Il mio precedente articolo sul tema dell’analfabetismo funzionale ha avuto un riscontro inaspettato in termini di condivisioni, di visualizzazioni e di reazioni, sicuramente piacevole per chi scrive, visto che lo scopo è sempre quello di suscitare interesse e stimolare un dibattito, ma insomma, se l’avessi saputo forse sarei stato più attento. Ecco quindi che sento la necessità di approfondire l’argomento, cercando di chiarire alcuni punti e rispondere ad alcune delle osservazioni, o anche critiche, rivoltemi. Mi è parso di capire, infatti, che per molti le mie riflessioni avessero il sapore dell’irresponsabile negazionismo intorno a un fenomeno invece gravissimo, da affrontare con decisione. Occorre allora che ribatta a questa obiezione.
È del tutto palese che, oltre a una situazione di arretratezza descritta dalle varie indagini internazionali, esiste anche un “analfabetismo percepito” che è il vero oggetto del nostro discorso, un po’ come è possibile separare nelle statistiche la criminalità reale da quella percepita (e comunque destinata ad avere effetti concreti nella società in termini di legislazione, abitudini sociali, ecc.). Non conta tanto il fatto che i due dati potrebbero anche camminare in direzione contraria, come pare proprio succeda a proposito del tasso di criminalità (il numero di omicidi tende a calare, ma la gente si sente sempre meno sicura); l’importante è che si tratta – o dovrebbe trattarsi – di due fenomeni diversi anche nel caso in cui vadano d’accordo: da un lato la realtà, dall’altro la percezione della realtà.
Il numero di omicidi in un dato paese, però, è un dato abbastanza oggettivo e non interpretabile, non essendoci moltissima elasticità intorno a cosa deve contare come “omicidio”. Le cose non stanno così per una statistica che invece dovrebbe misurare le competenze alfabetiche, ed è esattamente questo che abbiamo cercato di mostrare. Quelle indagini, beninteso, sono oggettive quanto possono esserlo delle ricerche che si muovono sul terreno delle scienze umane, e sono svolte da professionisti ai quali non mi sognerei di insegnare il mestiere, ma molto tendenzioso è stato il modo di presentarle da parte dei media e dei vari commentatori, per esempio quando hanno sostenuto che l’80% degli italiani sia analfabeta funzionale, anche se questo non stava scritto da nessuna parte.
Il problema, qui, è che le indagini empiriche non vengono usate tanto per modificare e influenzare quella che è la diffusa percezione dell’analfabetismo nel nostro paese, quanto per il fine opposto: le ricerche, non importa quanto rigorosamente condotte, vengono lette e interpretate alla luce di quello che già si sa o si crede di sapere. Potremmo svolgere un confronto con un altro famoso indicatore che ha parimenti delle pretese di scientificità ma che in realtà – lo ammettono ormai molti psicologi – non serve ad altro che a fissare e confermare i nostri pregiudizi: il quoziente intellettivo. Non esiste, infatti, un criterio di valutazione dell’intelligenza che sia indipendente dal test, con l’eccezione del senso comune. Ed è su quello, che i risultati dei test devono adagiarsi se vogliono essere considerati affidabili (si potrebbe leggere, sull’argomento, il classico Intelligenza e pregiudizio di Stephen Jay Gould).
Un qualsiasi test che desse risultati fortemente contrari al senso comune, dove ad esempio fossero classificate sotto la media le persone istruite e di successo, e sopra la media quelle che non riescono a completare il percorso scolastico, sarebbe immediatamente gettato via (anche se vengono tollerate singole eccezioni destinate a confermare la regola). Allo stesso modo è destinata a rinforzare i nostri pregiudizi qualsiasi misurazione delle competenze alfabetiche che, invece di limitarsi a una nozione di alfabetismo il più possibile ristretta e rigorosa, si impicci con soglie di “funzionalità” ambiguamente definite e arbitrariamente fissate.
Quel che dobbiamo chiederci, in definitiva, non è quale sia la “reale” quota di popolazione funzionalmente analfabeta in Italia, non essendoci nessuna realtà oggettiva dietro questa espressione, ma quali siano le cause della percezione dell’analfabetismo, e quali fenomeni vi stiano dietro. Perché insomma, si ha un bel minimizzare il problema, ma basta dare un’occhiata in giro, no? Siamo letteralmente circondati da sub-umani incapaci di articolare un discorso, da persone che guardano i programmi di Maria De Filippi, che credono alle scie chimiche, eccetera (per non dilungarsi troppo e non ripetersi, basta citare nuovamente un vecchio post di Giulia Blasi). Da dove vengono tutte queste persone?
Registriamo, en passant, la contraddizione per cui sarebbe proprio un popolo prevalentemente analfabeta a dirsi terrorizzato dall’analfabetismo e dalla diffusissima ignoranza: gli insiemi devono per forza intersecarsi, e buona parte dei profeti di sventura dev’essere a sua volta analfabeta per qualcun altro. Ma la verità, per farla breve, è che questa visione altro non è che un indicatore di progresso e delle nostre più alte aspettative. Come dicevamo, la trasformazione della società fa sì che vengano richieste competenze sempre più complesse, ed è tutto sommato naturale (ma non è detto che sia salutare) il sentimento dell’ansia per il non riuscire a stare al passo, quindi la percezione dell’emergenza continua e la sensazione di avere un piede sull’orlo dell’abisso, di non aver costruito a sufficienza da garantirci un futuro sereno. Eppure, se c’è un senso in cui è davvero possibile parlare di limiti dello sviluppo, è proprio questo: non possiamo rendere la nostra popolazione infinitamente colta ed efficiente, o almeno non per forza. Spiace dare questa delusione, ma gli esseri umani non sono smartphone.
Nello scendere a patti con la natura umana e la sua non infinita malleabilità, ricordiamoci anche che essere persone più istruite non significa affatto essere persone migliori. Anzi, il rischio è proprio quello di fornire un’arma a qualcuno che non è capace di usarla responsabilmente. I vari cospirazionisti che riempiono il web di strane teorie sono proprio persone che fanno cattivo uso (dal nostro punto di vista) dell’istruzione ricevuta. È proprio quell’istruzione che li mette in grado di maneggiare, maldestramente, i concetti scientifici alla base dei loro deliri, menzionando il secondo principio della termodinamica o le leggi della meccanica quantistica per difendere l’ipotesi che il cancro si cura col bicarbonato, che la terra è piatta, e il signoraggio bancario serve a finanziare le scie chimiche. E siccome col legno storto dell’umanità non potremo mai ottenere un bastone diritto, per quanto lavoro ci impieghiamo, i nostri sforzi per una maggiore alfabetizzazione, per un’istruzione ancora migliore diretta al popolo, avranno l’effetto di produrre ancora più cospirazionisti, non meno.
Esiste un luogo virtuale nel quale gli analfabeti (o coloro che descriviamo come tali) amano manifestarsi, ed è Facebook. Ma la faccenda paradossale è che per essere visibili su Facebok occorre saper scrivere, essere alfabetizzati. Facebook può essere considerato la killer application per quanto riguarda la tecnologia della scrittura, nel senso che milioni di persone che non si sarebbero mai sognate di prendere una biro in mano per cose che andassero al di là dello scrivere «saluti e baci» su una cartolina hanno improvvisamente cominciato a esprimersi, a esistere. In realtà c’erano anche prima, solo che non li vedevamo. Quel che è certo è che questi nuovi arrivati non ci piacciono affatto, hanno un cattivo odore e non rispettano le nostre regole, ed è esattamente questo che li rende poco funzionali. L’esistenza, inoltre, di profili su Facebook che si fingono volutamente scemi allo scopo di attirare gli strali indignati della popolazione “colta”, unita al fatto che – non importa quanto poco verosimile sia la provocazione – qualcuno ci casca sempre (penso a Chiara Mentemento o alla bravissima Martina Dell’Ombra) – ci fa capire come gli analfabeti funzionali rispondano in realtà a un’esigenza psicologica fondamentale: ci fanno sentire più intelligenti di qualcun altro.
Il fatto è che stiamo assistendo ormai da qualche decennio a una trasformazione epocale di quella tecnologia, di portata pari all’introduzione della stampa a caratteri mobili. (Per desacralizzare il concetto della scrittura, credo che aiuti ricordare come sia solo una fra le tante tecnologie che ci migliorano la vita). Di cosa si tratta, quindi: di un progresso o di un sintomo del declino della civiltà? Dobbiamo preoccuparci o possiamo stare tranquilli? Forse dovremmo semplicemente ammettere che la trasformazione in atto è troppo grande perché noi possiamo pretendere di capirla e dominarla. Di sicuro non possiamo farlo utilizzando una vecchia mentalità, interpretando la realtà secondo schemi rigidi, unilineari, semplicistici. Non possiamo rifiutarci di considerare che ciò che deprechiamo come esempio di degenerazione linguistica potrebbe essere solo un uso moderno e innovativo dei mezzi di comunicazione, dall’usare abbreviazioni e kappa all’esprimersi tramite gif animate e meme.
Soprattutto, credo che dovremmo resistere alla tentazione di sottoporre a controllo e censura le modalità di espressione alfabetica, e di porci come guardiani del corretto uso della parola: un ruolo al quale, rimanendo in ambito strettamente linguistico, ha ormai e giustamente rinunciato anche un’istituzione come la Crusca, ancora percepita presso la maggior parte delle persone come “custode e guardiana della lingua italiana” nonostante abbia in prevalenza scopi di ricerca. Allargando il discorso all’intero ambito culturale, dovrebbe esser considerato ancor più pericoloso il tentativo – mi viene da dire totalitario, tanto più se proveniente da un’autorità centrale – di definire un criterio universale di “funzionalità”, quali che siano le nostre opinioni personali su singoli casi di ignoranza o cattivo uso degli strumenti culturali.
Quando sento parlare dell’emergenza costituita dalla crescita degli analfabeti funzionali mi vengono in mente i cospirazionisti citati prima, ma penso anche al mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio, giustiziato per eresia alla fine del Cinquecento, celebre protagonista del saggio storico Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg. Quando perquisirono la sua casa, fra i vari libri proibiti trovarono anche copie di una Bibbia in volgare. Come sappiamo, l’invenzione della stampa a caratteri mobili aveva contribuito un secolo prima al diffondersi di nuove e pericolose idee anche presso gli strati della popolazione meno illustri. Per la prima volta, anche persone che non conoscevano il latino ma erano per il resto alfabetizzate potevano leggere i testi sacri senza la mediazione dei sacerdoti, e farsi delle idee autonome sul loro contenuto. Idee che a volte venivano assimilate in modo bizzarro, come quelle che condussero Menocchio al rogo: «tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume, andando così, fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel diventorno vermi, et quelli furno li angeli […] et tra quel numero de angeli ve era anco Dio, creato anchora lui da quella massa in quel medesmo tempo […]». La Controriforma fu proprio quel movimento che cercò di limitare e tenere sotto controllo l’accesso alla cultura da parte di un numero di persone molto più ampio che in precedenza, anche in questo caso procedendo a serie ricerche e indagini, o inquisizioni, sulla popolazione.
Non c’è dubbio che Menocchio corrisponda pienamente alla nostra definizione di analfabeta funzionale: sapeva leggere, certo, ma non sapeva fare buon uso di questa competenza, e le sue convinzioni rimanevano ancorate alla sua esperienza personale, alla concretezza del quotidiano – il formaggio, i vermi –, non si elevavano all’astrattezza necessaria al pensiero teologico, come forse avrebbero potuto fare se Menocchio avesse avuto l’umiltà di sottomettersi a una buona guida spirituale. Che il suo livello di competenza non raggiungesse la soglia della funzionalità, insomma, è dimostrato proprio dalla brutta fine che gli hanno procurato le sue letture.