Ho incontrato Gabriele De Santis in un bar di Roma. Tanti oggetti sono appesi alle pareti e l’odore del caffè macinato si mischia a quello dell’eau de toilette Versace, vampate di corpuscoli pizzicano il nostro epitelio olfattivo. Tutto lascia intendere che sarà una giornata di lavoro fatta di strette di mano, gente che finge sorrisi e tacchi che tuonano vigorosamente sui pavimenti di marmo nero. Gabriele non è a suo agio tra questi gentlemen, ma mi sorride come se ci conoscessimo da una vita, oggi siamo seduti a quel tavolo di legno scuro, con il caos romano che passa dietro il vetro del locale come pesci che si rincorrono in un acquario. Lui ordina una tazza grande di caffellatte e io lo seguo, cerco di seguire i suoi movimenti, capire i suoi gesti, per inserirlo nella tassonomia delle persone che ho intervistato in passato e cercare di capire quali coordinate usare per descrivere la sua personalità. Lui scherza, sorride, salta i convenevoli e comincia a spaziare nel mondo musicale.
Tutto quello che ho scritto è pura finzione, immaginazione, perché non ho mai incontrato Gabriele, non l’ho mai guardato, non ci ho mai parlato. Come s’intervista una persona senza parlarci? Abbiamo fatto un esperimento. Heath Ledger muore per avvelenamento nel 2008, mentre si sta girando The Imaginarium of Doctor Parnassus, di cui è protagonista. L’attore interpreta Tony Shepard che, attraverso uno specchio, ha la possibilità di cavalcare diverse dimensioni irreali. Ledger riesce a girare solo le scene in esterna così Terry Gilliam, il regista, pensa che sia opportuno completare la pellicola affidandosi ad altri tre attori, pettinati uguale, che indossino la stessa maschera: Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell. Un’identità partecipata e molteplice, fatta di tante voci che a turno prendono le sembianze del protagonista.
Se Gabriele De Santis è il nostro Tony Shepard, i suoi interpreti sono quattro persone legate al suo mondo, che conoscono il suo lavoro e che lui stesso ha selezionato. Si tratta di Andrea Polichetti che si descrive come «nato e cresciuto a Roma sud, svezzato a Notting Hill, calco la scena dal 2009»; Lorenzo Pace che rifiuta ogni tentativo di estorcere una descrizione autobiografica; Carla Chiarchiaro «(Prato,1983), vive Roma dal 2010, dove lavora attualmente per la galleria Frutta. Dopo la laurea in Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Firenze (2009), ha conseguito il master in Mercato di Arte Contemporanea e Gestione di Imprese Relazionate presso l’Università Antonio De Nebrija di Madrid (2010). Dal 2009 al 2010 ha lavorato la galleria Parra & Romero, Madrid; dal 2010 al 2014 presso la galleria Federica Schiavo, Roma; dal 2014 ad oggi presso la galleria Frutta, Roma»; infine Clelia Colantonio che si descrive così: «Uh! I am a nice dude. Tiger Smile. Caffè Macchiato, 1:00 pm Mocaccino with Sanbuca, 1 am; last song by Pink». Per comodità, da ora in poi, saranno tutti “Gabriele”. Nato a Roma nel 1983, si forma alla University of the Arts London e torna nella capitale dove vive e lavora. Si comincia, ho scelto cinque immagini che mi piacerebbe commentare con Gabriele, magari parlando del suo lavoro.
La prima è una foto del 1968 di Henri Cartier-Bresson scattata a Neuilly-sur-Seine, un comune a Nord-Ovest di Parigi. Ritrae un canuto Marcel Duchamp nel suo studio, mentre fuma un sigaro comodamente seduto sulla poltrona di pelle scura, con la sua Roue de bicyclette (1913) in primo piano, nella metà destra del fotogramma. «Marcé!» esclama Gabriele, come se avesse visto un amico di vecchia data. D’altronde l’operazione di astrarre oggetti di uso comune per farli rientrare nel dominio della fine art è un’operazione, per lui, molto ricorrente. Lo spostamento e il ri-posizionamento crea un valore aggiunto dovuto alle qualità relazionali dei frammenti. L’operatore è un bricoleur che concentra i suoi sforzi sulle connessioni tra le parti. Egli intende esorcizzare l’influenza dei maestri e muoversi agilmente tra i molteplici riferimenti. È tutta questione di riferimenti. Non è tanto importante generare nuova materia, come artista artifex mundi, quanto innescare relazioni inaspettate tra oggetti che ogni spettatore conosce. Perciò la difficoltà di catapultare il pubblico in un apparato formale e concettuale estraneo, familiarizzando con i mezzi espressivi dell’artista, è in qualche modo agevolata dal linguaggio “comune” che Gabriele usa con i suoi interlocutori.
Scorrendo le sue opere si percepisce un’affezione al cinematismo, il salto e la sospensione. Perciò gli chiedo, «nei titoli delle tue opere appare “run” “dance” “jump” “drop”. Perché tutto si muove?» Gabriele mi risponde «credo che tutto sia in movimento, in fermentazione. L’arte, i linguaggi e le tecniche nel corso di breve tempo si rinnovano». Lo incalzo su questo aspetto. «Come s’interagisce in un’epoca iperconnessa nella quale un artista ha pochissimo tempo per ammaliare e catturare l’attenzione del pubblico generico?» So che probabilmente nessuno ha una ricetta pronta per l’uso ma Gabriele mi fa capire che tutto risiede nel trovare una sintonia comunicativa. «L’artista di conseguenza segue gli stessi ritmi – dice – correndo, saltando e a volte inciampando realizziamo le nostre idee. Probabilmente l’impressione di movimento che si imprime nel lavoro riesce a farsi largo e spiccare su un mondo statuario e convenzionale legato al concetto di arte».
Passiamo alla seconda immagine. È una foto del tanto discusso Dismaland di Banksy. Ci vedo una iconoclastia verso il mondo fatato delle major, nel quale il brand assume valori liturgici. «Suck My Disney» mi risponde Gabriele. In un primo momento sono spaesato, poi capisco che si tratta di un suo lavoro del 2012, la prima mostra personale alla Frutta Gallery, sua base operativa. Per la galleria di via Giovanni Pascoli a Roma lavorò con pochi elementi ed un’insegna al neon che contrastava la grande semplicità degli spazi espositivi, disposta su una porta ordinaria e anonima. Gabriele rifugge la seriosità dell’arte ed è piuttosto incline a prendersi gioco degli stereotipi, soprattutto delle figure ritenute “buone”, quelle che assumono valori positivi e quasi di redenzione. Mi chiedo se tutto ciò non sia legato a Roma. «Cosa ti ha trasmesso questa città e qual è il motivo di questa ironia latente che pervade il tuo lavoro?» La risposta non può che essere «Ooh La La. Hashskate Rome? It’s funky enough».
Nella terza foto c’è la copertina di On The Road (1957), il libro di Jack Kerouac divenuto il manifesto della beat generation. Nel mondo dell’artista romano ci ritrovo gli stessi impulsi di fluida improvvisazione del jazz, la capacità di assorbire riferimenti senza filtro culturale dal mondo esterno, la capacità d’intrecciare la biografia al lavoro artistico, senza soluzione di continuità. Un flusso di parole (quelle di Kerouac) e immagini (quelle di De Santis) travolge il lettore/visitatore che compie un viaggio nella testa dell’autore. Come se tutti potessimo interpretare Essere John Malkovich, cavalcare i suoi pensieri e appropriarsi delle sinapsi che li generano. Scrivere un libro sul viaggio durante il quale si sta completando il libro precedente a quello che si ha tra le mani (The Town and the City), è un incredibile cortocircuito temporale che Gabriele provoca in We’re short a guy, l’ultima installazione alla Galerie Valentin di Parigi. Si fa un salto dimensionale in uno spogliatoio della A.S. Roma nel quale sono appese le maglie dei bomber della squadra: Boetti, Burri, De Dominicis, Fontana, Manzoni, Merz. Gli artisti concettuali italiani diventati “mostri sacri” come i calciatori ritratti nella hall of fame di ogni società sportiva. Esorcizzare i maestri appunto. Gabriele commenta il libro di Kerouac con un pezzo del 2006 di Nas, Hip Hop is Dead.
«Cause Nas rap is compared to legitimized crap
Cause we love to talk on nasty chickens
Most intellectuals will only half listen
So you can’t blame jazz musicians
Or David Stern with his NBA fashion issues
Oh, I think they like me, in my white tee
You can’t ice me, we here for life, B
On my second marriage, hip hop’s my first wifey
And for that, we not taking it lightly
If hip hop should die, we die together
Bodies in the morgue lie together
All together now»
Nas dichiara morto l’hip hop e il potere degli artisti d’influire sulla società. Anche gli Stati Uniti sarebbero morti tanto che «If we don’t change, we gonna disappear like Rome», dice in un’intervista per MTV. L’album omonimo sollevò un ruvido dibattito su un genere che si stava appiattendo.
Procediamo con la quarta immagine, un po’ di sano populismo e indignazione. Si tratta di una rissa in Senato durante i lavori di una commissione del 2010. Un fascicolo di fogli, plasticamente scagliato dalle mani di un senatore, completa la composizione caravaggesca. «Guardando queste foto – dice Gabriele – non ho potuto fare a meno di trovare un filo conduttore che le leghi tutte quante, un po’ come i giochi delle parole crociate. Questo filo conduttore per me è proprio il percorso, la strada. In alcune immagini così palese, in altre assume un significato più evanescente, come la rissa in senato che mi fa esclamare “ma come diavolo ci siamo arrivati a questo punto? Quale strada ci ha portato dove siamo adesso?”». Così gli viene alla mente la sua installazione per Artissima2015, Party is Over, anche questa realizzata con luce al neon. La “p” e la “y” s’illuminano a intermittenza, come se ci fosse un malfunzionamento, facendo apparire il messaggio “art is over”.
Il carattere narrativo, su più livelli, è sempre presente nelle opere del romano, i titoli e l’opera stessa presentano elementi fonetici che indagano il linguaggio, le parole e il suono che i segni producono. L’uso della tipografia è parte integrante dell’opera. Si prenda l’evoluzione della punteggiatura: la prepotenza della burocrazia, dei formalismi legali e dell’informatica ha ampliato il dominio di utilizzo dei segni. Allo stesso tempo diventano un nuovo alfabeto in grado di comunicare valori emotivi precisi, l’emoticon che Gabriele spesso usa come mezzo di espressione. Facendo riferimento a quest’aspetto chiedo a Gabriele «cosa può significare nella tua opera l’uso sistematico di segni astratti tipografici? Come può un elemento della punteggiatura diventare un ideogramma, una rappresentazione grafica di un valore figurativo?»
«Simboli di scrittura e parentesi, svariati segni, propri dei social network come Facebook, Twitter e Instagram sono parte integrante del mio lavoro – risponde – con l’utilizzo di questi sollevo questioni legate al movimento e all’istantaneità della trasmissione, così come temi quali l’ambiguità di simboli, la precarietà delle connessioni umane e la nozione di intimità in un mondo sempre più digitalizzato. Identifico l’hashtag come simbolo della trasmissione istantanea per eccellenza. Formalmente l’utilizzo di tale simbologia agisce in antitesi alla scelta di materiali quali il marmo, strettamente connesso al lento intervenire della natura. Ritroviamo tale dialogo, o meglio ossimoro, nell’insolito accostamento tra la tradizionale tela e ruote o grip di skate-boards. Tutto ciò non è atro che una metafora dell’evoluzione costante di idee e di movimento intorno alla creazione dell’opera d’arte. Sia il cambiamento graduale del marmo infatti, sia l’immediatezza dei simboli tratti dell’ambiente skater, sono indicativi del concetto di movimento ininterrotto, facendo riferimento, in ultima istanza, al modo in cui il mondo che ci circonda è in continua evoluzione». Se Gabriele può efficacemente ingigantire un “#” e renderlo unico mezzo grafico espressivo di un’opera, è assodato che esso alluda a tali significati da non aver bisogno di ulteriori codici e segni.
Ho scelto l’ultima immagine, la Piazza d’Italia a New Orleans, come sintesi del lavoro di Gabriele, sono curioso della sua reazione. Uno spazio urbano disegnato dall’architetto del Michigan Charles Moore (1925 –1993), ritenuto l’archetipo del progetto postmodern, s’innesta su Lafayette street nel business district della città della Louisiana: è un pastiche di elementi classici pesantemente rielaborati, una composizione fatta di frammenti che allude all’idea di rovina di una storia che gli US non hanno mai avuto, colori dissonanti, e un salto di scala che rende tutto più “americano”. L’idea di italianità è condensata in questo pezzo di città, tra un parcheggio grande il doppio della piazza e due grattacieli colossali che incombono sul retro, rendendo tutto molto finto e decontestualizzato.
«Trovo nella selezione di immagini un rimando al mio lavoro. Nel senso che ognuno dei soggetti scelti è in qualche modo entrato a far parte della cultura popolare o affonda in questa le proprie radici. Molte delle mie opere recenti, infatti, traducono la cultura popolare in qualcosa di divertente (penso ad esempio l’utilizzo di titoli di canzoni note, quali Can’t take my eyes off you) creando un giocoso rimando con l’iconografia dell’opera stessa. Non solo, talvolta il riferimento è alla stessa natura dell’essere umano: sono interessato a personificare le opere d’arte, conferendogli attributi umani, ciò permette loro di avere una propria personalità». Per Piazza d’Italia il titolo perfetto suggerito da Gabriele è Gangsta’s Paradise, il pezzo del rapper Coolio, featuring L.V., che opera lo stesso processo di Charles Moore: campiona le note di Pastime Paradise (di Stevie Wonder), ne modifica il testo e apre il brano con un passo della bibbia su un coro di voci sacrali. Un altro livello di lettura è quello della sua installazione The Dance Step of a Watermelon While Meeting a Parrot for the First Time, 2014, alla Depart Foundation di Los Angeles. Nella galleria c’è un halfpipe in legno, colonne ioniche e corinzie sui roller, la Piramide Cestia, il Colosseo e la statua dell’imperatore Augusto stagliate su uno sfondo arancione. L’autore gioca ancora con gli stereotipi, come se avesse campionato alcuni elementi della romanità e altri della cultura underground americana e li avesse frullati per ottenere un cocktail esplosivo.
I suoi quadri montano le ruote, altre volte un hula hoop, altre ancora un manubrio di bici da corsa. «Perché preferisci lavorare contemporaneamente sulla figura bidimensionale dell’opera e sul suo supporto? Qual è il senso di questo doppio livello di comunicazione con l’osservatore?» gli chiedo. Gabriele mi risponde che «la stratificazione del linguaggio è fondamentale nel mio lavoro. Supporto, figura ma anche titoli ed utilizzo del linguaggio verbale o scritto sono elementi che compongono la mia ricerca».
Siamo al termine della nostra intervista, mi congeda con un’ultima notazione ed una canzone: «In tutte le immagini, in qualsiasi caso, ho notato un cambiamento, un’evoluzione scaturita proprio grazie ad un percorso formativo della nostra evoluzione. Che esso sia nel corso del tempo di un viaggio, di un secondo di una riflessione, da anni lasciati andare al destino del caso, o del nostro lavoro che ha fatto in modo che le cose che tutti noi conoscevamo bene, in forma e sostanza, si siano ripresentate davanti dopo tempo in modo differente».
Come tutte le storie esiste un lieto fine. Al termine ci scambiamo un messaggio, con il Gabriele originale, il nostro Tony Shepard: «Ciao Gabriele. Tutto ok per l’intervista, la sto scrivendo proprio adesso, esiste un brano che rappresenta il tuo lavoro?» [13/12/2015 11:04]. «Floridada. Singolo out 2 settimane fa dal nuovo album in uscita a febbraio della band Animal Collective. Sentila tutta, è da sballo. Ciao e grazie» [13/12/2015 12:31].
In collaborazione con ARTWORT
Foto di Marco Rapaccini (Officine Fotografiche Roma)