Andrea Grimaldi e Filippo Lambertucci | BELLAGENTE 2017
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Andrea Grimaldi e Filippo Lambertucci | BELLAGENTE 2017

Questa intervista fa parte di BELLAGENTE 2017 — Ritratti di persone che fanno tanto bene a Roma, sezione Architettura. Andrea Grimaldi e Filippo Lambertucci sono stati selezionati in collaborazione con Open House.     Quando arrivo davanti all’ingresso della nuova Metro di San Giovanni osservo le scale mobili muoversi. Sono lentissime ma presagiscono il risveglio, una nuova […]

Questa intervista fa parte di BELLAGENTE 2017 — Ritratti di persone che fanno tanto bene a Roma, sezione Architettura. Andrea Grimaldi e Filippo Lambertucci sono stati selezionati in collaborazione con Open House.

 

 

Quando arrivo davanti all’ingresso della nuova Metro di San Giovanni osservo le scale mobili muoversi. Sono lentissime ma presagiscono il risveglio, una nuova nascita. Si sgranchiscono gli ingranaggi, aprono le porte alla città che sta sotto. Nell’immaginario del cittadino romano rassegnato ad un cambiamento mai facile, quelle transenne erano diventate opere permanenti, scultoree, del paesaggio urbano della piazza. Ora la rivelazione dell’opera, spogliata degli eccessivi abiti da cantiere sembra assumere connotati miracolosi.

Così scendo, dando le spalle alla città che sta sopra, quella dall’intorno urbano definito dal sole mattutino e dal caos regolare e rumoroso. Occorre un passo indietro però.

Andrea Grimaldi e Filippo Lambertucci si presentano mentre lascio il documento nel punto di controllo all’interno del cantiere. È mattino ma chiaramente sono lì già da qualche ora, e quello in cui ci stanno accompagnando per loro è solo l’ennesimo, ma credo pur sempre utile, giro all’interno della stazione metropolitana, teatro del suggestivo ritrovamento di un’azienda agricola di età romana.

Grimaldi e Lambertucci sono i due professori della Sapienza che hanno realizzato l’intervento di allestimento museale. Perché come raccontano i molti articoli usciti sui giornali San Giovanni, sul modello di Parigi e dell’isola dei musei di Berlino, diventerà una stazione museo.

Mentre ci avviciniamo all’entrata, scambiamo le prime parole: «Scendere sarà come un’immersione», mi dicono a metà delle scale mobili, e un po’ mi pare di dover trattenere il fiato.  

Iniziano ad illustrarmi la conformazione spaziale della metro quando siamo nell’atrio d’ingresso, il primo livello ipogeo. La definizione lessicale dello spazio definisce già un approccio architettonico molto marcato.

Atrio è ambiente d’architettura. Sottende una spazialità di rappresentanza, sia essa civile o religiosa.

Ipogeo è aggettivo associato all’architettura. Si riferisce al rapporto tra terreno esistente e costruzione.  

Quando sono entrati a far parte del progetto, mi raccontano, il cantiere già era ad uno stadio avanzato: nel Novembre del 2015 gli scavi archeologici e i successivi ritrovamenti offrivano la possibilità di mostrarli al pubblico e di trasformare la stazione in una sorta di museo: da “semplice” nodo infrastrutturale a contenitore di coscienza e riconoscenza verso il passato, in cui il ruolo dei due architetti dialoga con quello degli archeologi, degli ingegneri e costruttori. «Noi ci siamo inseriti in questo contesto», specificano, «con tutte le difficoltà che questo comporta». Ed in effetti il loro è un lavoro attento dello spazio sotterraneo, oltre che dell’allestimento, che apporta modifiche e miglioramenti delle connessioni e dei flussi.

Il progetto non si limita dunque alla sola componente di allestimento: dentro ci sono le conoscenze che hanno sempre accompagnato i docenti-architetti nella loro professione. «Prima ancora dei ritrovamenti archeologici, si discuteva di cosa potesse diventare la stazione, delle potenzialità nascoste nel sottosuolo. Era molto probabile che venisse trovato qualcosa, che l’ipogeo potesse rappresentare l’occasione per mostrare ancora una volta qualcosa della Roma Sotterranea, ma soprattutto di far dialogare la città contemporanea con quella antica.» Mi raccontano che il progetto inizialmente comprendeva una maggiore complessità compositiva, che si poteva estendere, sempre in maniera ipogea, fino all’altro lato di piazzale Appio, verso via Magna Grecia, che si studiavano percorsi di connessione con gli esercizi commerciali limitrofi, che la piazza su via La Spezia potesse essere bucata per far passare la luce ai livelli sotterranei. Ad esempio nell’atrio, nel punto in cui ci troviamo ora.

Negli occhi dei due professori si intravede la soddisfazione di raccontare il progetto e l’idea di un’intervista classica mi sembra superata dalla possibilità di descrivere semplicemente  il loro lavoro che in questo caso racconta anche gli architetti.

Prima dei tornelli d’accesso alla metro, le teche espongono i ritrovamenti di un ambiente ospedaliero. I piatti e la restante oggettistica, variabile nella dimensione, poggiano su supporti metallici, disegnati ad hoc, ogni volta diversi, per permettere un’osservazione migliore, rivelando un attenzione degli architetti quasi ossessiva dei dettagli di progetto.

L’alleviamento del senso di disorientamento è affidato ad un grafica arancione e marrone — già oggetto di molte polemiche, in realtà — che definisce le fasi temporali e le epoche dei ritrovamenti. Più avanti, un disegno di una sezione graficizzata della stazione sintetizza i diversi livelli di scavo e sottolinea la ricostruzione filologica della storia. Mi giro e ci sono altre scale mobili, queste ancora non in funzione. L’ingegnere che ci accompagna indica la discesa attraverso le scale “faticose”: «Duecentodieci scalini fino al piano campagna», sottolinea. Siamo a quindici metri sotto il livello stradale, nel pieno dell’Età Imperiale, dove viene rinvenuta la grande vasca. I due progettisti mi spiegano che il piano di calpestio attuale è esattamente quello della vasca e una diversa pavimentazione a listelli ne disegna la sagoma, «guidando il fruitore nella comprensione dello spazio», aggiungono.

Seguiamo i listelli e le scritte. Eccola la zona agricola, eccola l’azienda di lusso del primo secolo dopo Cristo. «Arrivano le pesche», è scritto su una delle pareti che contengono l’allestimento. «Ci sono i noccioli delle pesche ancora incredibilmente conservati», mi fa notare Lambertucci. Ci sono gli utensili pregiati del mestiere; ci sono le ancore, che i Romani utilizzavano per i sistemi di canalizzazione e di drenaggio. C’è molto altro, catalogato e in parte avvolto ancora nell’enigma.

E c’è da scendere ancora, altri dodici metri, fino a meno ventisette metri. È la prima volta che si scava così in profondità.

Siamo ai binari dei treni e contemporaneamente al Paleolitico. Il Paleo-Tevere faceva crescere i canneti, i frassini, gli aceri e i tigli: noi li ritroviamo lì, insieme ai resti fossili di un mammut, rinvenuti poco più in là dello scavo.

C’è tanto, forse troppo, per l’occhio frettoloso di chi prenderà la metro? Lambertucci e Grimaldi ribadiscono che lo spazio non può essere concepito e vissuto come un museo classico, nonostante ormai sia già stata ribattezzata come stazione museo. «Sarebbe bello che le persone che passano di fretta per raggiungere i binari possano aver voglia di fermarsi un attimo, e magari ogni giorno fare un passo indietro nella storia e scoprire qualcosa di nuovo, di stupefacente. Non è necessario vedere tutto subito. Prendersi una pausa, riflettere, a questo potrebbe servire.». Mi viene in mente il libro pubblicato dai due professori, insieme ad altre due colleghe — Paola Veronica Dell’Aira, Paola Guarini — dal titolo Sottosuoli Urbani. Il punto è sempre lo stesso, cercare un’alternativa, una variante. «Nella pubblicazione poniamo l’attenzione sullo spazio sotterraneo e sulla sua significativa importanza per la crescita delle aree urbane densamente costruite e per quelle caratterizzate da una storiografia marcata. L’ipogeo potrebbe indossare gli abiti del miglioramento, alleggerendo la pressione delle funzioni più pesanti ed inquinanti, riducendo le distanze. Ci esorta ad una sensibilità diversa nel progettare, nel confronto con uno spazio già in parte determinato, ci invoglia ad affinare le capacità costruttive, richiede una sinergia tra i diversi saperi coinvolti». Il  risultato del loro intervento deve essere letto secondo questa visione dunque, come punto di partenza per ipotizzare soluzioni alternative: la variante di progetto diventa la base dell’intervento, il ritrovamento uno stimolo per creare qualcosa di nuovo.

Possono forse rimanere i dubbi sulla conservazione e sulla manutenzione nel tempo di un allestimento di questo tipo.  Ma se è vero che la preziosità e la delicatezza delle teche e degli schermi su cui verranno proiettati immagini e i riferimenti degli scavi, spingono a considerare un rapido deterioramento e rovina causati dall’incuria, è vero anche che ci sono esempi simili in giro per l’Europa che dovrebbero funzionare da insegnamento. Come ad Atene: le stazioni di Monastiraki, di Syntagma, di Evangelismos sono diventate contenitori culturali, con parti di statue scolpite e reperti archeologici risalenti evidentemente alla Grecia Antica. I cantieri della fermata di Piazza Venezia e di via Amba Aradam confermano che potrebbe succedere  stessa cosa anche qui. Parliamo di questo mentre concludiamo l’itinerario e percorriamo a ritroso i nostri passi, fino al punto in cui le strade si dividono: il cantiere non è ancora finito — la metro aprirà definitivamente nel prossimo autunno — e vanno controllati gli ultimi dettagli. Lascio Grimaldi e Lambertucci lì e risalgo piano, riprendendo fiato.

Qualche giorno dopo incontro loro durante il servizio fotografico per BELLAGENTE. Mentre Marco Rapaccini scatta le foto sorridono e scherzano. Sembrano essere entrati nella parte, come una qualche coppia di telefilm ben affiatata e complementare. «Qua sei troppo serio, qua un po’ troppo imbronciato», «no, poi qua ridiamo troppo, pensa agli studenti che la vedranno», commentano mentre divertiti riguardano gli scatti. Ma alla fine è come l’architettura. «Ci fregano perchè ci piace», aggiunge ad un certo punto Grimaldi. Ecco cosa, ecco dove sta il “segreto”. Essere consapevoli. Come il loro progetto, consapevole e necessario.

 

Foto di Marco Rapaccini, Officine Fotografiche Roma.

Emiliano Zandri
Emiliano Zandri vive a Roma. È per formazione professionale in parte architetto, in parte ingegnere. Dal 2012 collabora e scrive per zero.eu ed altri magazine. Nel 2016 fonda ZA², un progetto fotografico condiviso con il fratello Lorenzo. Nel frattempo riordina le idee.
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