Nate su Facebook, la Women’s March, la March for Science e la Climate March hanno portato in strada milioni di persone. Ma quali conseguenze politiche hanno avuto?
Nelle ultime settimane, negli Stati Uniti si è molto parlato di questa pubblicità della Pepsi, con protagonista Kylie Jenner. Lo spot ritrae una serie di millennial, belli e vestiti come manichini di H&M, abbandonare le loro attività giornaliere (suonare il contrabbasso sul tetto di un palazzo o scarabocchiare delle fotografie) per partecipare a una gioiosa manifestazione di protesta, nella quale strimpellano gruppi, ballerini improvvisano coreografie e i cartelloni recitano «JOIN THE CONVERSATION». La vibe sprigionata dalla protesta è così potente da convincere persino Kylie Jenner ad abbandonare il suo set fotografico, e in un climax di gioia si leva il rossetto con il braccio e offre una lattina di Pepsi a uno dei poliziotti che controlla la manifestazione; la folla ovviamente va in visibilio.
La pubblicità — pubblicata solamente su Youtube e rimosso nel giro di poche ore — ha causato così tante polemiche su Twitter e Facebook che la Pepsi ha dovuto scusarsi ufficialmente, dicendo che il loro intento «era quello di proiettare un messaggio di pace, unità e unione d’intenti globale». Lo spot però è interessante perché si inserisce nel solco delle ultime grandi manifestazioni degli Stati Uniti di Trump: la Women’s March (23 gennaio), March For Science (22 aprile) e la più recente la People’s Climate March (sabato 29 aprile). Le tre marce di Washington DC potrebbero rappresentare il prototipo delle manifestazione nell’era post-verità: grandi numeri, molti selfie e nessuna efficacia politica. Sono un’evoluzione di quelli che furono i social movements — tra cui Occupy Wall Street e Black Lives Matter —; la pervasività di Facebook, Snapchat e degli altri social network, li ha resi più partecipati, ma allo stesso tempo vaghi, buonisti e inefficaci. In ultima analisi, simili alla pubblicità della Pepsi.
La singola protesta più partecipata della storia Americana
La centralità dei social network nelle due marce è chiara e paradossalmente rappresenta allo stesso tempo la forza e i limiti di queste manifestazioni. L’idea della Women’s March (d’ora in poi WM) è venuta contemporaneamente a Teresa Shook, un avvocato in pensione e nonna dalle Hawaii, e Bob Bland una fashion designer di Brooklyn. Entrambe non avevano nessuna esperienza di attivismo, e proposero una “protesta delle donne” su Facebook il giorno dopo l’elezione di Donald Trump. L’idea della March for science è stata ispirata da un thread su Reddit e poi organizzata da una pagina Facebook in meno di due settimane. Successivamente entrambe le manifestazioni hanno sviluppato un sito internet, unificato le pagine Facebook, disegnato loghi e filtri per Snapchat e Instagram.

Women’s March, Amsterdam, foto di Nynke Vissia
Le manifestazioni hanno avuto una partecipazione straordinaria di pubblico e di conversazioni digitali. la WM è stata la singola manifestazione politica più partecipata della storia americana, con eventi in 600 città e una stima di 3,4 milioni di persone coinvolte. Anche la March for Science ha avuto un discreto successo, con le dovute proporzioni dettate dal momentum e dal tema, i numeri non sono ancora ufficiali ma gli organizzatori hanno contato 150mila persone a Washington DC e manifestazioni in più di 600 città, comprese Roma e Milano. La Climate March ha riscosso un grande successo numerico, secondo il New York Times c’erano decine di migliaia di manifestanti, ma i numeri ufficiali non sono ancora stati diffusi. Il successo numerico e mediatico è senza dubbio da attribuire in buona parte a Facebook e ai social network, che hanno abbassato costi logistici e organizzativi e allo stesso tempo reso trendy la protesta. Jia Tolentino ha scritto sul New Yorker commentando la WM: «Sfortunatamente Facebook è contemporaneamente il miglior posto per coinvolgere le persone e il peggiore per discutere di politica».
Time-lapse, bird’s-eye video shows thousands of protesters marching toward White House for action on climate change https://t.co/yoYEIbNWAO pic.twitter.com/jNpi7WceZi
— CNN (@CNN) 29 aprile 2017
Time lapse People’s Climate march
La straordinaria partecipazione numerica alle proteste sembra inversamente proporzionale alle conquiste politiche del movimento, apparentemente scomparso dopo la manifestazione. Zeynep Tufekci, esperta di social media activism ed editorialista del New York Times, ha studiato in profondità l’impatto dei social network sui movimenti politici concludendo che le dimensioni sono un pessimo indicatore di efficacia politica.
Ma perché la più grande manifestazione di sempre non ha avuto nessun impatto pratico sulla politica americana?
Per due motivi principali, che — come per la dimensione della partecipazione — hanno a che fare con Facebook: la vaghezza delle richieste e l’assenza di un’organizzazione strutturata.
I march for myself
È inutile non parlare dell’elefante nella stanza, Donald Trump. «Grab them by the pussy», gli alternative facts e i tweet sui cambiamenti climatici sono stati gli eventi scatenanti che hanno attratto l’attenzione mediatica sulle tematiche delle donne e della scienza. Tutte le manifestazioni sono state innescate da un misto di indignazione per il nuovo Presidente e la sua retorica e politica reazionaria, ma nessuna è stata in grado di strutturare un messaggio politico chiaro e univoco. Piuttosto hanno aggregato intorno a un nucleo semplice e condiviso (“il rispetto dei diritti”, “la passione per la scienza”, “la realtà del cambiamento climatico”) una serie di messaggi confusi e diversissimi tra loro.

Foto di Liz Lemon
Nel caso della WM, le organizzatrici faticarono a coinvolgere le comunità non bianche. Per allargare la conversazione digitale alle altre comunità cambiarono prima il nome (originariamente “Million Women March”), inserirono nella mission ufficiale riferimenti alle comunità LGBT, continuarono ad allargare sempre di più le tematiche fino a dire che la protesta non era anti-Trump ma “pro women”. Il risultato finale è una confusa accozzaglia di cose diverse, una specie di chi-vuole-giocare-metta-il-dito-qui-sotto: «to affirm our shared humanity and pronounce our bold message of resistance and self-determination.»
La manifestazione è diventata quindi un incubatore di richieste eterogenee, tutte accettate e rispettate. È un processo molto semplice che ricalca quello che succede su Internet: diffondere un messaggio chiaro e univoco su Facebook è impossibile dal momento che nessuno ha un’autorità riconosciuta per farlo; sarebbe divisivo, criticato e smontato sotto montagne di commenti e troll. Piuttosto, si propone un tema intorno al quale gli utenti possono costruire il proprio messaggio, personalizzandolo secondo le proprie necessità e e i propri bisogni: vuoi manifestare per l’equità salariale? Sei dei nostri. E i diritti delle donne native-americane? Sali a bordo. Non ti piace Trump ma credi che l’aborto non sia etico? Alla fine va bene, dai.
Si tratta di una forma di affiliazione che comporta il minimo sforzo cognitivo e materiale: non ci sono norme a cui doversi conformare, dottrine da imparare o prove da superare; viene offerta una gratificazione immediata e autoriflessiva, che evita il confronto con il diverso, elimina le etichette politiche ufficiali e rinforza le credenze esistenti.

Women’s March, New York City, foto di Mathias Wasik
Per questa ragione alla marcia erano presenti gruppi femministi estremisti, delegazioni di housewife benestanti, studentesse e studenti di varia estrazione, perfino gruppi conservatori, e una donna che protestava contro il cancro. Non è un caso che il secondo ashtag più popolare durante la manifestazione è stato #whyimarch.
Anche per la March for Science i motivi per scendere in piazza si aggregavano attorno a un fumoso amore per la scienza, tradotti dagli utenti nelle più fantasiose ragioni. Ed Yong su The Atlantic ha selezionato 21 motivi trovati sul gruppo facebook ufficiale (838,000 membri) e il sito della marcia, tra i quali “oppose policies that ignore scientific evidence” or “seek to eliminate it entirely.” oppure “Affirm science as a vital feature of a working democracy.” La cosa che più colpisce di questi punti è che banalmente non hanno nulla di politico, non si traducono in un’azione, sono una semplice affermazione identitaria del pubblico. Le foto della marcia raccontano dei cartelli ironici e ammiccanti alla cultura nerdy, corrispettivo tangibile delle battute brillanti su Facebook o di un tweet ben riuscito. Lo stesso discorso — sulle battute brillanti e gli scarsi argomenti — vale per la Climate March, che ha sfruttato l’hype mediatico della ricorrenza dei 100 giorni di Trump e qualche volto famoso.
Mark Ruffalo and Leonardo Di Caprio support climate action at the People’s Climate March. http://t.co/iSZLc0T5yH pic.twitter.com/s6FIAFCSY4
— Sustainable.co.za (@Sustainablecoza) 9 ottobre 2014
Struttura
Un tratto comune a tutti i social movement — comprese le primavere arabe, Gezi Park, Occupy e Black Lives Matter — è che non sono mai emersi dei leader o una struttura gerarchica codificata, con l’unica eccezione degli Indignados spagnoli che però cambiarono modus operandi dopo le elezioni. Questa caratteristica è collegata al fatto che i social network e internet hanno ridotto drasticamente il costo, il tempo e l’impegno per l’organizzazione di una manifestazione politica. Internet garantisce una diffusione senza precedenti di un evento — mentre scrivevo questo articolo è passato per più di una settimana lo spot della Climate Change March su Spotify.
Le marce sono state organizzate in meno di due mesi, usando esclusivamente strumenti digitali. Tra la mail del magazine Adbusters che cominciò Occupy Wall Street e le più di 600 occupazioni di suolo pubblico compreso Zuccotti Park, passarono appena 2 mesi; il mese successivo le proteste si allargarono a 82 paesi e 920 città. Tuttavia a distanza di due anni si può dire che il movimento più partecipato della storia ha fallito. Ugualmente in Egitto dopo l’incredibile partecipazione alla manifestazione di Tahrir Square, il potere è stato raccolto dai Fratelli Musulmani, un gruppo minore ma con un’organizzazione gerarchica tradizionale. Secondo Zeynep Tufekci, l’immediatezza di internet ha un profondo effetto sulla struttura della protesta e ne mutila l’efficacia.
March for Science, New York City, foto di Matti Vuorre
Tufecki ha studiato il movimento per i diritti civili degli afroamericani che organizzò il boicottaggio del 1955 degli autobus a Montgomery in Alabama, in seguito all’arresto di Rosa Parks. Ci vollero mesi per organizzare i passaggi in macchina, stampare volantini, parlare e convincere le persone a partecipare al boicottaggio. Fu in quei momenti che il movimento acquistò la potenza e la struttura che gli permisero di mantenere il boicottaggio attivo per 382 giorni, fino alla dichiarazione di incostituzionalità della segregazione razziale sui mezzi pubblici della Corte Suprema. L’organizzazione fu il momento in cui si strutturò un pensiero collettivo, e individui come Martin Luther King — che 8 anni dopo pronuncerà la frase «I have a dream» durante la marcia su Washington per la quale ci furono 9 mesi di preparativi — diventarono personalità riconosciute. È un paragone provocatorio per le differenze storiche, ma pensare alla differenza di risorse e conoscenze tra i nuovi movimenti e i risultati ottenuti è sconfortante. Alla WM hanno parlato attrici, attivisti, youtuber e manifestanti ma in ogni intervento era chiaro il senso di dispersione e scarsa unità del movimento, non è emersa nessuna autorità nessun portabandiera.
Questo non vuol dire che bisogna rinunciare a Internet e ai social network nelle manifestazioni politiche: in Egitto durante le proteste di Tahrir Square 4 studenti hanno coordinato due ospedali da campo con Google Sheets, Occupy cristalizzò l’immagine del 99% in maniera efficace e potente, la Women’s March ha avuto un significato per la quantità di donne che hanno manifestato, il cambiamento climatico è una battaglia politica importantissima. È necessario invece lasciare perdere l’approccio sensazionalistico l’utopia che il potere possa essere controllato in maniera condivisa dalla rete, essere coscienti che spesso i benefit offerti dalla rete possono tradursi in limiti nella vita reale. Adam Curtis ha esplorato l’argomento in lungo e in largo nel documentario in tre puntate All Watched Over By Machines Of Loving Grace, rivelando come l’inganno della fede cieca nell’ecosistema e del potere governato dalla rete è una balla, sta lì dall’Impero Britannico. Le cose si cambiano in un altro modo e non assomigliano a una pubblicità della Pepsi.
In copertina: foto di erin*carly.
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