando incontri certi personaggi pensi che sia giusto che la nostra classe dirigente sia così. La storia dello chef che usa lo yogurt invece è frutto un po’ della cultura inglese e della loro cucina. Io apprezzo, anche a livello comunicativo, il modo in cui lui ha portato avanti tutti i suoi progetti paralleli mirati al mangiar bene e sostenibile in uno stato come l’Inghilterra dove si mangia in maniera allucinante… è un atto da apprezzare.

Com’è fare lo chef scrittore? Ci vuoi illustrare tu i tuoi due libri?

L.B.: Sono due libretti, quasi una raccolta delle mie ricette. Sono state belle nottate, soprattutto quando mancava un mese alla scadenza. Cucini e scrivi di cucina per due mesi di seguito, ne esci un po’ provato, ma è una cosa divertente che non avevo mai fatto. Il primo, Il Re del fornelletto è studiato per proporre ricette per due, con un paio di pentole ed ingredienti rimediabili in località di camping, e sono immaginate per campeggiatori giovani sulla costa mediterranea. Abbiamo passato tante vacanze in campeggio ed interrail e quindi abbiamo usato anche le nostre esperienze pregresse, tipo quella sul misurare l’acqua (1,15 litri vanno bene per 2,5 etti di pasta). Libera tavola è un’idea della casa editrice, un ricettario con protagonisti i prodotti delle cooperative nate sulle terre confiscate alla mafia. Siamo stati subito molto entusiasti, anche dal punto di vista della responsabilità civile. Personalmente la cosa che mi ha convinto di più in assoluto è stato l’assaggio dei prodotti: ottimi e biologici. Dietro la parola “bio” c’è una rispondenza filosofica, c’è proprio l’idea di ripulire la terra e quei terreni che sono frutto di omicidi, estorsioni, ed attività mafiose.

A tal proposito, hai contatti con Libera di Don Ciotti? Come funzionano queste cooperative?

L.B.: Assolutamente sì. I prodotti di questo libro sono quasi tutti di Libera terra. Abbiamo anche visitato alcune cooperative. Con la legge attuale, dal sequestro al riaffido delle terre, passano anche quattro o cinque anni, quindi ci sono proposte di legge per snellire questo iter, anche perché quando un terreno arriva in mano ad una cooperativa, molto spesso ha bisogno di una ristrutturazione completa. Le cooperative vengono gestite esclusivamente da ragazzi del posto, quindi c’è un ritorno sul territorio. Abbiamo visitato la cooperativa di Castel Volturno e abbiamo visto come abbiano cercato di sviluppare una sinergia col vicinato, una cosa molto particolare perché si presentano in territori dove non è solo presente la mafia, ma anche chi per essa ha lavorato per anni. Questi ragazzi rappresentano la legalità, se gli si rompe un trattore glielo ripara lo Stato con i soldi pubblici, quindi si creano dinamiche di inserimento nel territorio piuttosto complicate.

Crisi. Parola sicuramente inflazionata, ma pare confermata da dati statistici eppure sempre nuove aperture di locali e ristoranti. Si investe nel momento delle opportunità, quando è più economico e conveniente farlo o semplicemente aprire un locale è quello che il posto in banca era per i nostri genitori?

L.B.: Si in parte è così. Noi il posto in banca non lo troviamo facilmente. Io ho una quantità di amici laureati (chi non ne ha?) che fanno un lavoro precario o part-time completamente diverso da quello che avrebbe voluto fare. Oppure il lavoro ce lo si inventa! È una necessità. Ci sono scuole, anche importanti, che ti insegnano a cucinare, ma nessuna ti insegna a gestire un locale e a confrontarsi con la realtà nella quale si opera. A dimostrazione di ciò basti pensare a quanti locali aprano, ma anche a quanti chiudano; per le birrerie artigianali bisognerebbe aprire un altro discorso ancora, posso solo dire che ci siamo arrivati comunque tardi.

Il tuo ristorante è a Frascati, da lì forse c’è una vista migliore: come va con le tradizioni culinarie? Resistono? Si rinnovano? Si stanno riscoprendo?

L.B.: Resistono senz’altro. Spessissimo ancora il cliente medio che viene da Roma si aspetta di trovare a Frascati una bella porchetta e un’amatriciana. Sono delle cose eccezionali, se fatte bene, ma in posti come “fraschette” varie si spende comunque 20 euro e di tradizioni culinarie non si vede granché anzi, spesso si vedono vini bianchi che in realtà sono giallo/arancione e ti spaccano la testa! La nostra cucina non è innovativa, ma c’è un tentativo di accoppiare ingredienti più particolari, per esempio gli gnocchi ripieni con le fave e il pecorino, che sto preparando in questi giorni. Molte volte mi hanno guardato in maniera piuttosto diffidente.

Adesso una domanda un po’ alla Cioè: Piatto che preferisci mangiare e piatto che preferisci cucinare?

L. B.: Non è così facile rispondere, ma primi e dolci sono la cosa che preferisco in assoluto, da mangiare e da cucinare!

È uscita su Dissapore la classifica delle mode gastronomiche degli ultimi tempi, sei caduto in qualcuna di queste?

L. B.: Dolce al cioccolato con cuore morbido! Questa sì. Poi la famosissima cucina molecolare, la conosco, ma non ci sono cascato. (Arriva Jacopo che risponde a questa domanda, n.d.a.) Jacopo Manni: Ci sono spunti interessanti, ma secondo me è una stronzata. Sfere di mousse ossigenata alle fragole, alla fine sono fragole.

È un po’ una furbata per non dire altro. E il manzo Kobe?

L.B.: Quello pare sia veramente delizioso, si dice che i manzi vengano massaggiati e nutriti con birra, sembra essere una carne davvero di qualità.

Sono talmente felici i manzi che vanno al macello col sorriso si potrebbe dire. Invece di sushi e cruderie varie cosa ne pensate?

L.B.: Sushi no, ma carne cruda si. Dipende sempre da chi è il fornitore. Noi per esempio ci andiamo a cercare produttori biologici e locali, che conosciamo di persona in modo da sapere cosa usano e come producono.

A tal proposito, come vi ponete verso il “bio” e i prodotti a chilometro zero? C’è chi se ne approfitta?

J.M.: Nel momento in cui si crea una domanda si crea un’offerta, è fisiologico. Si crea un’offerta vera e originale e una senza etica. Purtroppo quando si crea un mercato ci si fiondano anche “i falchi”. La nascita del mercato è il dato positivo in sé su cui riflettere: ci sono persone che sentono il bisogno di produrre e mangiare cose che abbiano un senso e un valore. Come utente penso che il pericolo siano non solo i vari “falchi” ma anche alcuni ristoratori che obiettivamente scrivono delle cose sul menù per far pagare una cosa a un prezzo spropositato. È un po’ il rovescio della medaglia. Pensiamo comunque che una scelta consapevole è alla base di tante cose, come il nostro libro, è alla base di una scelta di prodotti che sono liberi da sfruttamenti e mafia, per esempio. La gente dovrebbe veramente imparare a scegliere i prodotti che acquista.

Come vi ponete rispetto a animalismo, vegetarianismo e veganesimo?

J.M.: Io sono personalmente molto incazzato con questa cosa, per esempio l’ultima azione fatta a Milano che ha bruciato due anni di ricerca (alcuni attivisti hanno occupato lo stabulario del Dipartimento di Farmacologia a Milano, liberando molti animali e condannandoli a un destino molto incerto; hanno vanificato anni di ricerche su malattie del sistema nervoso, di fondi pubblici e di lavoro n.d.a.). Poi Alemanno che si fa le foto col gatto in odore di campagna elettorale. Io sono d’accordo con le campagne contro le atrocità e le ingiustizie ma bisogna tirare una riga oltre la quale inserire le cose serie, sulle quali non si può giocare. Queste cose che ho elencato l’hanno superata ampiamente. La cosa mi dà parecchio fastidio. L.B.: In quanto cuoco professionale, e quindi amante di carne e pesce, non comprendo a fondo il vegetarianismo e il veganesimo. Ci sono animali allevati ad hoc ed io mi trovo a scontrarmi anche con persone che mi sono vicine. Non sono animali in via d’estinzione, capisco che possano soffrire ma è la catena alimentare, è una questione di natura. La scelta di non mangiare carne o pesce di specie in via d’estinzione è invece molto più comprensibile.

Una chiosa prima di un paio di ricette?

J.M.: Concluderei parlando del libro, che ci ha trovati piuttosto impreparati a parlare di un argomento così delicato. Eravamo anche un po’ stretti di tempi quindi ci siamo divisi un il lavoro, io ho curato la parte introduttiva di tutti i menù. Volevamo fare un libro sociale e condiviso, quindi c’è la parte che ha curato Lorenzo con le sue ricette, un po’ più tecnica, ed un’altra con le ricette degli scassaminchia, in onore di Peppino Impastato, ribaltando il concetto negativo della parola. Ci hanno risposto molti personaggi come Camilleri, Rita Borsellino, Roy Paci e altri, che si sono appassionati e ci hanno mandato ricette molto interessanti. Quando abbiamo assaggiato ci siamo rilassati e convinti, delle cose deliziose!

Mattia Coluccia
Mattia è un “romano de Roma”, ma ha origini salentine che rivendica sempre. Essendo un classe 1985, si porta appresso tutti gli acronimi generazionali dagli anni 90 in su. Non contento della laurea, prende anche un master in Scienze del Turismo, convinto di fare della sua passione un mestiere. Si sbaglia.
Tutto nella sua vita ha doppi sensi e doppie valenze, convive con la duplicità delle cose. Scrive per delle riviste e fa un sacco di altre cose che gli pesa il culo elencare. Se fosse per lui, viaggiare è l’unica cosa che farebbe. Ama i libri, il mare, e le birre artigianali.
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