Cose del mese, aprile ’20 — Classic Edition
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Cose del mese, aprile ’20 — Classic Edition

Classici da leggere, ascoltare e vedere nel mese più speranzoso dell’anno.

Questa volta Le cose del mese mette da parte le uscite più recenti. In questo aprile così insolito abbiamo cercato conforto nei classici, (ri)leggendo, (ri)ascoltando e (ri)vedendo libri, dischi e film che hanno in qualche modo segnato gli aprili passati, o che hanno contribuito alla costruzione del nostro immaginario primaverile. Buona lettura.

 

Aprile è il mese più crudele

April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.

Che dire di questo incipit? Uno dei più celebri della letteratura anglofona. Aprile è tornato, con i suoi fiori, con le sue promesse, ma qualcosa non va. Perché è il più crudele tra i mesi? Vale forse la pena ricordarlo.

La Terra desolata (The Waste Land) è probabilmente il lavoro per il quale Thomas Stearns Eliot è più conosciuto. Il poeta americano naturalizzato inglese, reduce da un forte esaurimento nervoso, compose durante il suo soggiorno a Losanna con la moglie questi versi, che furono spediti all’amico Ezra Pound – “Il miglior fabbro”, al quale Eliot dedica l’intero poemetto – e da lui revisionati (a proposito, una volta un professore mi disse che «Eliot era impomatato e la Waste land gliel’ha scritta quasi tutta Pound»; ancora mi interrogo su questo fatto. E sullo statuto del termine “impomatato”).

La Sepoltura dei Morti (The Burial of The Dead) si apre sul ritorno della primavera, con una citazione dai Racconti di Canterbury (Canterbury Tales) di Geoffrey Chaucer, la prima delle innumerevoli che costelleranno l’intero poemetto e che lo renderanno una complessa Babele di voci, vive e non. In Gerontion maggio è depravato; qui aprile è foriero di crudeltà e non sembra esserci spazio per nessun genere di gioia, neanche per quella che nasce dal constatare il ritorno delle piogge primaverili, in Chaucer di buon auspicio. Nel mondo descritto dal poeta i personaggi preferiscono l’inverno, quell’inverno che «ci ha tenuti al caldo, coprendo / la terra con una neve di dimenticanza, nutrendo / una vita misera con tuberi secchi» (I, 5-7), anche se Madame Sosostris, famosa cartomante, beccherà un bel raffreddore.

‘T.S.’ Eliot con sua sorella e sua cugina.

Aprile risveglia i desideri sopiti, le speranze e le grandi domande ancora senza risposta dell’umanità. E allora non è forse meglio dimenticare e lasciarle dormire? Questo sembra suggerirci Eliot, in accordo con quel famoso proverbio che ci dice cosa è dolce fare adesso. È un’umanità che si rifiuta, non riesce a vedere che è in atto una rinascita e che dai corpi senza vita degli antenati può scaturire nuova vita. «Quali radici aggrappano, che rami crescono / su queste macerie? Figlio dell’uomo, / non puoi né dirlo né immaginarlo, perché sai solo / un mucchio di immagini frante» (I, 19-22). L’operazione di trapiantare passi per Eliot non è finalizzata a sfoggiare erudizione, ma a mostrare l’attualità del passato, che non solo non è morto, ma neanche è passato. Spesso i morti sono più vivi dei vivi. Dotate di un proprio potente significato e di un’intensa carica emotiva, le loro voci, ancora udibili, dialogano con il nostro tempo e prendono nuove accezioni.

Anche se T.S. Eliot ci dirà in seguito che la poesia non è la risposta possiamo cogliere l’occasione del ritorno di questo infausto mese — che come un idiota torna — per rimettere i nostri occhi (non ancora perle) su questi frammenti, con cui Eliot ha puntellato le sue rovine. [Giulia Scorsino]

 

Frightened Rabbit, The Midnight Organ Fight (2008)

In un’atmosfera tutt’altro che gioiosa e primaverile, il 14 aprile di dodici anni fa esce quello che è forse l’album più intenso, profondo e crepuscolare della band indie-folk di Glasgow Frightened Rabbit: The midnight organ fight.

Lungo quattordici tracce che assomigliano un po’ a un diario intimo, un po’ a delle lettere a un’amante, un po’ a una seduta psicanalitica, il cantante e autore Scott Hutchison racconta la sua lotta contro la depressione, i suoi problemi con l’alcol e il sesso, i suoi buoni propositi e le speranze di una ripresa.

Come racconta in un’intervista , l’espressione “lotta dell’organo di mezzanotte” è sia una perifrasi per descrivere l’atto sessuale, sia la metafora della sofferenza amorosa, che si manifesta con un dolore così lancinante da essere percepito anche fisicamente.

Un brano come Keep yourself warm descrive i tratti della sofferenza più profonda della nostra epoca: il mostro spaventoso della solitudine, l’abuso di sostanze («I’m drunk and you’re probably on pills»), il sesso come cura e compulsione («It takes more than fucking someone to keep yourself warm»).

Scrive Pitchfork: i Frightened Rabbit protrebbero essere una band scozzese come tante, con le loro chitarrine e senza basso, con un sound già sentito mille volte; ma l’urgenza e la potenza emotiva della scrittura di Scott, il suo profondo disprezzo per sé stesso, il suo scendere a patti con la sua mascolinità fragile, rendono questo album davvero unico nella sua potenza. Per questo, pur non essendo certamente i primi a raccontare la solitudine, il desiderio, il senso di vuoto dei nostri tempi, c’è qualcosa di più nelle canzoni di questo LP, che già dalle prime note si fanno strada nella testa per poi uscirne molto difficilmente. Insomma, un ascolto che vale la pena recuperare.

Otto anni dopo, sempre nel mese di aprile esce l’ultimo album dei Frightened Rabbit. Si chiama Painting of a panic attack e, come si può intuire dal titolo, dentro ci sono le stesse paure, gli stessi tormenti, gli stessi demoni che infestavano The midnight organ fight. A riascoltarlo oggi, sembra che Hutchison volesse lasciarci il suo testamento spirituale. Nel brano Floating in the forth di The midnight organ fight ci aveva rassicurati: «I think I’ll save suicide for another year». Invece, purtroppo, alla fine quel giorno è arrivato. Il 10 maggio 2018 Scott Hutchison ci ha lasciati, nel suo ultimo tweet l’invito ad abbracciare quelli che amiamo. Sarebbe così bello tornare a farlo, Scott. 

Il 12 luglio 2019 esce Tiny Changes: A Celebration of Frightened Rabbit’s ‘The Midnight Organ Fight’ nel quale tantissimi artisti omaggiano questo piccolo capolavoro e il suo tormentato autore. Lo trovate sul profilo Spotify del gruppo. This is the longest kiss, good night. [Valeria Marzano]

 

Petrarca

Un classico intramontabile della nostra letteratura scrisse un famoso sonetto sul ritorno della primavera.

Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.
Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;
et cantar augelletti, et fiorir piagge,
e ’n belle donne honeste atti soavi
sono un deserto, et fere aspre et selvagge.

Ciao Francesco!

 

Éric Rohmer, Racconto di Primavera

Il recupero di un regista o di uno scrittore del passato sta diventando una pratica particolarmente suggerita in questo periodo, e visto che stiamo entrando nella primavera, chi meglio di Éric Rohmer merita di essere riscoperto?

Probabilmente chiunque si sia accostato alla storia del cinema e abbia letto qualche passaggio sulla Nouvelle vague ha presente il nome di questo regista, colonna del gruppo dei Cahiers du cinéma. Peccato che rispetto ai più noti (e più grandi) Truffaut e Godard non goda della stessa celebrità, col rischio, talvolta, di restare nell’oblio (una situazione, per la verità, che lo accomuna ad altri autori del periodo: chi, ad esempio, ricorda più o cita un grande come Louis Malle?). Certamente, non tutti i suoi film sono stati capolavori, e quell’abbondante filmografia, anche se obbedisce a un preciso e inarrestabile desiderio di ricerca, di battere sugli stessi argomenti per costruire una sorta di opera unica dedicata a diversi momenti della vita umana, probabilmente ha qualche titolo di troppo; ma non per questo va dimenticato il contributo che ha lasciato al cinema a partire da quella straordinaria stagione anni Sessanta (il primo film, Il segno del leone, è del 1959, ma sarà distribuito solo nel 1962).

Una caratteristica singolare del suo lavoro è la divisione di molti suoi film in cicli ben definiti. Terzo e ultimo, quello che qui ci interessa, è Il racconto delle quattro stagioni, organizzato lungo quattro lungometraggi realizzati negli anni Novanta. Il primo è Racconto di primavera (1990). Non si tratta di decantare le bellezze della stagione in cui tutto torna a rifiorire, anzi. A Rohmer, qui come altrove, interessano i sentimenti, le mutazioni dei rapporti cui segue un possibile cambiamento, il gioco contraddittorio di emotività e scelte a cui gli esseri umani sono normalmente costretti. La protagonista, Jeanne, docente di filosofia, si trova a vivere senza il suo compagno, con cui è in crisi, e a fare la conoscenza di una persona che apre nuove possibilità alla sua esistenza. La stagione degli amori diventa la stagione delle possibilità, della fine delle relazioni, che può condurre a nuove strade narrative, incerte e sconosciute, come è normale che siano. [Massimo Castiglioni]

 

Oliver Stone, Ogni maledetta domenica

Venti anni fa, il 7 aprile del 2000 per la precisione, usciva nei cinema italiani Ogni maledetta domenica (Any Given Sunday), uno dei film sportivi più noti degli ultimi decenni, citato in qualsiasi contesto agonistico o in qualsiasi dimensione che richieda l’impiego di grinta ed energia.

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Moltissime le situazioni rimaste nell’immaginario, ad uso e consumo di un pubblico variegato, quello da stadio e quello più esigente; molti i monologhi o i dialoghi rievocati e utilizzati nelle circostanze più disparate (e disperate). La frase più citata, al punto da essere diventata quasi proverbiale, è probabilmente quella che dà il titolo al film: «Ogni maledetta domenica si vince o si perde. Resta da vedere se si vince e si perde da uomini» («On any given Sunday you’re gonna win or you’re gonna lose. The point is — can you win or lose like a man?»). A pronunciarla (o meglio, a tentare di pronunciarla, visto che viene sistematicamente interrotto) è Al Pacino, nelle vesti di Tony D’Amato, esperto coach della squadra di football dei Miami Shark che in un momento di grande difficoltà di risultati, e con una proprietaria invadente e arrogante, causa infortunio del titolare, scopre di avere in panchina un quarterback eccezionale: Willie Beamen (Jamie Foxx, al primo ruolo importante). I giorni che seguono l’imporsi di un astro nascente del football vanno di pari passo, tra scontri nello spogliatoio e nuove partite, alla decadenza di un allenatore che a questo sport ha dedicato tutta la vita e che sembra avviarsi, piuttosto malvolentieri, alla conclusione della sua carriera, non senza una certa quantità di rimpianti.

Dietro la macchina da presa c’è Oliver Stone, un regista che normalmente associamo a prese di posizioni critiche e polemiche nei confronti di importanti problematiche o di grandi momenti della storia statunitense (Platoon e Nato il quattro luglio sul Vietnam, ma anche JFK su Kennedy, Gli intrighi del potere — Nixon su Richard Nixon, i due Wall Street sui poteri finanziari, W su Bush Jr., World Trade Center, e più recentemente Snowden), che qui sceglie comunque un terreno non secondario nella vita americana: lo sport. In particolare il football, lo sport più spettacolare, colorato alla maniera di uno show e subordinato a logiche economiche e interessi che poco hanno di sportivo (come moltissime altre discipline, del resto). La dialettica dominante, oltre che tra passato e presente (allenatore e nuovo giocatore sfrontato, per non dire degli altri grandi senatori della squadra in procinto di ritirarsi), dovrebbe essere tra potere e sport (la presidentessa e l’allenatore), ma il film si sbilancia più sul secondo asse, e senza dimenticare il peso dominante del denaro e come certi valori agonistici rischino di essere soffocati da ciniche logiche economiche o da stili di vita presuntuosi e affettati, preferisce dare più spazio ai dubbi e alle tensioni (non senza un velo di retorica, bisogna ammetterlo) di quelli che sono semplicemente uomini di sport, con lo spirito rivolto alla lotta per la squadra e per la vittoria; non perché quella sia la loro vita, ma perché è proprio questo ciò che li tiene in vita. Siamo senza campionati in questo periodo. Un buon film sportivo può compensare piacevolmente l’assenza. [Massimo Castiglioni]

 

Massimo Volume, Stanze

Alessandro tiene un diario…
Giocatore per giocatore…
Non riesce a trattenere…
Passare la comunicazione…
Allora cerca di ricordare…
Una parte del mondo…
In Aprile. 

È il 1991 e ci troviamo in uno scantinato, a Bologna, dove si svolgono le prove di una band, composta da quattro elementi. Hanno a disposizione solo due vecchi amplificatori e per poter sentire bene sono costretti ad alzare tutto. «Massimo volume, alza al massimo volume», si dicono in continuazione.

Stanze, il disco d’esordio dei Massimo Volume, vede la luce nel 1993, per l’allora nuova etichetta indipendente Underground Records, dopo tre giorni di registrazione dal vivo su nastro, in uno studio nel quale spesso si registrava il liscio e che, dato questo fatto, con tutta probabilità non era preparato al Larsen, né tantomeno alle loro sonorità affini al noise.

Sarebbe forse un po’ ingiusto cominciare a parlare di quest’album confrontandolo con i successivi e valutandolo con il metro della maturità artistica, qualsiasi cosa essa sia. Non lo troviamo tra i preferiti del gruppo stesso, come ci dicono qui. Forse è però interessante menzionare che si trova al 18° posto nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre secondo Rolling Stone.

Questa la formazione all’epoca: Emidio Clementi, giovane e appassionato di scrittura, al basso e alla voce; Vittoria Burattini alla batteria e alla voce (scelta interessante che però non avrà repliche negli album successivi, quella di avere due voci); Gabriele Ceci alla chitarra e Egle Sommacal, che entra a sostituzione di Umberto Palazzo, quell’anno uscito per fondare Il Santo Niente. All’incisione partecipano su singoli brani anche Manuel Giannini e Vanessa Bravi, registrando rispettivamente chitarra e pianoforte. Giannini si occupa inoltre della produzione artistica.

Clementi scrive i testi, forse con una certa incoscienza. Ci parla di certi giorni vuoti e ripetitivi in ambienti chiusi; di gente che abita le case; di piccole epifanie della condizione umana e di suggestioni che arrivano la notte dalle pareti della camera, dalla vasca da bagno, dal film in TV o sfogliando un libro di poesie di Bukowski. Alessandro, ragazzo con problemi motori, tiene un diario nel quale riporta dettagli all’apparenza irrilevanti, che riempiono giornate e stanze. In quest’album la dimensione del tempo e quella dello spazio sembrano quasi unirsi, in ricordi, constatazioni e prefigurazioni; nel frattempo le piastrelle del pavimento diventano un ottimo interlocutore, tanto quanto il marito che non ti ascolta, conquistato dall’idea che i prossimi stivali che da tempo pensava di acquistare saranno proprio come quelli di John Wayne. Equilibri precari e statica solitudine rispetto al mondo, ma anche voglia di cambiamento e di riscatto, che si rivelano qui spesso elementi in un rapporto di tragica e insieme ironica contraddizione.

L’album si conclude con una citazione di Cinque Strade del cantautore Fausto Rossi, in arte Faust’O. Emidio riporta parlando – come sempre fa – anziché cantando, il testo del suo caro amico, al quale intitola un brano in Cattive Abitudini.

Da Cinque Strade:

Primavere inchiodate
Spazzate via
E questa voce su un disco che gira e gira
E non è neanche mia
Quanti giorni passati a fissare il cielo
Avrei potuto ammazzarti con una mano
Avessi avuto un motivo
Questi rami che crescono senza un dio
E questa voce su di un disco che gira e gira
E non è neanche mia.

Non è la sua.

[Giulia Scorsino]

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