Lo spettacolo dei video dell’ISIS
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Lo spettacolo dei video dell’ISIS

«Senza i media, il terrorismo non esisterebbe», era il 1978 e Marshall McLuhan rispondeva alle domande dell’intervistatore de Il Tempo; 27 anni dopo, Aymann al-Zawahiri, il numero due di Al-Qaida, scriveva «Siamo in battaglia, e più della della metà della lotta si giocherà sul campo dei media» in una lettera ad Abu Musab al-Zarqawi. Dal […]

«Senza i media, il terrorismo non esisterebbe», era il 1978 e Marshall McLuhan rispondeva alle domande dell’intervistatore de Il Tempo; 27 anni dopo, Aymann al-Zawahiri, il numero due di Al-Qaida, scriveva «Siamo in battaglia, e più della della metà della lotta si giocherà sul campo dei media» in una lettera ad Abu Musab al-Zarqawi. Dal primo video dell’esecuzioni di James Foley sono passati sei mesi. Fu la prima volta in cui l’Isis finì sulle prime pagine di tutti i giornali, in moltissimi tweet e bacheche Facebook con il video 720hd della decapitazione del giornalista americano.

 

James-Foley-Killed-03

 

La quantità di editoriali, articoli ed analisi sul nascente Stato Islamico, è impressionante. È stata data ogni genere di interpretazione all’ideologia dell’Isis, sono state analizzate tutte le tattiche militari, eviscerate le strategie comunicative. Se però ogni articolo ha analizzato una componente specifica del Califfato, pochi hanno notato come i video-esecuzioni-spot rappresentino un sommario che aggrega tutte le diverse sfaccettature dello Stato Islamico: l’ideologia, il mondo islamico e il rapporto con l’occidente. Basandomi sulle analisi di chi sa e capisce più di me di mondo islamico e Jihad, il quadro generale che è venuto fuori mostra una strana, complessa e inquietante coerenza.

Per rispetto nei confronti dei lettori ho deciso di non mettere alcun immagine dei video e nessun link diretto ad essi (quelli che troverete sono collegamenti a fonti scritte).

 

jihad1

 

La brutalità

È la base e l’essenza di ogni filmato dell’Isis. Far ammazzare un uomo ad un bambino, bruciare vivo un militare giordano sono solo gli esempi più eclatanti di una lunga lista impossibile da ordinare. Nei video la violenza è così diretta da diventare quasi surreale.

Ma nonostante sembri una tarantinata fine a sé stessa, rappresenta una buona parte della politica sul territorio dello Stato Islamico. Hassan Hassan sul The Guardian l’ha definita la politica della deterrenza, ed è lo strumento principale per la costruzione fisica del nascente Califfato.

Si basa sul testo Management of Savagery dell’ideologo jihadista che si fa chiamare Abu Bakr Naji e rappresenta il rumore di fondo della maggior parte delle iniziative del Califfato. Le azioni violente verso civili, musulmani e non, diventano lo strumento principale e necessario per perseguire fini politici come controllo del territorio o, per umiliare la coalizione internazionale e gli altri stati musulmani, come nel caso del pilota giordano. Secondo la dottrina della deterrenza, la crudeltà delle crocifissioni pubbliche e delle esecuzioni di massa piegheranno i popoli alla volontà del Califfato, idea molto diversa da Al Qaida, come spiega Panorama, che invece ha sempre ritenuto che le violenze eccessive tra musulmani favorissero gli Americani nell’opinione pubblica. Secondo Hassan questa ideologia rappresenta una svolta nel mondo del terrore, poiché implica la fondamentale separazione dei concetti di jihad e Islam: la violenza della jihad non deve essere per forza giustificata da una fatwa puntuale (com’era buon abitudine di Al Qaida), ma passa per un’interpretazione più ampia che rivoluziona il concetto di guerra santa islamica. Qui un estratto dal libro di Naji preso dall’articolo di Hassan: «Sto Parlando di jihad e guerra, non di Islam e nessuno dovrebbe confondere le due cose. Non si può continuare a combattere e conquistare territori se lo stato nascente adotta una strategia di massacri per scoraggiare il nemico».

 

Abu-Musab-al-Zarqawi

Abu Musab al-Zarqawi

 

Per capire le basi del pensiero di Naji, bisogna fare un passo indietro e ricostruire la storia dell’Isis (qui il lungo articolo di riepilogo uscito sull’Atlantic) e la figura di Abu Musab al-Zarqawi. Il New Yorker ha ripercorso i burrascosi rapporti tra Zarqawi e Bin Laden dai tempi delle rivolte antisovietiche, che formarono la sua idea di Guerra Santa basata su un processo di purificazione dell’Islam, in opposizione all’ideologia Al-Qaida: all’ora dominante. I militanti fedeli a Zarqawi, nell’Iraq invaso dagli americani, hanno spesso preferito colpire obiettivi civili sciiti (e musulmani), piuttosto che scagliarsi contro i militari americani (e infedeli); e per lo stesso motivo alla vittima musulmana è stato riservato il fuoco purificatore, mentre agli infedeli è la decapitazione. Zarqawi morì nel 2006 sotto un bombardamento americano, ma il suo pensiero è una delle basi ideologiche riconosciute dell’Isis e del suo Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi. L’analisi di Hassan e del New Yoker mostrano come la brutalità dell’Isis – sia sul territorio che nei video sul Tubo – si basa su un preciso sistema ideologico, formatosi negli anni attraverso l’intransigenza e la competizione serrata con gli altri gruppi jihadisti; gruppi con i quali tutt’ora il Califatto tende a mantenere rapporti di supremazia piuttosto che alleanza, come spiega il Guardian. L’uso della violenza è troppo spesso frainteso dai noi occidentali come elemento estetico a fronte di una funzione ideologica molto precisa e materiale. Forse per bilanciare l’immagine violenta L’isis ha iniziato una serie di video-diari idilliaci della vita nello Stato Islamico, questo bellissimo articolo di Donatella Della Ratta su Internazionale racconta l’inquietante normalità del Califfato

 

L’estetica dell’orrore in 720hd

Ci ricordiamo tutti com’erano i videomessaggi di Osama Bin Laden. Lui, con la barba lunga e la tuta mimetica, che con il dito rivolto verso il cielo lancia minacce di morte in lingua araba; l’audio era spesso irregolare e disturbato, l’immagine pixelata per la bassa risoluzione e a distribuire i video erano sempre le televisioni. I video dell’Isis sono in hd, hanno un copione e una narrazione, sono girati da una troupe di professionisti, recitati in inglese e li vedete dal vostro smartphone mentre state a lavoro. Lo Stato Islamico ha rivoluzionato l’estetica del terrorismo trasformando l’immagine di cavernicoli retrogradi di Spike Lee, in youtubers di successo copiando i canoni estetici occidentali dei videogiochi (l’analisi del New Yorker sulle somiglianze con Call Of Duty) e dalle serie TV (Il Guardian sulle sigle di Homeland), costellando il tutto con riferimenti storici. Dario Morelli ha raccontato su Wired come registi dell’Is hanno dato realtà a quella che nel mondo del cinema mondiale era solamente una legenda metropolitana: gli snuff movies. Uno snuff movie consiste fondamentalmente nel commettere un omicidio volontario al solo ed unico fine di filmarlo. Ed è questo il punto fondamentale, i video dell’Isis non sono report o risposte dei rapimenti, ma sono dei corti al solo scopo estetico-comunicativo. Tutti gli elementi lo dimostrano, andiamo con ordine.

Il set è sempre scelto con attenzione: nell’esecuzione di James Foley delle dune desertiche molto evocative, nel rogo del pilota Giordano una gabbia (allegorica) e la città siriana di Raqqa (contesa tra Al Nusra e lo stesso Isis) e, per ultimo, la spiaggia libica che guarda verso l’Europa. La narrazione del film si basa sul riconoscimento dei personaggi: boia sempre vestiti di nero, vittime sempre di giallo, con riferimento a Abu Ghraib e Guantànamo. La caratterizzazione dei protagonisti dà il carattere della serialità al video che viene sapientemente enfatizzato dagli autori con frasi come «Nel secondo messaggio all’America», o richiesta di iterazione con il pubblico: «Presidente Obama questa vita americana dipende dalla sua prossima mossa»; generare attesa per provocare desiderio. La narrazione è affidata al boia, in tutti i video agita il coltello con il quale commetterà l’omicidio: la spada tradizionale dei mujaheddin è sostituita da un più occidentale coltellaccio rambesco. I messaggi sono diretti, usano un linguaggio semplice e vertono quasi sempre su argomenti di politica e guerra piuttosto che religiosi. Anche la regia mostra una cura mai vista prima, più telecamere filmano la scena, con dolly e binari. Non è la classica inquadratura fissa da richiesta di riscatto, lo sguardo viaggia, viene stretto sui primi piani delle vittime mentre sono costrette a recitare il proprio ruolo e sul coltello del boia quando compie l’omicidio. I momenti più cruenti sono filmati nei minimi dettagli, neanche l’audio viene risparmiato; trovano comunque spazio molte immagini evocative, come il sangue che si disperde nelle stesse onde che bagnano le nostre spiagge. Il lavoro di postproduzione è però l’elemento che lancia il segnale più forte. I video sono sempre in hd, montati in maniera avvincente al ritmo del messaggio e della narrazione, vengono usati effetti speciali ed elementi grafici. Il messaggio dietro l’imitazione dei canoni occidentali, è molto chiaro: noi abbiamo i soldi, le competenze e gli strumenti per fare veramente quello che voi girate ad Hollywood (e che quindi sono sicuro che vederlo vi farà impazzire).

 

Audience e marketing del prodotto

La prima regola per ogni operazione di comunicazione è tenere sempre a mente il destinatario del messaggio, e l’Isis sa benissimo che di connessioni veloci tra Siria, Iraq e Libia ce ne sono pochine. È chiaro che i video sono destinati esclusivamente al pubblico occidentale o ai paesi arabi più sviluppati. Nonostante la Fox abbia avanzato forti dubbi sulla veridicità dell’esecuzione dei 21 copti, è la qualità cinematografica dei video e la recitazione, quasi in tutti i casi, in inglese (con sottotitoli in arabo), a svolgere una doppia funzione nella propaganda jihadista. La prima è reclutare seguaci tra i giovani e giovanissimi (dati di CSmonitor) europei e nordafricani, i quali sono arrabbiati e agguerriti ma nella maggior parte dei casi hanno una conoscenza basica dell’Islam e della storia religiosa, come i due ragazzi di Birmingham che prima di partire per la Siria avevano comprato su Amazon Islam for dummies e Koran for dummies; ricordate la separazione tra Islam e Jihad sopra? Oltre a quelli che direttamente arricchiscono le fila dell’Isis sul territorio molti altri lo fanno a casa propria. Sono da registrare come vittorie della comunicazione Isis la sparatoria al parlamento Canadese e le minacce all’Australia. Amhed Coulibaly in uno dei suoi video prima dell’attentato a Charlie Hebdo diceva «Quello che abbiamo fatto è completamente legittimato da ciò che hanno fatto loro a noi. Se voi attaccate il Califfato, noi attaccheremo voi».

 

Amhed Coulibaly

Amhed Coulibaly.

 

Oltre all’estetica accattivante è il mezzo di diffusione, internet, a giocare un ruolo fondamentale nel coinvolgimento di giovani occidentali, nati e cresciuti dalla società a cui giurano la guerra.

Il medium preferito dai terroristi è cambiato, adattandosi alle necessità del tempo: se Al-Qaida negli anni 2000 doveva confrontarsi con le grandi reti internazionali All-News, l’Isis vive nell’era del web 2.0 e dei social. Questo rende il rapporto tra le parti molto più diretto e personale. La violenza garantisce anche l’audience che non è sedotta dal messaggio: la sfacciata coscienza di essere il nemico crudele che ha l’Isis focalizza l’attenzione mediatica perché ha un effetto aggregante nei confronti di chi la guarda, i giornali hanno vita facile a pubblicare un editoriale sulla bestialità del Califfato. Unita alla passione occidentale per l’immagine e ancora al mezzo personale di diffusione, questi fattori garantiscono un numero di click e visualizzazioni (di cui però non esistono dati ufficiali) ad ogni video che difficilmente può essere ostacolato dalle decisioni editoriali dei media mainstream. Questi due fenomeni rappresentano uno dei fattori del sorpasso a destra dello Stato Islamico nei confronti di Al Qaida, molto meno popolare fuori dalle cerchie estremiste, e in più mina la stabilità interna degli stati nemici. Grazie alla popolarità mediatica, l’Isis sfrutta le sue vicende politiche come marketing del film che uscirà, l’esecuzione del pilota giordano ne rappresenta un caso emblematico. Tenuto prigioniero per oltre due mesi, il video è stato rilasciato 2 febbraio ed è stato girato a Raqqa in Siria. L’Isis durante la detenzione aveva portato avanti una negoziato per la liberazione del pilota, che fece rimanere tutta la Giordania con il fiato sospeso per poi naufragare per la mancata testimonianza che il pilota fosse ancora in vita. Molte prove testimoniano che il video deve essere stato girato molto tempo prima e la trattativa fosse solamente la comunicazione di lancio per convogliare attenzione mediatica sull’evento. Il video sarà poi rilasciato il giorno dopo la clamorosa sconfitta di Kobane, un colpo all’immagine internazionale dell’Isis che doveva essere in qualche modo oscurata. I video rappresentano delle occasioni per l’Isis attorno al quale plasmare le politiche e le relazioni con cancellerie e media; la loro tecnica e qualità poi fungono da ganci per nuove reclute e attenzione mediatica non filtrata del mondo occidentale.

 

La questione morale

Su Internet spesso si sottovaluta la potenza di un click, che può essere invece definito come un butterfly effect postmoderno. In molti si sono opposti alla riproduzione dei filmati: guardare, condividere e tweetare fa il gioco dei terroristi è esattamente il loro obiettivo. Molti giornalisti, tra cui Servegnini sul Corriere e Nesrin Malik sul The Guardian, hanno argomentato scrivendo che guardare video non aggiunge nulla alla notizia (per condannare la pedofilia serve mostrare dei filmati pedopornografici?), ma risulta essere solo una brutalizzazione della vittima, invitando a non guardare i video; è anche lanciato l’hashtag #isisbalckout. In parte penso che sia giusto e vero, non siamo nel Vietnam dove per la prima volta l’avvento della violenza nelle case degli americani ribaltò l’opinione pubblica. Tuttavia è la prima volta che si presenta una situazione del genere nell’era di internet. La diffusione dei video nella rete è così capillare e orizzontale che le decisioni delle redazioni online sono una goccia nel mare virtuale; io stesso ho deciso di non mettere alcun video nella ferma convinzione che chiunque sappia cos’è Google riuscirà a farlo per fatti suoi nel giro di 3 minuti. E’ un problema di narrazione che l’articolo di Simon Cottee su The Atlantic ha centrato perfettamente, è per questo che gli Stati Uniti hanno aperto il Department’s Center for Strategic Counterterrorism Communications (CSCC) per opporre una narrazione positiva della lotta al terrorismo. Nel caso di James Foley però fu la stessa Casa Bianca a rivolgersi a Youtube e Twitter per rimuovere le immagini e per bloccare gli account che rilanciavano i link, e recentemente anche l’Ue si è rivolta ai giganti della Silicon Valley per combattere la propaganda jihadista (qui trovate un magistrale articolo sulla comunicazione social del Califfato). Questo crea due enormi problemi che per adesso sono stati ignorati. Il primo è delegare l’azione di lotta al terrorismo a compagnie che sono private, ed essendo tali hanno come obiettivo la massimizzazione del profitto. Infatti quella che Obama ha fatto a Twitter e Youtube non era altro che un gentile richiesta, non un ordine vincolante. Le grandi compagnie non si sono mai fatte troppi scrupoli nello sfruttare il click baiting a propri vantaggi, visto anche che cercare di rimuovere dalla rete un contenuto del genere e come cercare di chiudere una falla mentre altre 100 se ne stanno aprendo. Tuttavia il fatto che le grandi aziende di dati stanno accumulando più potere di molti parlamenti nazionali è un dato di fatto che nel bene e nel male va riconosciuto. La cosa che invece più mi preoccupa è proprio il fatto che Twitter sia stato così recettivo alla richiesta della Casa Bianca: rimuovere dei contenuti da una community è di fatto censura. La censura presuppone una linea editoriale, che per sua definizione si trova nel campo dell’opinabile. Nonostante l’atrocità delle immagini non si può non coglierne il contenuto politico presente in esso. Allora se Twitter usa metodo discrezionale per selezionare dei contenuti che, oltre ad avere un carattere violento ed osceno hanno una connotazione politica, fino a dove potrà arrivare? Se domani decidesse che le immagini delle stragi in Palestina fossero da bannare perché troppo cruente che cosa riusciremmo a fare noi, che gli stiamo chiedendo in ginocchio di rimuoverne altre?

Filippo D'Asaro
Nasce a Roma nell’ottobre del 1992. La sua laurea triennale in scienze politiche si è rivelata fondamentale per scrivere articoli, tenere un blog personale e portare hamburger ai tavoli.
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