Beati voi che avete un amico immaginario, io ho un Amico Collettivo
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Beati voi che avete un amico immaginario, io ho un Amico Collettivo

  Invidio molto quelle tenere conversazioni con l’amico immaginario che mi sembra di non aver mai avuto, se i ricordi infantili non tradiscono: eppure, credo proprio di averlo voluto, l’amico immaginario, e testardamente, ma si vede che la fiducia che ho riposto nella mia inventiva non è stata sufficiente per crearlo, per custodirlo, per infondere […]

Illustrazione a cura di RESLI tale

 

Invidio molto quelle tenere conversazioni con l’amico immaginario che mi sembra di non aver mai avuto, se i ricordi infantili non tradiscono: eppure, credo proprio di averlo voluto, l’amico immaginario, e testardamente, ma si vede che la fiducia che ho riposto nella mia inventiva non è stata sufficiente per crearlo, per custodirlo, per infondere vita, autonomia e disponibilità all’interazione all’amabile creatura che avrebbe potuto alleviare la mia solitudine. Poi, passando il tempo, farsi una coriacea ragione della propria impotenza fantastica — ovvero, del fatto che ogni storiella mezza falsa era giudicata dal mio super-critico Super-io come sconveniente, eccessiva, ingiustificata — significa venire altrettanto crudelmente a patti con la propria incapacità romanzesca, concludere che si è portati per altro, perché, se ogni intenzione fosse o dovesse essere un’invenzione, chi sarebbe tanto spietato da tracciare dei confini ai propri miraggi? Chi sarebbe tanto misericordioso, anche? Chi andrebbe a porre il giusto freno all’illimitatezza di ogni storia, a misurare l’inanità degli sforzi creativi di inglobare la realtà nel bozzolo immunitario delle associazioni libere, a prova persino della più modesta verifica? (Per dire che pare improbabile che io possa dedicarmi alla narrativa con successo.)

A scapito di un’infanzia illuministica, però, io soffro del prolungarsi di un’età adulta che non esito a definire mitica e quasi demoniaca: mi sento spesso accerchiato da presenze i cui volti sono sostituibili, le cui fattezze si sciolgono e si ricombinano — scappo, cos’altro potrei fare? Vorrei vedere altri come si comporterebbero, in una situazione come la mia: io sento volteggiare nei miei dintorni un’entità, un Amico Collettivo, probabilmente parente di colui che il quotidiano il Foglio ebbe a definire “il Giornalista Collettivo”, che non perde occasione per manifestarsi, per spargere angoscia nelle mie giornate. Da mane a sera, io vengo interpellato (e rincorso, in caso di fuga: mia, inutile e disperata) sugli argomenti più vari da quest’entità malefica… malefica e giusta, sommamente giusta e ragionevole, che mi chiede con insistenza che cosa io pensi del caso politico del giorno o di quello editoriale della stagione, passando magari con agilità dall’uno all’altro, dal dramma democratico del Venezuela alle sublimi e solitarie vette letterarie di Paolo Cognetti.

Il mio Amico Collettivo, tanto per fare le dovute presentazioni, è anti-capitalista, cioè anti-liberista, perciò anti-mercatista, ovvero anti-mondialista, quindi anti-imperialista, di conseguenza anti-sionista, dunque anti-razzista, pertanto anti-specista, nonché anti-sessista: io, nel mio piccolo e al massimo dei miei sforzi, non riesco ad andare oltre un generico anti-tassismo, perché disprezzo i tassisti e chiunque li frequenti, ma è evidente come questa mia ideologia non possa bastare, per entrare nelle sue grazie. Lui ha tifato per Bernie Sanders, dopodiché ha avuto una breve sbandata per Donald Trump; ha tifato anche per Jean-Luc Mélenchon, dopodiché ha avuto un’altra breve sbandata per Marine Le Pen; ha tifato pure per Jeremy Corbyn, dopodiché ha festeggiato la Brexit; infine, per rientrare nei nostri confini e per venire all’oggi, sta appoggiando Potere al Popolo ma, costretto a scegliere, anyone but Renzi… meglio Salvini, per esempio.

Càpita che quelle due o tre volte all’anno in cui mi tocca andare ad acquistare un paio di calzini, in cui mi tocca agguantare il pacchetto e uscire dal negozio con fare furtivo — pur avendo pagato, eh —, e ciò a causa del mio insopprimibile disagio esistenziale nel frequentare i luoghi dello shopping, càpita che egli sia là, e che a nulla sia servito il buio dei vicoli fiorentini, nel quale confidavo per un ritorno a casa indolore: appoggiato alle mura antiche, con una birra piccola in mano — piccola: il che basta per indispettirmi e insospettirmi, perché quale mio amico individuale e non Collettivo ordinerebbe mai una birra piccola? «NELLE BIRRE PICCOLE C’È L’OLIO DI PALMA» recita il cartello del mio locale preferito — e mi saluta, mi chiama a sé, e il vicolo è stretto, non concede vie di fuga, accidenti a Firenze e a chi l’ha costruita. «Si fanno acquisti, eh?«, «Ma no, guarda, giusto un paio di calzini…», «Non devi mica vergognarti, eh: perché vi vergognate sempre?», «Ma chi? Non mi vergogno: mi servivano, ne buco a decine, eppure le unghie le taglio…», «Dovete tenere in funzione il sistema capitalistico, fate bene: ancora per poco, comunque…», «Ma quale sistema capitalistico! Un paio di calzini: che potevo fare? Vado in giro senza? Bucherei le scarpe, conoscendo i miei piedi», «Ma non ti sto rimproverando mica: siete liberali, no?», «Ma che c’entra? Scusa, te come fai? Calzini non ne compri mai?», «No», «Ho capito, ma si consumeranno anche a te, no? Quanti ne hai, per non avere mai bisogno di comprarne? Centinaia? E che è? Accumulazione originaria?», «Sì-sì, ridi pure: la nota ironia dei forti, bravo», «Manco una battuta si può fare?», «No no, fa’ pure: ne fai di risate coi tuoi amici, eh?», «Ma di quali amici parli? Sono un orso maledetto, non vedo nessuno…», «Sì-sì, immagino…», «Oh, immagina pure, che vuoi che ti dica?», «Parlate male di noi, eh?», «Ma chi parla male di chi? Ma che t’inventi?», «Lo so come siete voi liberali, sta’ tranquillo», «Veramente, io tranquillo ci starei, se tu mi ci lasciassi… Lo ero, anzi, prima d’incontrarti: posso andare?», «Dove vai?», «A casa!», «Faccio la tua stessa strada, allora», «Perché? Come sai dove abito, scusa?», «Mi sembra di aver capito qual è il tuo portone: ti avrò visto rientrare a casa, che male c’è?», «Ah, nulla di male (paura, porco cazzo): va bene, andiamo (porco cazzo, paura)».

Collasso del principium individuationis: del suo viso non ricordo i lineamenti, la sua voce non aiutava a caratterizzarlo, i suoi indumenti erano anonimi quanto quelli di uno spaventapasseri. Insomma, chi cazzo era? Ma sì, sarà stato quel dottore di ricerca che era in fissa per Gilbert Simondon… o non era mica il prof? Quel prof, sì, col quale continuavo a battibeccare… ma non si tratterà del libraio che continuava a commentare male ogni volume io gli ordinassi? No, era quel tizio incontrato dal vinaio, quello che quotidianamente improvvisava comizi di fronte ai clienti, i quali annuivano col capo, o erano più modestamente e piacevolmente storditi dai gottìni di rosso bevuti in sequenza (essendo il gottìno una piccola unità di misura, specificamente fiorentina). Poi, una volta rincasato, l’orrida sfilata spiritica e cacofonica, dai contenuti misti e sovrapposti, anche letterari: dalla crepa nel muro, un ectoplasma che comincia ossessivamente e sibilando a tessere le lodi di Foster Wallace e liquidamente si  diffonde, ricomponendosi nel profilo di un vecchio compagno di studi, che va a ripescare il giorno in cui feci il mio ingresso in Facoltà avvolto nella bandiera di Israele e mi chiede se mi sentissi furbo, indi rientra nell’ombra e lascia il posto al ricercatore che mi rimbrotta, ma pacatamente, in virtù di una sua perenne e superiore posizione che non vuole, figuriamoci, farmi pesare… alla fine, prima che io stramazzi al suolo, le voci che s’intrecciano, per invitarmi a un convegno in un palazzo occupato, ma organizzato da un assessorato,  dopodiché sarebbe giusto che io mi recassi a omaggiare Cesare Battisti, liberato dalle grinfie dello Stato e nascosto nei sotterranei di un dipartimento di Cultural Studies… (Ricostruire con esattezza il vortice d’allucinazione e raziocinio entro il quale mi dibatto è difficile: di certo, c’è che preferirei, a questo punto, basare la mia sopravvivenza sull’assunzione esclusiva di psicotropi, evitare quel mescolarsi di fittizio e di reale, smettere d’abbracciare l’aria e di cercare, invece, di attraversare le persone di carne e d’ossa, che non reagiscono bene; preferirei aderire integralmente alla legislazione invisibile, tenue e segreta del mondo, sostenerla e difenderla, impazzire in piena salute).

Paolo Bonari
«Life is what happens to you while you’re busy making other plans»: io sono un tipo poco progettuale, perciò non mi succede nulla. Nato nella provincia senese, di discendenza e di avvenire valdorciani. Invecchiando, ho capito che è bene che io non mi faccia gli affari miei, perciò non dico altro.
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