Cose del mese | Febbraio ’19
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Cose del mese | Febbraio ’19

Libri, dischi e film che abbiamo letto, ascoltato o visto nel secondo mese dell’anno.

Edda — Fru Fru

Stefano Rampoldi, in arte Edda, ci aveva già deliziati nel 2017 con Graziosa Utopia, una piccola perla di canzoni d’autore, intima e corale al tempo stesso.

Questo suo nuovo album è invece una matura svolta pop, che concilia con elegante equilibrio arrangiamenti orecchiabili e testi — come sempre — sporchi, autentici, ombelicali. Il sesso è raccontato in modo esplicito, i ruoli di genere sono continuamente capovolti in un gioco che confonde, divertendoli, i più audaci e scandalizza i più conservatori. Pezzi più delicati e sentimentali come l’eponimo Edda seguono il provocatorio e sagace Italia gay, e Vela Bianca e Samsara fanno entrambi fatica ad uscire dalla testa una volta ascoltati. Nelle nove tracce di Fru Fru c’è di tutto, dagli arrangiamenti ispirati all’indie rock anni ‘90 ai riferimenti al pop più scanzonato (Abat-jour cita insieme Raffaella Carrà e La bamba dei Los Lobos), dalla morbosità del sesso a certi tormenti d’amore, dalla disforia di genere alla provocazione più blasfema: il tutto messo in musica con quella leggerezza con cui ci si presenta già dal titolo. Quest’album è vero indie pop: irruente come un adolescente ma non per questo prosaico, profondo come la musica d’autore ma ben arrangiato; assolutamente necessario e da ascoltare. (Valeria Marzano)

 

Cass McCombs — Tip of the Sphere

Quest’ultimo complesso album del cantautore girovago statunitense è insieme classico e sperimentale: lunghe tracce che omaggiano il rock anni ’70 e ’80 ma senza rinunciare ai suoni country-folk e jazz, e al piano-pop alla Elton John in Absentee. I testi da cantastorie raccontano di paesaggi rurali, passati coloniali e uomini soli, come quello di Sleeping Volcanoes di fronte ad uno scenario apocalittico. Gradevoli anche Sidewalk Bop After Suicide e Prayer for another day, non dispiace nemmeno il beat di American Canyon Sutra; ma un po’ noiosa per i non amanti del genere la lunga improvvisazione finale della traccia di chiusura Rounder.

Di certo si deve riconoscere a Cass di essere un grande artista poliedrico, mai banale e sempre in grado di rinnovarsi, ma non c’è dubbio che il precedente disco Mangy Love (2016) avesse un tocco in più per il fascino di certi suoni avvolgenti che Tip of the Sphere, invece, sembra non evocare. Un deciso nì. (Valeria Marzano)

 

C’Mon Tigre — Racines

Il nuovo disco dei C’Mon Tigre è un classico moderno. Racines è un disco che se fosse uscito dieci anni fa, o se uscisse tra dieci anni, scatenerebbe le stesse reazioni entusiastiche. Quello che il duo ha confezionato è un lavoro che unisce a riff (per lo più di chitarra) ipnotizzanti, degli arrangiamenti raffinatissimi che provengono da mondi musicali e geografici diversi. Dall’elettronica al jazz, dalla world music all’indie inglese prima maniera. C’è un po’ di tutto, amalgamato con una classe e una razionalità creativa che in pochi, pochissimi, possono vantare. Rispetto al loro esordio si sono affinati, smussando leggermente le sonorità più “punk” e lo-fi per lasciar spazio a quelle più sperimentali a cavallo tra l’afrobeat mescolato alle sonorità jazz e con dei suoni presi in prestito anche dall’hip-hop. Si sono presi il loro tempo tra un disco e l’altro (ben cinque anni), una tortura per i fan ben ricompensata da perle del genere. Un disco complesso, ma allo stesso tempo godibilissimo all’ascolto, evidentemente composto ed eseguito da chi è profondamente innamorato della musica nella sua interezza. Un disco che non chiede molto se non un eguale amore per la musica, e restituisce moltissimo. Non vediamo l’ora di vederli dal vivo. (Giulio Pecci)

 

The russian doll 

È un videogioco, è una serie, è un film, è un compendio di tutte queste cose e allo stesso tempo risplende di luce propria. Russian Doll, 8 episodi da 25/30 minuti dal 1 febbraio su Netflix, si impegna al massimo pur di non svelare la sua vera natura, tanto che verso la fine della prima puntata l’istinto del binge-watcher sarebbe quello di seguire la vita di Nadia Vulvokov, cinica programmatrice informatica magnificamente interpretata da Natasha Lyonne (la Nichols di Orange Is The New Black). Peccato che Nadia venga investita da un taxi e si risveglierà ancora alla festa per il suo trentaseiesimo compleanno, e ancora, e ancora. Un loop temporale, intramezzato dalle morti più assurde, dal quale non sembra esserci via d’uscita e che ci porta a indagare sulla psicologia e sul background di Nadia. Lyonne, insieme a Leslie Headland e Amy Poelher, costruiscono un quadro comico che flirta con un mood molto più dark, per riflettere sulla qualità delle nostre scelte, sulla natura bizzarra delle nostre vite, delle quali abbiamo il controllo ma fino a un certo punto. La maestria di Headland nell’intercettare e riproporre uno stilema femminile con scritto “FUCK U!” sulla fronte (Bachelorette è una delle commedie al femminile meglio riuscite degli ultimi anni), viene interiorizzata alla perfezione da Lyonne che praticamente tiene insieme, da sola (o quasi, la figura di Alan, anche lui costretto a rivivere la stessa notte all’infinito, è importante ma non si avvicina minimamente al carisma di Nadia), tutte le istanze tematiche portate avanti dalla serie. Non c’è un Dio che punisce l’umanità, al massimo c’è un bug nel codice. A metà tra un’opera di Nietzsche e un trip da Erasmus in Olanda, Russian Doll rischia di essere una delle cose migliori che la serialità sarà in grado di produrre in questo giovane 2019. (Paolo Stradaioli)

 

Clint Eastwood — The mule, il corriere

Che a Clint Eastwood interessino le storie vere lo avevamo intuito già da un po’, diciamo dai tempi di Changeling, a cui è seguita una lunga serie di film prevalentemente ispirati a personaggi realmente esistiti, più o meno noti, da Nelson Mandela al pilota di Sully, da J. Edgar Hoover ai tre ragazzi di Ore 15:17 — Attacco al treno.

L’anziano corriere della droga di The Mule non fa eccezione: prendendo ispirazione dal caso di Leo Sharp, lo stesso Eastwood interpreta Earl Stone, un uomo che, in vecchiaia avanzata, si trova a fare i conti con una famiglia che lo ha allontanato, a causa delle sue gravi e ripetute assenze, e con seri problemi finanziari. La soluzione arriva quasi per caso: un ragazzo lo avvicina e gli offre un lavoro in cui deve solo guidare una macchina.

Inizialmente ignaro di trasportare droga, poi indifferente, arriva addirittura a distinguersi per la qualità del lavoro. Peccato che la DEA non stia lì a guardare.
La strada lungo la quale sfreccia la macchina di Eastwood non è solo il tragitto obbligato per effettuare le consegne; piuttosto diventa un luogo di riflessione sul tempo, con tutti i malesseri tipici di chi guarda al passato convinto di aver mancato ai propri doveri e tenta ancora di recuperare qualcosa nel presente. Alle volte si concede spazio a qualche ovvietà o banalità di troppo, vero, e siamo parecchio lontani dai risultati migliori di questo regista; tuttavia qualche lampo di bel cinema si vede ancora, e rivedere il viso di Clint su grande schermo vale certamente il prezzo del biglietto. (Massimo Castiglioni)

 

Marielle Heller — Copia originale

«Sappi che sono una Dorothy Parker migliore di Dorothy Parker», questo sostiene Lee Israel nel corso di una conversazione con l’amico Jack Hock in cui racconta del suo nuovo lavoro da falsaria. La sua vera storia è stata recentemente raccontata in Copia originale, secondo film di Marielle Heller, candidato a tre premi Oscar, tra cui quello per la migliore attrice protagonista a Melissa McCarthy.

Lee Israel era una giornalista e autrice di libri biografici, un genere che non le ha accattivato molte simpatie da parte del pubblico e dell’ipocrita mondo dell’editoria, complice un carattere molto difficile. Il film comincia nel 1991, quando Lee è in piena crisi economica e la sua stessa agente si rifiuta di darle un anticipo sul suo prossimo libro, sottolineando come non sia quel genere di letteratura che vogliono i lettori e che per avere successo occorre anche curare il proprio personaggio e fare vita mondana (un po’ come fa Tom Clancy).

Casualmente Lee entra in possesso di un’autentica lettera di Fanny Brice, su cui sta scrivendo un libro, per poi venderla a un negozio. Da qui inizia a scrivere centinaia di lettere false a nome di moltissime celebrità del passato, trovando così un nuovo metodo di sostentamento, senza doversi allontanare più del dovuto dalla sua professione.
Al di là della narrazione dei disagi lavorativi e psicologici di una persona complessa (il tutto attraverso meccanismi un po’ prevedibili, specie nei passaggi riguardanti i rapporti umani), ciò che principalmente cattura l’interesse, è la trasformazione del ruolo di scrittrice che Lee si impone. Non è più una biografa che si nasconde dietro i suoi soggetti; di volta in volta diventa a tutti gli effetti Fanny Brice, o William Faulkner o Dorothy Parker, entrando nel loro linguaggio, quindi nella loro psicologia, e scrivendo lettere come le avrebbero composte loro, magari anche meglio, come poco umilmente dichiara in quella conversazione ricordata all’inizio. (Massimo Castiglioni)

 

Andrea Zandomeneghi — Il giorno della nutria (Tunué)

La letterarietà e la personalità della scrittura, anche se ci troviamo di fronte ad esordienti, sono certamente le caratteristiche più evidenti e apprezzabili della collana romanzi di Tunué, che non si limita banalmente a dare spazio a voci nuove del panorama italiano (salvo eccezioni), ma va a cercare quelle voci che si distinguono per un particolare lavoro di ricercatezza stilistica e strutturale.

Ultimo, ma solo in ordine di tempo, è Andrea Zandomeneghi, classe 1983, che col suo primo romanzo, Il giorno della nutria, conferma con grande convinzione questa linea editoriale. Una scrittura solida e colta, che con singolare scioltezza passa con rapidi scatti dalla comicità più grottesca a scene terribilmente intense, traccia il disegno dell’avventura di Davide, residente a Capalbio, che una mattina trova una nutria spellata sul pianerottolo di casa. Segue una breve indagine, i cui sviluppi si intrecciano alle digressioni sul passato e sul mondo di Davide: il tempo, dalla fissità dell’evento principale, si allarga e si restringe, assorbendo i malesseri di Davide, preti fissati con Risiko che scrivono lettere a Calasso, molta letteratura, situazioni ambigue, alcool, medicinali e molto altro. Da leggere. (Massimo Castiglioni)

 

Alejo Carpentier — Guerra del Tempo (Sellerio)

Alejo Carpentier, forse il più grande scrittore cubano del ventesimo secolo, è una personalità che non gode di grande notorietà dalle nostre parti. Pur essendo stato tradotto in passato, negli ultimi decenni l’editoria ha dimostrato una certa, ingiustificata indifferenza nei suoi confronti. Una delle poche eccezione a questa tendenza è rappresentata da Sellerio, che, oltre a vantare già alcuni titoli in catalogo, ha recentemente ripubblicato con nuova traduzione i tre racconti di Guerra del tempo (originariamente del 1956, tradotti per la prima volta in italiano nel 1962, da Longanesi, nel volume La fucilazione: un romanzo e tre racconti).

Come già indicato dal titolo, è il tempo il tema che lega questi racconti, avvolti in un’atmosfera fantastica dove si fondono suggestioni provenienti dalla cultura mediterranea e da quella latinoamericana, i due assi su cui si orienta l’immaginario dello stesso Carpentier, che visse a lungo in Europa. E il tempo non è solo il museo dei ricordi del passato in cui rinchiudersi nostalgicamente: è un confronto con quel museo, certo, ma è soprattutto il sentiero, per nulla dritto o regolare, dove si accumulano materiali di ogni tipo, dove si nasconde (forse) l’origine delle cose e dove è facile smarrirsi per poi tornare immancabilmente dove si era prima. Così Don Marcial, nel primo racconto, può tranquillamente vivere la sua esistenza a ritroso, dal letto di morte alla nascita, e con lui tutti gli oggetti di cui ha riempito la sua vita tornano alla loro essenza originaria; così i protagonisti di Simile a fosca notte proseguono ognuno la storia del personaggio del capitolo precedente, alle prese con situazioni fondamentali della mitologia e della storia dell’Occidente, sempre uguali e sempre diverse nella ripetizione della vita dell’uomo e delle sue narrazioni.

Guerra del tempo è certamente un buon inizio per scoprire un autore, come già detto, ingiustamente ignorato in Italia, con la speranza che venga ripubblicato anche I passi perduti, un capolavoro ormai da troppi anni fuori catalogo. (Massimo Castiglioni)

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