Com’è annegare nel Mediterraneo? Come avviene e cosa succede a chi subisce questa esperienza? Me lo son chiesto quando mi è diventato chiaro che la percezione pubblica su questo fatto è ben più che perfettibile. E lo è per un motivo semplice, l’annegamento è difficile da raccontare e da immaginare.
La vicenda del piccolo Aylan, annegato e ritrovato sulle coste turche, è stato forse il vero indicatore della mancanza di empatia da parte dell’occidente. Prima della foto che lo ritraeva senza vita, nemmeno la tragedia del tre ottobre 2013, con 366 morti accertati, era riuscita a scuotere l’opinione pubblica del primo mondo. Lontano dagli occhi lontano dal cuore.
L’empatia da parte dei salvi verso coloro i quali sono invece nella condizione di poter essere salvati è uno degli aspetti più difficilmente comprensibili delle guerre. Se i serbi avessero saputo cosa succedeva a Srebrenica, come sarebbe cambiata l’opinione pubblica? Si sarebbe evitato il massacro? Se i muri di Auschwitz e Birkenau fossero stati trasparenti, se l’opinione pubblica avesse saputo, quanti morti in meno avremmo oggi sui libri di storia? Se avessimo una costante comunicazione efficace, capace di raccontare le condizioni e i sentimenti di chi è potenzialmente aiutabile, da noi stessi o dai nostri governi, quanto cambierebbero gli scenari storici?
Ci si racconta spesso di come alcuni avvenimenti storici e sociali abbiano “trasformato in bestie incapaci di pietà” enormi fette di popolazione. Di come ci siano dei limiti, in dati momenti storici, oltre i quali si è – o si è stati – immuni alla pietà, all’empatia e al buon senso. Ma forse, oltre l’efferatezza e l’abitudine all’indifferenza dovute a chissà quali accidenti, c’è una narrazione dei sentimenti del nemico, del soggetto distante o in difficoltà, che manca completamente o manca di umanità essa stessa. Se la popolazione serba si fosse trovata a Srebrenica, lì insieme a Ratko Mladić, in quanti si sarebbero scagliati in difesa dei loro vicini di casa, colleghi e conoscenti musulmani? Probabilmente in tanti. Non saranno proprio questi racconti a mancare nell’Europa di oggi, quando si tratta di migliaia di persone che muoiono annegate?
Sulle vere e proprie prigioni che bloccano i migranti in Libia già dall’era Gheddafi ci son stati molti servizi giornalistici. Inviati sul posto hanno provato a filmare e descrivere la realtà della condizione umana all’interno di quei centri di raccolta, e spesso di tortura, che sono per moltissimi migranti una tappa obbligata del viaggio che conduce i più fortunati in Europa. L’annegamento, insieme al rapporto dei migranti col mare, non ha goduto della stessa attenzione: la percezione pubblica non può che esserne stata condizionata. Ciò che succede quando si è stipati nelle carrette del mare è descritto con precisione dagli speciali delle testate italiane e perfino da quelle oltreoceano, ma cosa avviene quando il barcone collassa e quelle migliaia di persone si trovano in balia delle onde al largo delle nostre coste? Cosa succede al corpo, ma soprattutto cosa succede alla psiche di chi subisce una tale esperienza? È difficile raccontarlo perché il mare permette al massimo un’asettica ricostruzione grafica, ed è raro che le telecamere siano presenti all’atto dell’annegamento o dello scampato annegamento dei migranti. Ciò che si vede è per lo più un’enorme nave della marina militare che si avvicina a un porto del sud Italia, mentre la voce fuoricampo ci informa sul numero di vittime a bordo. Dei semplici numeri avvolti in coperte termiche che sembrano alluminio per alimenti.
I numeri e le statistiche sono una risorsa immensa per i mezzi di informazione: descrivono dimensioni, proporzioni, esodi, exit poll, rivoluzioni via Twitter e carestie fino all’incidenza del doping nello sport. Ma le statistiche e le infografiche hanno un’altra caratteristica: quella di limitare l’empatia e le emozioni nel fruitore. De-umanizzano. Chi non ricorda la noia provata davanti ai libri di storia che snocciolavano guerre una dopo l’altra? Sei milioni di morti, undici milioni di morti, duecentomila morti e così via – alla fine della lezione non viene da immaginare duecentomila volti. Chi mai può immaginarle, duecentomila persone? Quanto spazio occupano? Poi succede che poche lezioni dopo la stessa professoressa, parlando della stessa guerra, proietti in classe Schindler’s list e lì, sebbene i visi siano molti meno che il numero sul libro, l’empatia prenda a funzionare e gli studenti rimangano per molti minuti in silenzio assoluto dopo i titoli di coda.
Ma se quei momenti così tragici sono così difficili da raccontare, indipendentemente dalla volontà dei media, come riuscire a immaginarli? Un telegiornale non può certo scrivere un romanzo a notizia; un Tg, come anche un quotidiano o un magazine, deve riassumere. È pacifico, è comprensibile. E allora come si fa?
Per provare a farsene un’idea precisa si dovrebbe fare ciò che si è fatto quando l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica era focalizzata su un altro confine a sud dell’occidente, Guantanamo. In quell’occasione, ci si è chiesti come avvenga e cosa sia l’annegamento in relazione al cosiddetto waterboarding.
Per chi si fosse perso l’enorme scandalo delle torture sotto l’amministrazione Bush, il waterboarding è la pratica di annegamento controllato che viene inflitta ai carcerati di Guantanamo durante gli interrogatori.
Il giornalista di Vanity Fair Cristopher Hitchens, cinquantanovenne sui generis, di sinistra e famoso per il suo stile decisamente “polemico”, accettò di sottoporsi a questa pratica per poterla raccontare. Giornalisticamente, l’esperienza in prima persona è l’unico approccio davvero completo, l’unico modo per rendere più veritiero possibile il racconto di una pratica, un’esperienza o una vicenda. La maggior oggettività possibile ricercata attraverso l’esperienza diretta, e quindi soggettiva per eccellenza.
Questa nel video è l’esperienza di Hitchens. Qui invece l’articolo con il quale Hitchens racconta il waterboarding.
Non ci sono molte vie per descrivere alcuni fatti che accadono, se non farne esperienza diretta. Com’è sottoporsi all’alimentazione forzata? (Pratica utilizzata, di nuovo, nel carcere statunitense di Guantanamo e motivo di forti polemiche). Oppure: com’è arrivare in Australia su un barcone proveniente dall’Indonesia con altre decine di profughi? Eppure comprendere proprio questi fatti, queste situazioni, farebbe la differenza all’interno dell’opinione pubblica e dei dibattiti politici. Il dibattito attorno all’alimentazione forzata nelle carceri ha subito uno strattone quando Mos Def, famoso rapper statunitense, si è sottoposto volontariamente a questa pratica.
E ci sono state reazioni, sebbene in direzioni opposte, anche quando due giornalisti freelance – Joel van Houdt e Luke Mogelson – hanno attraversato insieme ai migranti il tratto di mare che separa l’Indonesia dall’australiana Christmas Island, dando alla luce il bellissimo reportage The Dream Boat.
Oliver Laughland ha scritto sul Guardian riguardo il pericoloso viaggio dei due giornalisti: «What is mostly lacking in reporting around asylum issues in Australia are the voices of asylum seekers themselves» (in italiano: ciò che più manca, nelle notizie sui richiedenti asilo in Australia, sono proprio le voci dei richiedenti asilo).
Le parole e le foto del loro reportage hanno probabilmente, almeno in minima parte, colmato questa mancanza.
Ma come scatenare l’empatia sugli avvenimenti che difficilmente si possono sperimentare in prima persona? La narrazione è la via percorsa dai meccanismi storicizzanti, ed è la stessa narrazione, fatta di ritmo e soggettività, che può aver presa su noi e le nostre emozioni.
C’è però il fatto che le narrazioni scadono, sono storie di singoli e diventano storie di simboli. Proprio come il piccolo Aylan.
Scrivendo questo pezzo ho pensato allora valesse la pena di provare a raccontare l’annegamento con le parole di chi ne capisce le dinamiche anatomiche, le temperature che vengono percepite, gli stati psicologici provati. Perché il punto di vista medico, forse, a volte, può essere considerato la giusta misura per raccontare queste storie: non è la narrazione in soggettiva di un singolo annegamento e non è l’elenco asettico di un numero enorme di persone senza nome.
Ho scelto di intervistare dei medici: nello specifico, una pneumologa e un medico legale. Persone capaci di immaginare quello che succede a quei corpi, ma anche quello che succede a quelle menti. Le sensazioni indotte da quella condizione ambientale. Per esempio: quali sono le fasi e i gradi di coscienza attraversati dal soggetto che annega?
Per partire dall’inizio ho chiesto al dottor Lalla, medico legale, cosa succede al corpo e alla mente quando si annega. E già la sua premessa mi ha colpito molto: mi ha descritto l’annegamento come la «più terribile tra le morti per asfissia, per le fasi che sopporta il soggetto». Non me lo aspettavo.
Chiedo i dettagli e, ancora, da profano, rimango stupefatto da quanto un avvenimento del genere sia strutturato e funzioni con un iter così preciso. Il dottore mi spiega infatti che «l’annegamento ha delle vere e proprie fasi, delle costanti».
La prima fase è detta «di “sorpresa”, dell’ordine di alcuni secondi», ed è quella «dell’istintivo riflesso dell’organismo che, al contatto con l’acqua, cerca di immagazzinare l’aria nei polmoni, quindi a bocca aperta». Poi c’è la seconda fase: «di “resistenza”, quella del soggetto che, immerso, trattiene il respiro nel tentativo di impedire l’ingresso dell’acqua». Questa dura piuttosto a lungo, poco meno di un minuto.
La terza fase invece è detta “convulsiva” «perché i centri nervosi del controllo del respiro non sono ben ossigenati e inducono un affanno espiratorio cercando di liberare l’acqua dai polmoni. Compaiono intanto bradicardia, aritmia e rilasciamento degli sfinteri». Nella quarta fase c’è la cessazione del respiro, e non solo: si smette di sapere cosa ci succede e vengono a mancare i riflessi. Si perde coscienza.
Qui, dopo un solo minuto di conversazione col medico legale, mi sono reso conto che anch’io, che prima di quest’intervista ero così convinto della perfettibilità dell’opinione pubblica sull’annegamento, non avevo assolutamente idea di cosa fosse.
La fase finale, mi spiega il dottore, si chiama «fase del “boccheggiamento”, caratterizzata da movimenti terminali delle pinne nasali e delle labbra che saranno poi il preludio dell’arresto respiratorio e di quello cardiaco».
Di tutta la descrizione che mi è stata data dal dottore, le tempistiche sono forse l’aspetto che mi ha colpito di più. Un’eternità: in acqua dolce le fasi dell’annegamento durano dai 3 ai 5 minuti; in acqua di mare invece 6-8 minuti. Uno spettro di otto minuti, dei quali 4-5 in cui lo stato di coscienza rimane vigile, prima che la fine imminente lo sconvolga in maniera devastante. Chi poi avrà la fortuna di essere ripescato vivo dovrà fare i conti con un ulteriore fardello: il trauma con probabili ripercussioni a lungo termine, infatti, avviene già poco prima della terza fase, «quando non sono ancora comparsi i segni d’interesse neurologico e vi è ancora stato di coscienza».
“Adieu”, J W waterhouse.
Il dottor Lalla non mi ha risposto solo in qualità di medico legale: mi ha svelato di essere stato lui stesso vittima di un’esperienza simile.«Per fortuna, sono stato salvato prima della fase convulsiva, ma il ricordo di quella esperienza non mi ha abbandonato per anni».
Sì, perché la questione psicologica è importante. Gli shock possono essere enormi, e danni di questo tipo non vengono presi in considerazione da chi legge di sfuggita dell’ennesimo naufragio nelle acque di Lampedusa. Sebbene non siano conseguenze fisiche, rimangono come cicatrici in chi le ha vissute.
A questo proposito, ho chiesto al dottore se a suo parere l’opinione pubblica si sentirebbe più vicina a chi rischia la traversata del Mediterraneo se fosse cosciente di cosa significa davvero rischiare di morire di questa morte. La sua risposta, piuttosto secca, è stata «Sicuramente sì. Ma è, tuttavia, un’esperienza che non si può trasmettere, di difficile comprensione per chi non la vive in prima persona».
La questione della coscienza e quella del tempo sono, tra tutte le variabili dell’annegamento, le più interessanti. Perché ne va del grado di umanità di questa morte. Una morte che arriva in uno stato di incoscienza, come la morte durante il sonno, è per l’immaginario popolare una morte comprensibilmente “migliore”. Migliore perché accompagnata da una sofferenza minima, forse nulla. I tempi dell’annegamento, uniti alle condizioni di coscienza attiva per vari minuti, fanno di questo tipo di esperienza, al contrario, una delle più atroci. Sotto questa luce si capisce come mai il waterboarding e l’attenzione mediatica su di esso abbiano segnato l’amministrazione americana. L’annegamento provoca lo sfinimento e la sofferenza di una tortura. Essere coscienti che questo avviene al largo delle spiagge dove molti di noi passano le vacanze è qualcosa che stride particolarmente con l’idea stessa di Europa, e di vita e diritti nel nostro continente.
Proprio a proposito della questione della coscienza, ho chiesto dettagli al secondo medico che ho intervistato: la dottoressa Volpe, pneumologa. Mi ha spiegato che «Chi annega prova disperazione; sente perfettamente che sta annegando, impiega tutta la forza dei suoi muscoli per riemergere dall’acqua che lo sta soffocando perché per almeno tre-cinque minuti rimane cosciente, capisce che sta perdendo aria e sa bene che perdere aria è l’inizio della fine».
Eppure, penso, nemmeno una descrizione medica è davvero efficace nel fotografare un’esperienza del genere. Tanto meno è possibile farsene un’idea efficace attraverso le news. Il metodo utilizzato da Hitchens rimane forse il più valido: raccontare in prima persona eventi anche traumatici o pericolosi. E dove non è possibile o è troppo rischioso l’alternativa, semplicemente, non c’è.
Perché se l’empatia è la capacità di sperimentare la realtà soggettiva altrui senza perdere la propria personale prospettiva, allora non c’è empatia che tenga se manca di pena e dispiacere per l’altrui sofferenza. Di interesse per “l’altro”. E questo, chissà, magari è banalmente dovuto alla mancanza di ponti culturali Europa-Africa, al fatto che l’altro è troppo “altro”, ancora troppo distante perché l’Europa si senta in dovere morale di fare di tutto per impedire questo tipo di morte.