Sara Loi | Moda
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Sara Loi | Moda

«Quando vedo una pelliccia, penso che la gente sia ferma all’era preistorica, sia per mancanza di etica che di gusto. E poi la pelliccia la reputo proprio brutta.»

Il giorno dell’intervista a Sara Loi è l’indomani di una sconfitta della Roma in casa, il che mi sveglia in una città frastornata e svogliata. È il motivo giusto per cui nella Capitale i bus saltano le corse e fanno ritardo. Tra le lamentele delle vecchiette romane, dei bengalesi e i resoconti calcistici colgo parole come centrocampo, assist, li mortacci. Incontro AP a San Paolo per andare con la sua macchina da Sara, che vive fuori Roma, verso Pomezia. Nel tragitto ascoltiamo musica e chiacchieriamo sulla Cristoforo Colombo che ci spinge fuori città, in un paesaggio di capannoni industriali con annessi villini abusivi, alberi sparsi, furgoncini bianchi. Lo spazio si dilata e comprime, segue le regole del caos in pieno spirito checcefrega. Poi infiliamo una laterale e percorriamo una stradina tortuosa. Tra svolte e buche riemerge il verde della vegetazione, il respiro e il battito cardiaco rallentano e finalmente si aprono. Un cancello grigio cenere si spalanca e vedo subito Sara: capelli lunghi raccolti in uno chignon arruffato, ampi pantaloni dai motivi orientali e un sorriso bianchissimo aperto ad accoglierci.

saraloi

La casa in cui vive è una villetta con ampio giardino e una veranda piena di pouf, bauli verdi primo novecento e tavolini in vimini. Una tenda giallo ocra sulla porta d’ingresso si riempie ai soffi del vento e si ingarbuglia lenta sotto i raggi dell’autunno. La soglia della porta è il taglio tra la luce piena dell’esterno e una penombra interna bianco ghiaccio. Mentre sorpasso la linea penso alle avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Seguo Sara come se fosse il Bianconiglio, inseguendo le sue parole. Non c’è un momento esatto in cui iniziamo l’intervista: fin da subito il confronto prende la piega giusta in cui una domanda nasce dall’altra e una risposta si travasa di argomento in argomento, mentre assaporiamo una bevanda ai frutti e accarezziamo la micia che il giorno prima è stata salvata sulla statale.

La cornice della sua quotidianità comunica immediatamente quanto sia importante l’equilibrio tra il vivere in comunità e il raccoglimento in sé, della sua ricerca di un rapporto più intimo e umano con la natura. Le chiedo quindi di parlarmi della sua scelta di tornare alla terra natìa dopo dodici anni passati a Londra, dove tra le tante cose nel 2006 si laurea in Menswear Fashion design alla Central Saint Martins: «Quando ero partita per Londra la prima volta – dice, mentre mi lascio andare all’atmosfera della casa che avviluppa e invita a rimanere – non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Volevo un’esperienza all’estero, imparare l’inglese, conoscere persone e situazioni stimolanti. Non mi aspettavo di fare alcun college e in verità non ne conoscevo nessuno. Zero aspettative. Da ragazzina avevo frequentato un corso di cartamodello per due anni dalle parti di Monte Sacro, a Roma. Figurati: da Pomezia a Monte Sacro!». Vicina al mondo delle sottoculture, Sara ha sempre cercato ispirazione in fenomeni culturali disparati, seguendo i linguaggi dell’arte nelle sue diverse declinazioni. Moda e musica, spiritualità e grafica, animazione e cartamodello, insieme alle sue esperienze personali, sono i pezzi del puzzle pop che vive nella sua testa. Quando è a Londra e frequenta il College si butta in molte esperienze diverse, ma sempre con l’entusiasmo che la contraddistingue: «Era praticamente un sogno: essere a ventuno anni nella megalopoli, elettrizzata da suggestioni e spunti pronti a coglierti in ogni angolo della città, tra concerti, club, mostre… Ero piena di input, diciamo anche iperstimolata. Al terzo anno iniziai a fare diversi short courses al London Institute e mi cimentai in animazione, Photoshop, Illustrator, incuriosita da tecniche differenti, una più accattivante dell’altra. Forse ho studiato anche troppo. A un certo punto era chiaro che ne doveva venir fuori qualcosa».

Dopo la laurea Sara inizia a confezionare le sue creazioni in pezzi unici per varie boutique tra Shoreditch e Brick Lane, mentre lavora per compagnie indipendenti come tu.tu.blu. «A lungo ho alternato collaborazioni con varie label a mie creazioni, fino all’autunno del 2010 quando insieme a una cara amica fashion designer, Rebecca Zehr, ho ideato Circle, una sorta di piattaforma nata dal bisogno di offrire qualcosa di molto diverso dal solito fashion show o dal banale showroom dei grandi marchi». Le chiedo qualcosa in più, mentre mi accorgo che il timbro della sua voce e le sue lunghe risposte, che saltano i passaggi, centrifugano i ricordi e a volte si perdono, hanno qualcosa di ipnotico. «Circle era uno spazio virtuale (il blog), ma anche fisico, perché durante la settimana della moda a Londra raccoglieva diverse menti e rendeva l’idea del mondo in cui le creazioni di ognuno nascevano. Il gruppo di persone che condivideva le nostre idee era di artisti e designer, tutti alle prese con problemi di soldi e spazi. Unire le forze ha risolto le comuni problematiche e ci ha permesso di organizzarci in location animate da performance artistiche e sonore, fotografie, videoproiezioni, musica live e mostre».

Cerco di immaginarmi la Sara di qualche anno fa e vedo fantasia e curiosità volubili, tracimanti che devono esprimersi in un mondo surreale e incalzante al pari di quello immaginato da Lewis Carroll. «È stato forte farlo negli anni in cui avevo le energie per sfiancarmi in su e giù per la metropoli. Poi però ho sentito che era successo qualcosa. Di essere come una vite spanata. Giravo a vuoto. Avevo preso tutto il buono da quella città, ma ero bloccata rispetto ai miei desideri di crescita professionale e umana. Lasciare l’Inghilterra e buttarmi a capofitto nel mio progetto, è stato in definitiva un o-la-va-o-la-spacca. La stessa energia che mi aveva portata su nel ’99, mi ha riportata qui e nel tornare, mi sono data una calmata. Ho capito che sarebbe stato meglio prendere meno informazioni, perché sentivo sempre più spesso che l’iperstimolazione mi portava a trattenere meno e quindi a produrre meno. Il ritorno è servito a ritrovare un equilibrio. Mi rendo conto che ora, nella casa in cui vivo, per quello che è il mio mondo oggi, a parte Pomezia! [ride], mi arrivano poche informazioni e nascono molte cose in più. Ed era esattamente quello che cercavo».

Alcune volte tornare dopo una lunga assenza può essere decisamente più difficile del partire da zero e Sara questo lo sottolinea raccontandomi delle difficoltà iniziali, lo spiazzamento che di colpo l’accoglie in Italia. Ma lei è una designer cocciuta, fa una scelta e tira dritto. Sa usare bene le mani e ha una forte convinzione etica, quindi decide di inserire materiali biologici e si apre al mondo del riciclo, della riconversione dell’esistente. Maneggia i tessuti che ha a disposizione, li squadra e parte da essi per creare linee, immaginare i pieni e i vuoti di un capo che sarà comodo, versatile, intuitivo del corpo che vestirà: «Nell’alta moda spesso tutto gira intorno al prodotto e al profitto. Dunque per guadagnare sempre di più, si satura l’immaginario dei fashionisti con strizzatine d’occhio e lampeggiamenti ossessivi al luxury, al glam esasperato, escludendo dal giro coloro che non sono disposti a uniformarsi. Credo che questi designer abbiano perso il senso del fare avanguardia. Oggi fare avanguardia non è il capo che indossi, ma cosa c’è dietro. Se non fai questo switch, questo cambio di passo, non fai avanguardia ma soltanto qualcosa di già fatto, disegnato e raccontato. In questo senso, non mi interessa affatto attendere la settimana della moda XY, perché tizio e caio hanno annunciato sorprese. Credo sia il sensazionalismo che cerca ossessivamente il non ancora fatto. Io non ci sto a queste regole e credo che l’idea migliore sia ripartire dai disegni e realizzare un capo comodo, realizzato in maniera etica, perché i mezzi e le tecnologie sono ormai alla portata di tutti».

Sara Loi concepisce l’avanguardia artistica come scelta prima di tutto etica e, nel suo campo, anche tecnica e chimica su tessuti e materiali. Parliamo a lungo di realtà come Studio XO di Londra e di Issey Miyake, che ha una politica di riciclo e riutilizzo di prodotti reinventati e arricchiti. Mentre ci accomodiamo a piedi scalzi sui larghi tappeti di casa, le chiedo a bruciapelo come reagisce a essere definita fashion designer, come sente quest’etichetta: «Sono una fashion designer come altre, ma è qui che tutto nasce: che motivi abbiamo oggi di mettere in circolo altri vestiti quando se ne producono già così tanti, se non cercare di farlo in una maniere più etica?! Devo essere sincera: il più delle volte la parola fashion mi fa venire l’orticaria. La maggior parte dei miei amici non c’entra nulla con la moda e un buon 80% di quel mondo non lo sento esattamente mio. Credo sia necessario ridefinire cos’è fashion, altrimenti rischio di cadere nell’incoerenza. Posso dirti che adoro quello che faccio e sento che è quotidianamente rilevante, ha attinenza con la nostra epoca. Il design di abiti non è molto distante da quello di una macchina, di un mobile, di qualcosa di utile, che funga e funzioni. Il vestito ha un suo valore, non solo in termini economici, ma anche etici. Ho fatto una work experience da Alexander McQueen in un momento in cui avevo già iniziato a mettere a fuoco cosa fosse giusto per me e cosa non lo fosse. Entrare in quel mondo mi ha dato una percezione chiara. Così ho creduto fosse assurdo che una grande azienda non facesse riciclaggio di alcun tipo, nemmeno della carta, che non avesse una policy chiara nei riguardi degli animali e anzi ne utilizzasse di ogni tipo. Non erano più nemmeno le solite pellicce di visone o la pelle di cavallino, di coccodrillo, di serpente, lì si trattava di utilizzare qualsiasi materiale senza domandarsi sinceramente quale fosse la sua provenienza. Per me, che quando vedo una pelliccia penso che la gente sia ferma all’era preistorica, e questo sia per mancanza di etica che di gusto, era davvero troppo: il terzo giorno sono scappata e oggi sono convinta più che mai che fosse la cosa giusta. E poi, posso dirlo? Le pellicce le reputo proprio brutte».

Camminiamo in lungo e in largo al piano terra, un ampio spazio unico con tavolo da lavoro in legno, manichini, ferro da stiro professionale e bozzetti, aghi, tessuti in rotoloni. In fondo trovo allineati i capi delle collezioni di Sara, con il loro inconfondibile odore di stoffa buona. Li passo in rassegna, indossandone diversi. Un cappotto in lana dalle linee nette, over sulle spalle, ci porta a parlare di dinamismo e geometria. Chiedo a Sara da dove venga questo suo stile così minimale e pulito, mi interessa capire perché la sua natura curiosa, quasi enciclopedica, non trovi sintesi nelle esplosioni barocche ma nell’essenzialità, esattamente tra Jil Sander e l’architettura Bauhaus. «Sì, la componente geometrica è fondamentale nelle cose che produco. Lo studio sulla silhouette rientra da sempre nel mio lavoro, è un colloquio che io faccio con il concetto stesso di dinamismo. I designer spesso sono ossessionati dall’architettura, io trovo ispirazione anche in altri ambiti, ad esempio nella natura e nelle sue forme organiche e inorganiche. Questo deriva dall’aver letto e assimilato molte informazioni su meditazione e yoga. Ho avuto interessi sempre diversi e forse anche un po’ eccentrici, che non avevano nulla a che fare con la mia attività, ma che poi sono convogliati fino a ridefinire la materialità delle mie produzioni. Trovo difficile fare distinzioni tra scienza, spiritualità, praticità; spiegare agli altri come queste componenti, anche agli antipodi, si ricostruiscano nel mio mondo personale. Sono un tutt’uno. Tutto questo si riflette nel mio lavoro attraverso il concetto di dinamismo, di una figura leggera e pulita che dà risalto alle dimensioni del corpo e delle sue possibilità motorie. Di qui i pantaloni alti in vita ma con ampio spazio al cavallo, stretti o corti sulle caviglie, di qui il gioco sui pieni e sui vuoti della spalla o dell’avambraccio. Cerco un bilanciamento della stoffa che si doni in quantità maggiore in alcuni punti del corpo e si neghi in altri. Questa coesistenza strutturata deriva forse dalla professione e dalla forma mentis di mio padre geometra, che da bambina vedevo lavorare ai progetti che poi riempivano casa. Se rifletti in senso ampio sulla parola stessa, progetto, cogli interamente il suo significato di procedimento, elaborazione e suddivisione del tempo e dello spazio nel creare attraverso fasi».

Sara Loi disegna molto e realizza con cura i suoi abiti, attenta che questi rispecchino la sua natura prepotentemente libera e poliedrica. Ha l’innata capacità di rendere piacevole qualsiasi capo realizzi, sia esso un cappotto, un maglione o una camicetta di seta color avorio con due coni di tessuto che dalle spalle puntano il cielo. Ha un approccio fluido, mentale ai materiali che utilizza, ne assapora le fibre e chiede loro di poterle usare in modo coerente. Mi fa vedere alcuni disegni su fogli A4, quelli da disegno industriale che la mia memoria rispolvera dagli anni del liceo scientifico. Accanto scorgo un libro di geometria e le chiedo cosa ci faccia quel volume un po’ impolverato nell’atelier di una stilista. Lei sorride luminosa e mi dice che è tornata a studiare le basi matematiche perché hanno a che fare con la sua passione per la geometria sacra e l’arte dei mandàla. Mi mostra dei disegni coloratissimi composti di sfaccettature precise e coerenti. Me li illustra con pazienza: alcuni sono semplici mandàla, altri più complessi sono gli yantra. I mandàla sono disegni circolari a motivi geometrici, usati in tante tradizioni diverse tra cui anche quella buddista. I monaci tibetani, per esempio, li realizzano a terra con diversi tipi di sabbia colorata, attraverso l’uso di una particolare pipetta. Dopo un attento lavoro che può durare anche diversi giorni, a composizione terminata, i mandàla vengono distrutti. Sara procede spedita parlando di tutto questo e io mi perdo. Lo confesso. Mi perdo sempre di più nel suo mondo: «All’inizio, nell’imparare la tecnica si trova qualche difficoltà, ma del resto non è troppo diverso dall’imparare a camminare. Ne parla molto bene anche C. G. Jung, fine studioso di mandàla, che nei suoi saggi sull’argomento racconta di come un inizio piuttosto macchinoso possa portare a possedere uno strumento ideale di crescita interiore». La ciclicità, i ritorni e le geometrie di queste composizioni sacre riescono a riassumere tutta intera la figura di un’artista poliedrica come Sara, che nell’essenzialità e nella cura del particolare ha trovato la chiave della sua arte.

BELLAGENTE è un progetto Dude.

In collaborazione con Officine Fotografiche Roma.

Foto di Marco Rapaccini (Officine Fotografiche Roma).

Maria Elena Di Vincenzo
È nata a Campobasso, a voler dimostrare che il Molise esiste. Si è laureata a Bologna con una tesi su Pasolini e la Scuola di Francoforte. Legge Marx, ama il Giappone e François Truffaut, adora il vintage e le chincaglierie. Scrive di moda e arte.
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