Il mondo si divide in chi considera gennaio l’inizio dell’anno e chi invece prende settembre come punto d’incomincio, attitudine figlia di quella bella vita che si faceva da studenti. Per me il nuovo anno inizia dopo l’estate, a settembre c’è il mio compleanno, a settembre si fanno bilanci e buoni propositi. A settembre Roma è un crocevia di nuovi inizi e nuovi incontri.
E a settembre, nel turbinio delle attività in fermento, si svolge anche un festival che da dieci anni si propone di creare una comunità di artisti, pubblico e operatori, che sappia osservare, interagire, dialogare attorno a tutto ciò che significa performance, nel panorama italiano e in quello internazionale. A settembre, inizia Short Theatre.
Il festival Short Theatre si declina in mille sfaccettature e offre altrettante occasioni di approfondimento. È questa la sensazione che ho avuto dall’intervistare tre persone che sono tra i responsabili della sua genesi: Fabrizio Arcuri, ideatore e direttore artistico; Roberta Scaglione, che si occupa della direzione amministrativa; Francesca Corona, direttrice organizzativa e curatrice dei progetti internazionali.
«Prima abbiamo fatto diverse azioni preparatorie, come fossero eventi pilota, che ci hanno permesso di capire quale fosse la formula più interessante per noi e che senso avesse essere operatori culturali a Roma», racconta Roberta. Lei e Fabrizio si sono incontrati molto presto nelle loro carriere, trovando affinità e sintonia nella direzione della ricerca teatrale e performativa che volevano intraprendere. Così come spiega Fabrizio: «Mi è sempre interessato occuparmi di costruire dei percorsi artistici e delle visioni per il pubblico che non fossero solamente degli spettacoli. La prima collaborazione con Roberta è avvenuta nel 1996, quando abbiamo costruito insieme Extra Ordinario, un evento che ha portato a Roma una ventina di compagnie di teatro-danza e performance».
Da lì la riflessione sullo stato dell’offerta culturale italiana, e romana in particolare, è cominciata: «Era un periodo molto depresso dal punto di vista culturale», racconta Fabrizio, che ha in sé la doppia anima del teatrante e dell’organizzatore, «ma eravamo giovani e volevamo occuparci di questo: ci siamo chiesti quali fossero i vuoti e le lacune che dovevano essere colmate». Dopo alcuni anni e grazie a una serie di incontri fortuiti con altre compagnie nel territorio italiano, Fabrizio e Roberta si rendono conto che effettivamente qualcosa si muove nell’underground artistico, che esiste una sorta di “new wave” senza padri di riferimento, ma con una grande voglia di fare e una mordente necessità di introdurre energia nuova nel sistema. Nelle parole di Fabrizio rivive lo slancio di quegli anni: «A un certo punto questo nostro essere fuori da qualunque giro ci ha dato sufficiente ingenuità e sfacciataggine per andare dal direttore del Teatro di Roma, che allora era Giorgio Albertazzi, il quale ignorava completamente chi fossimo, per chiedergli in maniera molto diretta e molto semplice di finanziarci il progetto di un festival».
La risposta di Albertazzi appare lampante, dato che dal 2005 Short Theatre ha iniziato la sua avventura e sembra lungi dal terminarla. Nasce il festival e la prima esigenza che vuole soddisfare è quella di mescolare generi e pubblici. Come racconta Fabrizio: «La vocazione originale è stata proprio quella di abbattere le barriere tra le varie discipline. Adesso ne parliamo con grande naturalezza, ma allora non c’era nulla che se lo ponesse come obiettivo».
È in questo momento che alla storia di Short Theatre si interseca quella di Francesca, che così si racconta «Per me era molto chiaro che volevo lavorare in teatro, ma non era molto chiaro in che posizione». Il caso però ha voluto che si trovasse a collaborare con Roberta proprio quando il festival veniva lanciato e da allora sono cresciuti insieme. «Man mano che Short Theatre si strutturava – prosegue Francesca – aveva il respiro per poter pensare a un ampliamento internazionale, sia dal punto di vista della programmazione, sia per quanto riguarda il posizionamento in una chiara geografia di festival che si occupano di contemporaneo in Europa».
E crescendo e strutturandosi si ampliava anche lo staff che partecipava a realizzare Short Theatre. Rispetto a Fabrizio, Roberta e Francesca ovviamente l’équipe del festival è fatta di molte più persone, che durante l’anno seguono tragitti professionali paralleli o anche intersecanti, ma che ogni anno prima dell’estate si ricompattano e riassemblano per creare insieme una nuova edizione.
Creare, una parola non casuale, perché Roberta e Fabrizio hanno un’idea ben precisa di cosa si celi dietro la realizzazione di un festival come Short Theatre «Un nostro motto è che anche l’organizzazione è un atto creativo», chiarisce Roberta. E Fabrizio la segue: «Sì perché risponde alle stesse logiche. Come quando fai uno spettacolo: 1 + 1 non fa mai 2, 1 + 1 deve sempre fare 3. E quel “3” è appunto la vita dello spettacolo che prescinde dai singoli elementi che hai messo insieme. Anche il festival è così: ognuno aggiunge la sua parte e se tutto insieme nell’amalgama diventa 3, allora vuol dire che ha funzionato!».
Uno degli elementi della amalgama è senz’altro il tema che accompagna ogni anno l’edizione di Short Theatre. O meglio, loro preferiscono chiamarlo sottotitolo, o una prima battuta di un dialogo con gli spettatori: «È Fabrizio che lancia il sottotitolo – spiega Francesca – a volte arriva molto prima dell’inizio del festival, alle volte tardissimo. E la drammaturgia del festival va in due sensi: ci sono occasioni artistiche che fanno esplodere quel tema e altre che non hanno di per sé una riflessione centrata su quel sottotitolo, ma poi messe in relazione a tutto il contesto la acquisiscono. C’è anche una drammaturgia a posteriori, non intenzionale». Fondamentali poi sono le diverse chiavi cui il tema viene declinato, cioè non solo in ambito performativo. Nelle parole di Fabrizio: «Significa scegliere un argomento con tutta la sua possibilità di essere tentacolare e poi non andare solo a trattarlo in termini scenici, ma invitando anche filosofi, politologi, sociologi».
Perché una lettura di ciò che sia Short Theatre non può prescindere da questa sua dimensione sfaccettata, che si fonda proprio sull’offerta collaterale che accompagna la presentazione degli spettacoli. L’idea alla base rimanda a quel voler mescolare interessi e vocazioni del pubblico, cosicché le attività collaterali diventino spina dorsale di tutto il festival. Come spiega Roberta: «Il festival prende vita solo e semplicemente attraverso tutte le azioni collaterali: gli incontri con artisti o con intellettuali di altre discipline, i laboratori, i seminari, i convegni. E il tema centrale serve appunto a costruire tutta questa offerta, che chiamiamo “collaterale”, ma che in realtà è l’anima del festival».
La particolarità di Short Theatre risiede anche nei luoghi che ha saputo abitare. Tutto è iniziato al Teatro India, proprio per mostrare come quel luogo sarebbe potuto essere, dato che nelle intenzioni di Mario Martone nasceva con una forte vocazione di spazio polivalente. Dopo alcuni anni al Teatro India, Short Theatre ha avuto l’occasione di sdoppiarsi, conquistando per tre edizioni anche la Pelanda del Macro. Negli ultimi anni, eccetto alcune puntate speciali al Teatro Argentina, è rimasto solo lo spazio della Pelanda.
Lo spazio fisico dove si realizza il festival non è una scelta accessoria, perché influenza incredibilmente la realtà stessa di Short Theatre. Come racconta Francesca: «Un festival tutto concentrato in un luogo ha la forza di un varco, nel momento in cui si accede. Quando inizia Short Theatre per me è creare un pezzo di mondo come lo vorrei. Non solo per noi, ma tutte per le persone che rispondono all’invito». E le persone a Short Theatre vengono, vengono in tante, 11.000 in due settimane nell’ultima edizione, a dimostrazione che quello di Francesca è un sentimento condiviso.
Chi va a Short Theatre ci trascorre facilmente diverse ore, diventa un luogo dove riunirsi, dove incontrarsi, prescindendo dalla singola performance che si è venuti o meno a vedere. Si crea una comunità temporanea forte, a cui va prestata la massima attenzione. «Ci siamo interrogati fin dal primo anno sul rapporto con lo spettatore», conferma infatti Francesca.
Per tanti anni a indagare l’interazione tra pubblico e performance è stato Giorgio Testa, filosofo e pedagogo, che con la sua Casa dello Spettatore ha curato una serie di percorsi e di visioni all’interno di Short Theatre. «L’approccio di Giorgio Testa si affida a un punto di vista da studioso, didattico-pedagogico – spiega Fabrizio – così a un certo punto abbiamo pensato che ci fosse bisogno di esplorare anche un altro aspetto». E così dal 2015 è cominciata una nuova ricerca, parallela e complementare a quella di Giorgio Testa, che si fonda su opposti presupposti. Come racconta Francesca, l’idea di questa indagine è «relazionarsi all’operazione artistica con uno sguardo assolutamente laico, senza leggere nulla, senza sapere da dove viene quell’artista, mettendo al centro solo la questione della percezione». La riflessione è affidata ad artisti che hanno collaborato con Short Theatre e che nei loro lavori già dimostravano interesse per la relazione con lo spettatore: nel 2015 il primo a inaugurare questo percorso è stato Joris Lacoste, nel 2016 sarà la volta di Lotte van den Berg e infine nel 2017 toccherà a Ivana Müller.
Questo desiderio di approfondire anche aspetti che a un primo sguardo potrebbero sembrare marginali, racconta molto dell’essenza più profonda di questo festival. «Questo cercare di andare oltre, di non accontentarsi e di investire su una cosa apparentemente invisibile, ma strutturale per chi vive il festival, è una cosa molto Short Theatre» sorride orgogliosa Francesca. E aggiunge Fabrizio: «È qualcosa che mette radici, e come tutte le radici sta sottoterra, per cui non è visibile, ma fondamentale».
Dieci anni sono un numero che invita a fare il punto, a chiarire direzioni e prospettive. Quando Short Theatre è nato aveva una sua dimensione del qui e dell’ora, non si sapeva se sarebbe stata un’esperienza ripetibile. Ma è stato concepito con uno sguardo preciso, che a partire dal presente è sempre proiettato sul futuro. Allora come sarà Short Theatre tra altri dieci anni? Non si può sapere, perché, come spiega Fabrizio, «una delle caratteristiche più importanti del nostro agire è quello di lasciarci attraversare da tutto quello che all’improvviso ci sembra vitale, necessario e che ci sposta, ci scompone, ci rimette in discussione».
Foto di Marco Rapaccini (Officine Fotografiche Roma)