Le responsabilità di due generazioni con preoccupazioni simili, con rabbia e disagi comuni, che hanno il dovere improcrastinabile e oggi l’occasione di trovare nuove soluzioni efficaci, tra la sterilità del solito corteo pacifico e l’inutilità della devastazione fine a se stessa.
Quindici o ventimila milanesi che scendono in strada a pulire la città. Non era la Marcia dei quadri dell’80 così come venerdì non era il 2001 né il ’77. Lo dico perché è evidente che per entrambe le manifestazioni, lo scarto tra cause e effetti è immenso e non c’è alcun impatto con la realtà, nella misura in cui l’impatto sarebbe dovuto essere: bloccare l’Expo? Francamente la storia ci ha insegnato che l’ultima volta ci è voluta una guerra mondiale. Mettere sotto gli occhi della grande opinione pubblica le ragioni dei No Expo? Siamo onesti: l’informazione a riguardo è sempre stata poca e lo sarebbe stata ugualmente anche all’indomani di un ordinario corteo pacifico, anzi a dirla tutta credo che queste ragioni sarebbero state spazzate via dai pomposi proclami sulla buona riuscita dell’inaugurazione dell’Expo.

Stessa cosa per i benpensanti con la spugna, cosa stanno a simboleggiare? Che la maggioranza silenziosa è più viva che mai? Che le ragioni dei protestanti non sono condivise e che il movimento ne uscirà ridimensionato? Non credo. Semplicemente perché entrambe le parti non hanno alcuna voce in capitolo, né l’una sull’altra, né ciascuna sul rispettivo oggetto di protesta o solidarietà. Sono troppo distanti da tutto.
Di tanto in tanto però si verifica qualche anomalia che almeno un risultato lo produce: la discussione, ironica o indignata o analitica che sia. E non lo dico con sarcasmo, sono tragicamente convinto che l’eccessiva informazione non produca maggiori consapevolezze ma una progressiva perdita di tatto e sensibilità. È banale tanto quanto veritiero ammettere che ci vogliono 400 morti in mare perché i dieci di ieri e i chissà quanti di domani non bastano, così come le gole tagliate o i dodici di Charlie Hebdo, per creare un dibattito su tematiche già esistenti ma sulle quali l’attenzione era pari a zero. Così come ci vogliono le auto e le banche in fiamme affinché una manifestazione non venga bypassata con due titoletti elogiativi. È stato così per il 14 dicembre 2010 e il 15 ottobre 2011, non è stato così per un mucchio di altre iniziative alle quali probabilmente in molti abbiamo preso parte e a stento ricordiamo.

Non è un caso se bisogna tornare a Genova (sono passati quattordici anni, è sempre bene ricordarlo) per fare paragoni inappropriati o per allarmare preventivamente (di nuovo vorrei far notare che questo genere di notizie ha avuto molto più spazio rispetto alle cause di un movimento attivo da anni che non ha mai fatto breccia e che non l’avrebbe fatta in ogni caso durante il MayDay, a mio avviso). Non è un caso perché negli ultimi vent’anni non c’è stato nient’altro e questo nulla ha prodotto un progressivo sgretolamento di qualsiasi collettività incisiva e degna di questo nome.
Chi ha avuto il dispiacere di avere a che fare con me negli ultimi giorni conosce la frustrazione e l’emotività con la quale sto seguendo il dibattito, non lo dico per elevarmi su qualche piedistallo di sensibilità spiccata, ma per giustificare un’analisi scarna e priva di ragionamenti sociopolitici, economici o filosofici, particolarmente dotti – c’è chi lo fa in maniera molto più valida di me: Raimo su Internazionale; Bianchi su Vice; Bifo sul suo profilo Facebook –; si tratta solo di un ragionamento istintivo e pieno di dubbi, perplessità e domande probabilmente anche ingenue.

Quello su cui vorrei soffermarmi è altro. La generazione precedente alla mia, cosa ha da insegnarci? Per quanto mi sia sforzato di cercarle, nei vari commenti e prese di posizione, non ho trovato alcuna proposta. Partendo dal presupposto, mi auguro scontato, che ci sono un disagio e una rabbia diffusa e legittima e dando per appurato che bruciare una decina di macchine non cambia le cose al pari però, ribadisco, di un corteo colorato e pacifico, l’ennesimo, come tutti quelli che si sono visti negli ultimi anni: quali sono le proposte? Ma prima ancora, quale è l’obiettivo che vogliamo raggiungere? Nella migliore delle ipotesi leggo di un nichilismo rassegnato, oppure analisi interessanti e sincere, ma in ogni caso sterili. Nella peggiore delle ipotesi ho visto spostare l’attenzione sul ragazzo intervistato da tgcom o altri malcapitati di turno, che hanno prodotto una spasmodica e direi quasi compulsiva e ossessiva ricerca dell’umorismo nauseabondo.
Ho letto quasi ovunque l’espressione “errore strategico” in riferimento ai disordini causati dai black bloc, ma non ho capito quale fosse la strategia giusta da percorrere, quale fosse l’occasione che oggi si dice persa e come sarebbero dovute andare le cose affinché oggi si parlasse di una vittoria o qualcosa di simile.
In questo momento credo che questi disordini siano un male necessario, un rito di passaggio forse facilmente deprecabile a caldo, ma che a ben vedere ci permette, ancora una volta, di discutere e confrontarci per qualche giorno in più rispetto all’ordinaria amministrazione, e se c’è un modo onesto per condannare il caos fine a se stesso, questo è quello di proporre soluzioni nuove ed efficaci e non limitarsi a disamine, condanne e neanche a discorsi nostalgici o bonari, che funzionano solo a far quadrare un ragionamento che però resta del tutto inutile.

Il dovere di oggi è quello di focalizzare nella maniera più lucida possibile lo spazio che c’è tra l’inutilità di una passerella ordinata e l’inutilità della devastazione. C’è uno spazio di mezzo, esiste, e deve necessariamente essere uno spazio nel quale costruire una collettività, un orizzonte condiviso e comune che restituisca peso e rispettabilità a una serie infinita di battaglie che hanno un’importanza incalcolabile, che tutti reputiamo giuste e che devono interfacciarsi con il potere (per usare un termine generico) per quanto possibile alla pari e con un peso tangibile. Ed è questa la grande responsabilità della generazione che negli scorsi decenni ha arretrato sotto tutti i fronti e porta con sé un fardello rilevante di errori e colpe, che lo si voglia riconoscere o meno. Non più modellarsi nei minuscoli spazi rimasti liberi, ma crearne di nuovi, non più sopravvalutare e salvaguardare miseri privilegi ottenuti a fatica e da pochi fortunati che oggi nella migliore delle ipotesi hanno una labile stabilità e un miraggio di futuro un po’ più decente degli altri. Sia chiaro che io non so quali siano queste soluzioni e non sono tanto folle e immodesto da pensare di essere in grado di trovarne, di certo non da solo e da individuo. D’altra parte questo non vuol dire che non abbia la certezza che queste soluzioni ci siano: perciò avrei gradito discussioni costruttive all’interno delle opinioni delle varie personalità esponenti di quell’altra generazione, nelle quali in molti riponiamo spesso fiducia e che seguiamo con interesse e rispetto. Mai come in questo momento i problemi e le preoccupazioni di un ventenne sono stati così simili a quelli di un quarantenne, questa è la forza alla quale appellarsi, ed è dovere di entrambi costruire dei ponti solidi di comunicazione, a patto che i secondi non si limitino a insegnarci come abbellire la fossa che ci stiamo scavando tutti assieme, perché, a conti fatti, sempre i secondi, si sono limitati a fare questo negli ultimi anni.
Foto di Andrea Benjamin Manenti (alcuni diritti sono riservati)