Esiste un tempo in cui la tragedia umana trova la propria forma.
Questo tempo può estendersi, dilatarsi, offrendosi nella sua straziante agonia, o al contrario può contrarsi, farsi attimo lacerante. Il tempo, in sostanza, è elastico, liquido.
La liquidità è propria del non-finito nel momento in cui questo rimanda al divenire e ad una perenne richiesta di compartecipazione, per colmare quelle mancanze che in realtà sono produttrici di tensione.
Così la tragedia dei dipinti di Francis Bacon si inserisce in questa liquidità temporale, costruita sui tempi eterni di queste facce aperte, e sugli attimi sordi delle gabbie minimali in cui questi esseri antropomorfi si cristallizzano. La dialettica interna ai dipinti di Bacon non è solo un fatto sostanziale, ma innanzitutto un fatto artistico, un’esigenza formale che affonda le proprie radici nel dramma esistenziale.
Mi domando allora se questa ricchezza espressiva non sia già sufficientemente adeguata a rappresentare la complessità della nostra struttura, e il disordine che ci ha generati.
Michel Platnic è un giovane artista franco-israeliano che ha recentemente esposto le proprie opere all’Art Plural Gallery di Singapore. Quelle che all’apparenza sembrano delle perfette riproduzioni di alcuni famosi dipinti di Bacon, altro non sono che dei diorami, delle puntualissime messe in scena di ciò che l’artista irlandese aveva invece dipinto sulla bidimensionalità della tela.
Platnic ha ricostruito minuziosamente le ambientazioni di questi dipinti attraverso una serie di procedimenti che vanno da semplici schemi disegnati a mano, fino all’utilizzo della computer grafica; operazioni propedeutiche alla messa in scena vera e propria in cui lo stesso Platnic, coadiuvato da un team di circa quindici persone, interpreta i soggetti dei dipinti baconiani.
Per creare un effetto di maggior mimetismo Platnic dipinge sia gli ambienti che fanno da sfondo all’azione, sia il proprio corpo, e quello degli attori che alternandosi interpretano i vari personaggi.
Fino a qui tutto bene, o quasi. I minuti iniziali di questi video si caratterizzano per una certa staticità; gli attori sono immobili, e lentamente compiono dei movimenti impercettibili che creano nello spettatore l’illusione di trovarsi di fronte ad un vero quadro di Bacon. Gli ambienti, i colori, la foggia degli abiti e la pastosità della pennellata sembrano essere esattamente quelli originali.
Ma ad uno sguardo più attento si svela l’inganno: la tridimensionalità di quei corpi reali non può fare a meno di emergere attraverso una cosalità che però non conduce al fatto, così come la freddezza di quella pittura che in realtà diviene maschera, senza mai farsi carne.
Ma non sono tanto questi trucchi di carattere formale a infastidire, dal momento che ne va comunque riconosciuta la grande perizia tecnica; è piuttosto l’aspetto sostanziale a destare perplessità.
Prendiamo ad esempio Three Studies for Portrait of John Edwards, un trittico del 1984 in cui Bacon ritrae il suo giovane compagno, e che Platnic mette in scena attraverso uno dei suoi tableau vivant. Piccola parentesi: in realtà il termine “tableau vivant” è adatto fino a un certo punto, dal momento che questi quadri intendono prendere vita attraverso il video.
Ed è proprio l’utilizzo di questo medium che secondo Platnic riscatterebbe il suo intero lavoro. In un’intervista per Frame l’artista dichiara quanto la moderna tecnologia possa perfettamente combinarsi con un tipo di medium più tradizionale. Di certo non intendo mettere in dubbio la veridicità di questa affermazione; è dagli anni Sessanta che gli artisti sperimentano con il video, riuscendo ad ottenere una varietà di risultati a dir poco stupefacente, non tanto a mio parere per ciò che concerne l’aspetto contenutistico in senso stretto, quanto per l’aspetto comunicativo.
Ciò che differenzia innanzitutto la fruizione di un’opera d’arte tradizionale (dipinto e scultura) da quella di un video, è il fattore temporale. Un video richiede tempo perché ha un proprio tempo, una propria durata che è necessariamente lineare, pur nelle sue digressioni interne, nei propri salti. Un’opera d’arte tradizionale ha sì un proprio tempo, ma è quello descritto dalla sua struttura interna, dalle pennellate, dalle pieghe del marmo, della plastica o di qualsiasi altro materiale impiegato. Ed è questa interferenza temporale a costituire il primo tassello della mancata comprensione dell’opera di Bacon da parte dell’artista francese. Il John Edwards di Platnic si estende, si dilata oltre misura in un tempo che non gli appartiene più. Il soggetto non si contrae, non trova spazio per la sua tragedia personale perché è troppo intento a spostare la piattaforma di legno dipinto su cui deve recitare. Platnic non solo fa muovere ciò che è già mosso, e che si continua a muovere pur nella sua glaciale immobilità, ma crea anche delle situazioni che non fanno parte di alcuna storia.
In questa sorta di performance non si racconta la tragedia umana: non c’è universalità, ma non c’è nemmeno la vicenda personale della reinterpretazione. Non c’è accadimento. Cosa significano questi movimenti inopportuni, questo vagare annoiato in cerca di qualcosa fare? Si allude forse a un vortice entropico che attanaglia i personaggi e che li rende inconsapevoli vittime di loro stessi?
Queste persone non sembrano nemmeno volersi sforzare di rappresentare l’informe delle facce baconiane. Ma è qui il problema, e cioè il voler rappresentare una situazione la cui forza risiede invece nella sua realtà, nella sua cruda e spregevole verità.
Francis Bacon – Study for Portrait II (after the Life Mask of William Blake) – 1955
Nelle tele di Bacon il reale irrompe attraverso la sostanza della pittura. Quel fatto, che è l’Arte, trova la sua più alta realizzazione nella brutalità esistenziale di quei corpi maciullati, di quelle entità decostruite, vivisezionate, tragicamente dinamiche. È paradossale invece constatare quanto i movimenti casuali degli attori di Platnic non rimandino ad alcun dinamismo.
Lo stesso artista sostiene di aver voluto cambiare l’essenza dei personaggi, offrendo loro una seconda possibilità, per proiettarsi oltre i propri limiti, crescendo attraverso un confronto sincero.
Quindi non si sta più parlando di Francis Bacon, pittore di carcasse umane. Pittore di corpi toccanti e toccati, estesi e contratti nella propria animalità. Non si sta più parlando di una materia pittorica fatta di concrezioni e di sfaldature, capace di assecondare il tempo della tragedia.
La tragedia ha senso quando è reale, perché la tragedia è la realtà. Non c’è rappresentazione che tenga, non deve esserci finzione affinché un corpo possa mostrarsi nella propria crudezza.
Le pupille e i muscoli degli attori di Platnic mancano di realtà, non bastano a redimere delle storie che trovano la propria ragione d’essere perché prive di qualsiasi slancio metafisico o di tensione verso un impossibile riscatto. Il fatto c’è, ed è questo, ineluttabile.
Non credo ci sia arte in un esercizio di stile; semmai la presunzione di intaccare una verità, o la benevola ingenuità di poterla fraintendere.