Sofia Gnoli | BELLAGENTE 2016
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Sofia Gnoli | BELLAGENTE 2016

Raggiungo Sofia Gnoli nella sua casa di Rione Monti, lì dove una finestra si apre sul selciato dei Fori imperiali e ai margini del grandangolo il Colosseo e il Vittoriano fanno capolino. Ho il fiato corto per la fretta e alla fine delle scale, quando incontro i suoi occhi verdi, non vedo l’ora di chiudere […]

Raggiungo Sofia Gnoli nella sua casa di Rione Monti, lì dove una finestra si apre sul selciato dei Fori imperiali e ai margini del grandangolo il Colosseo e il Vittoriano fanno capolino. Ho il fiato corto per la fretta e alla fine delle scale, quando incontro i suoi occhi verdi, non vedo l’ora di chiudere la porta e con essa le ombre lunghe di un Gennaio freddo e piovoso. L’appartamento è accogliente, i soffitti alti sono raggiunti da librerie che s’inerpicano, bianche e ricolme. Alle pareti si notano subito libri, tanti libri. Libri ovunque. Pubblicazioni d’arte contemporanea dalle copertine massicce e lucide mi strizzano l’occhio accanto a volumi di moda, narrativa e riviste. «Entra, vieni. Abbiamo i minuti contati perché stasera ho una cena – mi dice, mentre si avvia verso la cucina, un sugo sul fuoco e una bottiglia di buon vino a sorridere sul tavolo – la stappo e brindiamo?».

sofiagnoli

Un calice di bianco a testa e l’atmosfera si scioglie in una chiacchierata che non avrei mai pensato più informale. Nel largo salotto della sua casa, Sofia Gnoli si accomoda al capo di un elegante divano bianco: non è più la giornalista, la storica della moda, la professoressa, il nome sparisce e appare la fisicità sinuosa di questa donna magnetica. È un gatto in attesa, vigile ma sornione, le lunghe gambe accavallate si dondolano e sembrano voler dire come del gatto la coda. Il bicchiere è un gingillo sul quale rincorrere le mani. Insieme ripercorriamo le tappe della sua formazione alla ricerca delle radici del suo interesse per la moda. «Sono sincera, quando dopo il liceo mi ritrovai a dover scegliere una facoltà universitaria non è che avessi una gran voglia di studiare. Mio padre mi spingeva a studiare storia dell’arte perché è affascinante e in famiglia l’arte e la letteratura si sono sempre respirate tantissimo». Il pittore Domenico Gnoli, zio di Sofia, per esempio ha raggiunto il successo per aver declinato il gusto della pop art per gli oggetti quotidiani in chiave tutta europea. Ha dipinto grandi opere in cui il dettaglio di tessuti, abiti, fogge, acconciature, sconvolge il realismo vivo, straniandolo. «Immaginavo che dopo una facoltà in storia dell’arte uno potesse inventarsi qualcosa, un lavoro, forse non far nulla – ride leggera – ma poi studiando mi sono appassionata alla storia, scegliendo di fare molti esami e al momento della tesi mi illuminai all’idea di farla proprio in storia della moda. All’inizio tutti mi guardavano come una pazza perché allora non esisteva moda all’università. Giuliano Procacci, il professore di storia contemporanea a cui chiesi la tesi si interessava di tutt’altro. Cosa poteva farsene, lui che studiava Machiavelli, le classi sociali del XX secolo, il muro di Berlino e la globalizzazione, di un’allieva interessata ai zatteroni di Ferragamo?». C’è una leggerezza diffusa in tutta la persona di Sofia Gnoli, una naturale predisposizione all’allegria e all’agilità mentale che però non esclude la concretezza e la volontà: «Nonostante la perplessità generale, mi sono messa di buzzo buono e ho scritto una tesi sulla moda autarchica, che successivamente è diventata anche un libro. Proprio negli ultimi tempi sono tornata sull’argomento e sto compiendo dei nuovi studi per un volume sulla moda e il fascismo in Italia che uscirà entro la fine del 2016». Mi racconta che l’idea di una tesi in storia della moda le è venuta perché le sembrava divertente e allora le domando che parte abbia il divertimento nella sua vita e nel suo lavoro, lei risponde decisa e frizzante: «Divertirsi è fondamentale. L’amore per il divertimento mi ha sempre ispirata; il divertirsi ovviamente a volte è stato secondario. Può essere strano, ma quando ho studiato, ai movimenti pacifisti preferivo lo stile di Fernanda Gattinoni, alla Russia del 1917 i costumi di scena dei film hollywoodiani degli anni ’30, il cosiddetto filone dei “telefoni bianchi”».

Quello di Sofia è un approccio elementare eppure sofisticato, confidenziale quasi. Con confidenza allora azzardo una domanda sull’infanzia e sui desideri. Punto al bambino che è dietro il personaggio per cercare di scavare in una personalità conclusa, puntuale, in un’immagine pubblica consolidata.: «Da bambina? – ride tanto e di gusto – Non saprei. Forse ero un po’ capricciosa perché figlia unica (in seguito avrei avuto un fratello), figlia di genitori che litigavano e che poi si sarebbero separati. In fondo ero una viziatella. In effetti già mi piaceva tantissimo la moda. Vuoi vedere una foto?». Si alza e apre il cassetto di uno scrittoio antico e tira fuori delle foto che la ritraggono molto piccola, sorridente e ingioiellata con orecchini voluminosi e bracciali, un fiore in testa: «da piccola mi arrabbiavo molto se mia madre non metteva le gonne, se non esprimeva cioè la sua femminilità attraverso l’abbigliamento. Anche in questo ero capricciosa e impaziente. Era esattamente il tipo di capriccio che nasce dall’impazienza, dal desiderare fortemente di possedere un qualcosa nell’immediato. Di natura ho mantenuto questo carattere, anche se ho levigato i modi alla fine tendo a prendermi ciò che voglio».

Sono passati tre anni dalla pubblicazione dell’ultimo libro di Sofia Gnoli, che ha scelto un titolo semplice e tautologico: Moda racconta, infatti, le tappe fondamentali del fashion da Charles Frederich Worth, primo sarto della storia a non essere più identificato come sarto ma come creatore di fogge, fino alle tendenze più contemporanee. «Scrivendo Moda, ho fatto una scelta ben precisa. Non volevo che fosse solo un  manuale sulla storia del costume, dedicato ad esempio ai miei studenti dell’università o dello IED (per quello già avevo scritto anche The Origins of Italian Fashion), volevo che fosse una ricostruzione alleggerita nei passaggi, meno noiosa e più fruibile. L’idea era scrivere per il maggior numero di persone, rivolgermi a tutti coloro che sono interessati alla moda e alle sue sfumature storiche. Per farlo ho cercato di inserire molti aneddoti che potessero divertire il lettore. In fin dei conti ho scritto per i curiosi».
Le chiedo se tra gli episodi raccontati ce ne siano alcuni a cui è più legata e come ha operato nella scelta, nella selezione tra i tanti conosciuti, quali sono gli aneddoti dal più forte valore storiografico. «Ci sarebbero molti esempi da fare, il libro per ovvie ragioni ne contiene molti ma comunque accuratamente selezionati. Mi piace ricordare alcuni personaggi che il tempo ha purtroppo dimenticato, come Gabriella di Robilant, la prima in Italia a creare una moda sportiva, in concorrenza alla tendenza d’oltralpe personificata da Coco Chanel. Un passaggio importante è quello in cui si racconta della nascita dell’alta moda italiana, quando dopo secoli si riesce a spezzare l’egemonia francese e fioriscono grandi creatori come Salvatore Ferragamo, definito il “calzolaio dei sogni” e che ha creato dal nulla la moda delle calzature, o Roberto Capucci, di cui per esempio racconto di un carteggio avuto con Yves Saint Laurent».

Il Novecento è stato effettivamente un secolo di enormi cambiamenti per l’immagine della donna. Allora chiedo a Sofia quali sono i passaggi di testimone più importanti. «Nella storia della moda femminile, il secolo si apre con una grande rivoluzione, forse la più grande mai avvenuta. Alla fine del primo dopoguerra e dopo secoli di pudori la donna scopre le gambe. Il motivo è chiaramente storico. Con gli uomini al fronte, le economie nazionali dei paesi coinvolti non possono evitare di impiegare le donne come lavoratrici, portandole a svolgere mansioni prima riservate solo agli uomini e sconvolgendo la tradizionale divisione dei ruoli tra i sessi. E così il lavoro fa nascere l’esigenza di un abbigliamento più pratico, meno ingombrante. Paul Poiret, grande creatore e innovatore, elimina il busto che a lungo aveva costretto la femminilità a striminzirsi e costringersi in movimenti poco naturali, Jean Patou e Coco Chanel, vestono (o svestono) la donna in maniera comoda; il primo le dona colori sobri, essenziali, la seconda lancia la “moda povera” e rivoluziona lo stile, scoprendo ciò che era nascosto e usando la maglia di jersey, materiale fino ad allora usato solo per la biancheria». Non a caso proprio Chanel amava ripetere che «le donne sono sempre molto vestite e per questo non sono mai abbastanza eleganti» e con grande semplicità: «Chanel ha cambiato tutte le carte in tavola, ha inaugurato ciò che negli anni ’20 sarà la nascita e l’affermazione della donna moderna».

Mentre conversiamo ho il libro di Sofia e lo sfoglio insieme a lei soffermandomi sull’importante corredo fotografico proposto. Ferragamo piegato a terra in mezzo a decine di forme di scarpe delle sue clienti, su ognuna un nome: Sofia Loren, Franca Valeri, Duchessa di Windsor, Anna Magnani. Tra le sue mani la forma dei piedi di Paulette Goddard. Ha la faccia un po’ tozza da bracciante del Sud, un mezza espressione gli increspa la pelle e crea delle fossette. Con Sofia Gnoli giriamo le pagine, il libro ora sembra quello della storia infinita, pronto a risucchiarci nel mondo fantastico delle creazioni del passato. Ci soffermiamo a lungo su un’immagine del 1951 di Irene Brin immortalata nel suo appartamento romano e penso agli strani parallelismi del caso. La giornalista del passato e la giornalista del presente. Nell’immagine la Brin si slancia in mezzo ai mobili del suo salotto, la posa è plastica con le braccia e le mani a puntellare la sua silhouette magnifica, lo sguardo fiero rivolto altrove. Sofia Gnoli nel libro la descrive con le parole dell’amico Indro Montanelli: «Ci sono in giro molte fotografie di Irene Brin, nessuna somiglia all’altra, c’è un’Irene Brin bianca, diafana e trasparente come un guanto di cellophane, e ce n’è un’altra bruna come un’ala di corvo. Ce n’è una rotonda come una quaglia; e ce n’è un’altra gotica, sottile come un serpente. L’Irene bionda parla, si veste, e perfino pensa in maniera molto diversa dall’Irene bruna», mentre a voce ne parla come di una maestra di giornalismo, la cui storia professionale e il suo stile – «preciso, asciutto e sobrio» – sono stati di grande ispirazione. Domando allora a Sofia chi nel suo immaginario riveste il ruolo di maestro, di guida, fonte di ispirazione: «proprio quando ero abbandonata a me stessa nella scrittura della tesi, andai all’Accademia di Moda e Costume qui a Roma. In effetti dovevo sembrare piuttosto disperata. Non sapevo a chi chiedere informazioni, dove cercare volumi. All’inizio degli anni ’90 non solo non c’era una facoltà, ma erano davvero carenti anche i testi da poter consultare. Figurarsi… quelli sono scarsi ancora oggi, immagina allora! Dall’Accademia mi indirizzarono a Bonizza Giordani Aragno, una grande storica della moda a cui sono davvero molto legata. Bonizza mi aprì non solo la sua casa, ma mi mise a disposizione la sua biblioteca personale».

Parlare di moda, descriverla, criticarla. Farlo a Roma. Mi domando che fascino abbia la Città Eterna che in Italia cede il primato del settore moda ad altre città, come le più ovvie Milano e Firenze: «Sono innamorata di Roma. Sento il bisogno di vivere il suo caos creativo, ma anche di fuggirne. Dato che sono cresciuta un po’ in città e un po’ in campagna, vicino Bracciano, dove ora vive mio padre, ho anche bisogno di fuggire qualche giorno a settimana lì, dove lavoro nel mio studiolo nel quale riesco a concentrarmi e scrivere. Di Roma mi piace tutto, come fare a non essere affascinati dal Palatino, Rione Monti quando non è così tanto turistica, piazza Farnese! Mi piace Roma perché è molto varia, è vero le manca quell’aspetto metropolitano di Milano ad esempio, ma in una sola camminata puoi imbatterti in una chiesa barocca e nell’architettura razionale dell’Eur, il realismo disincantato della Garbatella e di Testaccio, i larghi parchi come Villa Pamphilj e i ciottoli dell’Appia Antica. Roma ha quell’atmosfera elettrica e carica di sorprese in cui può succedere di tutto e anche respirare moda perché dopotutto, come diceva Chanel: “la moda non esiste soltanto nei vestiti; la moda è nell’aria, è il vento che la porta, la si presagisce, la si respira, è in cielo e sulla strada, è dovunque, dipende dalle idee, dalle usanze, dagli avvenimenti”».

 

Foto di Marco Rapaccini (Officine Fotografiche Roma)

 

Maria Elena Di Vincenzo
È nata a Campobasso, a voler dimostrare che il Molise esiste. Si è laureata a Bologna con una tesi su Pasolini e la Scuola di Francoforte. Legge Marx, ama il Giappone e François Truffaut, adora il vintage e le chincaglierie. Scrive di moda e arte.
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