Questa intervista fa parte di BELLAGENTE 2017 — Ritratti di persone che fanno tanto bene a Roma, sezione Arte. Una Vetrina è stata selezionata in collaborazione con INSIDEART.
«Ci sono però persone più propense a guardare, osservare, persino a contemplare. Attribuiscono alle forme una potenza di verità. Pensano che il movimento sia più reale dell’immobilità, la trasformazione delle cose più ricca di insegnamenti, forse, delle cose stesse. Queste persone si chiedono se l’accidente non manifesti la verità con altrettanta precisione — visto che ai loro occhi non c’è l’uno senza l’altra — della sostanza stessa. Allora accettano di prendere, e non di perdere, tempo per guardare una farfalla che passa, voglio dire un’immagine che sorprendiamo sulle pareti di un museo o sulle pagine di un album di fotografie.»
(Georges Didi-Huberman, L’immagine brucia, in AA.VV., Teorie dell’immagine)
L’arte si manifesta attraverso immagini, testuali e visive, e in questi ultimi decenni lo fa così velocemente da aver reso — chissà per quale motivo — più urgente la necessità di dare una risposta alla domanda: «Cosa è arte?». E mentre le immagini viaggiano e si moltiplicano incessantemente nel nostro quotidiano, attraverso social network, link e pubblicità, il mondo dell’arte continua ad abbracciare la filosofia della lentezza, fatta di mostre minimali, a lunga permanenza, con i loro tempi dilatati. Un contrasto che è ampio argomento di riflessione ma talvolta anche di reazione.
«Sono nata come reazione alla lentezza pachidermica delle gallerie. Ero impaziente di mostrare, proiettare e trasmettere immagini. Io sono un ibrido tra una vetrina commerciale che ha perso la propria commercialità — anche se le mie opere vengono messe di fronte all’ammirazione di un pubblico — e una vecchia architettura romana, come una nicchia sacra, dove al di fuori dello spazio del tempio, veniva conservata e protetta un’immagine. Dunque io sono fuori lo spazio dell’arte, sono per così dire un sacello stradale.»
Ho incrociato per la prima volta Una Vetrina mentre ero diretta verso una delle inaugurazioni della sua vicina di strada, Operativa Arte Contemporanea, la galleria d’arte contemporanea di via del consolato, una delle traverse di Corso Vittorio Emanuele II. Tante le birre, tanta la gente e tante le chiacchiere su ciò che stavamo osservando in quell’immacolato spazio bianco. Ma accanto a noi, c’era lei: luminescente ma in penombra, desiderosa di attenzioni ma senza concederne troppe, chiusa ma costantemente aperta. Una vetrina di un vecchia merceria serrata da tempo, con il suo piccolo ingresso decorato con gigli e specchi, affacciata sui sanpietrini. Una vetrina inusuale per le strutture di una città come quella romana. Dal 2013 questa piccola nicchia ha cambiato obiettivo nella sua esistenza, diventando uno spazio espositivo, un luogo incessante per il consumo di pensieri e di visioni a occhi aperti. La sua metamorfosi si deve a Gianni e Giuseppe Garrera e Carlo Pratis, fondatori di questo progetto. Ad intervenire in questo spazio insolito sono artisti, filosofi e teologi con i più svariati contenuti, mostrati all’attenzione o all’indifferenza di chi passa lì di fronte. Un’esposizione nuova ogni settimana, divorata con velocità, senza eventi di inaugurazione, senza avvisi celebrativi o libretti esplicativi. Una Vetrina esiste e ha una vita che elude i sistemi canonici dell’arte, dell’economia e del marketing.
Incuriosita dalla sua aurea al neon, ho deciso di tornare a farle visita in una giornata qualunque, nella speranza di strapparle qualche parola mentre la via era vuota. La sorprendo nel liturgico momento in cui si spoglia di un’immagine per ospitarne una nuova.
«La prima cosa su cui ho voluto concentrarmi sono state le icone, sia come logos sia come immagine. Soprattutto, le icone che mi piacevano. E farlo con la stessa bulimia della contemporaneità, del post-moderno, ma unito alla sacralità del mio tabernacolo, illuminato giorno e notte. E proprio come un tabernacolo sacro, non c’è comunicazione legata alle mie proposte. Una scelta autistica, o per meglio dire monastica, come quella delle nicchie sacrali che mi hanno preceduto.»
Sfogliando il suo archivio, fatto di pensieri, objet trouvé, poster e poesie, sono parsi evidenti i fattori comuni della sua proposta artistica: la solida consapevolezza del potere di stupefazione dell’immagine contenuta all’interno di un elemento, e lo spreco (specialmente di materiale artistico) anti-economico e anti-calcolo, contrario a tutte le regole del buon senso. Una Vetrina è un esperimento, un gioco infantile basato sulla concezione della perdita di grandi momenti, ad una velocità incredibile e senza cura. Un esperimento che è conseguenza dell’attuale situazione socio-economica, ma che trova nell’indifferenza al calcolo e all’opportunità la sua risposta. Agire come agiscono i tempi, ma nel frattempo godere anche solo per una settimana dell’infinita bellezza di un’immagine.
«Io volevo approcciarmi al tempo in maniera completamente diversa rispetto a una galleria. La galleria ha le sue stagioni, come una boutique deve cambiare mostra ogni mese, ha le sue collezioni inverno e estate. Io sono aperta 24 ore su 24, le mie ferie sono le mie festività e viceversa, i giorni per me sono tutti uguali, perché sceglierne uno come vernissage delle mie mostre? A tal proposito mi viene in mente un distico del mistico Silesius: “La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no.” Io volevo comportarmi così. È altamente rischioso, lo so. C’è gente che viene a trovarmi chiedendomi di opere esposte settimane prima, affranti dal fatto di non essere stati avvertiti in tempo. Ma mi sono già concessa troppo rispetto agli esordi, in cui ero ancora più silenziosa e intollerante nei confronti del pubblico costantemente presente ai cerimoniali artistici. Guardami ora, sono addirittura qui a parlar con te.»
In questi 4 anni di esposizioni, molti artisti in permanenza per lunghi o brevi periodi a Roma hanno deciso di occupare questa vetrina con lavori elaborati per questo spazio. Luca Vitone, Vincenzo Agnetti, Elisa Montessori, Letizia Battaglia, Matteo Nasini, William Kentridge tra i tanti. Pochi anni e più di 200 mostre catalogate in sezioni, sono nate dal desiderio di condividere qualcosa di importante senza un guadagno, animate solo dalla consapevolezza della sacralità di un’immagine, capace di far commuovere anche il passante distratto.
«Il mio essere spazio espositivo fisico porta il pubblico ad associare la mia natura a quella di una galleria. Ma in realtà io sono una galleria, ma sono anche una rivista. Sono un canale televisivo costantemente in onda, sono un centro politico dove affrontare i dilemmi rivoluzionari, sono una bacheca parrocchiale. E questo ibridismo, questa avanguardia, talvolta stupisce anche l’artista chiamato ad interagire con queste modalità. Non siamo più abituati a non seguire dei canoni. Con tanta velocità io muto il mio aspetto e con altrettanta velocità chiedo all’artista, al pittore, al filosofo, al poeta di condividere con me un suo pensiero. E questo talvolta disarma. Quante volte nel tempo ho sentito frasi come «Posso venire a fare un sopralluogo? Possiamo prendere delle misure?». Tutto questo non è necessario nel mio tabernacolo. La mia velocità non è dovuta solo a questi tempi frenetici in cui viviamo, è un modus operandi. È come se fossimo costantemente a ridosso della fine del mondo e ci fosse la necessità di avere costantemente fiducia nell’immagine.»
E con lo smartphone in mano pronta ad appuntare parole e pensieri, mi rendo conto quanto il nucleo del pensiero di Una Vetrina sia lontano dalla nostra quotidianità: le sue condivisioni non durano eternamente nel tempo, un concetto a noi ormai quasi completamente estraneo, in questi tempi in cui tutto ciò che “ci piace” rimane sulle nostre “bacheche” anche dopo la fine delle nostre esistenze. E mi chiedo se questa perdita non sia in fondo necessaria in quanto genitrice della malinconia che rende poi sacre, le cose importanti.
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Foto di Marco Rapaccini, Officine Fotografiche Roma.