Anzi, cominciamo mettendo un bel punto di domanda al titolo: già, perché? Che cos’ho io che non va? Che ho fatto di male? E cominciamo anche a chiarire quella specificazione politica un po’ inusuale: “medio-progressista”. Nonostante un dottorato in filosofia alle spalle, e una tesi proprio in filosofia politica, il mio manuale di riferimento su certi temi resta Fantozzi — e già questa confessione potrebbe contenere la risposta all’interrogativo di cui sopra —, e ricordo la volta in cui il ragioniere, catechizzato dal compagno Folagra, «giovane intellettuale di estrema sinistra che tutti, Fantozzi compreso, avevano sempre schivato, per paura di essere compromessi agli occhi dei feroci padroni», si diede a «tre mesi di lettura maledette» che lo porteranno alla marachella rivoluzionaria, al gesto eversivo, una sassata contro il vetro di una finestra della Megaditta, con conseguente convocazione al ventottesimo piano dal Megadirettore Galattico in persona. Persona dai modi pacati e sostenitore di una sorta di infinita democrazia deliberativa che proseguirà «fino a che non saremo tutti d’accordo», egli si dimostrerà più mansueto del previsto, almeno inizialmente, e svelerà un’inaspettata fede politica: «Bè, proprio comunista no… Vede, io sono un medio-progressista». Il vantaggio di una tale definizione è palese ai miei occhi, perché essa sembra svelare molti punti di contatto con la categoria del Midcult, tanto che a venir fuori dall’inedita teoria a doppia firma Paolo Villaggio-Dwight Macdonald sarebbe così una classe perfettamente delineata: una sinistra culturale (o medio-culturale), ancor prima che politica, che utilizza indifferentemente i gusti culturali e l’ideologia ai fini della propria identificazione.
E niente, insomma: il dottorato di ricerca ce l’ho, ma l’ho usato male, essendomi più applicato nell’ennesima visione de Il secondo tragico Fantozzi che nella rilettura di Teoria generale della politica di Norberto Bobbio; speravo in ogni caso di riuscire a essere ammesso nell’élite grazie alla mia fede politica, no? Un altro buco nell’acqua. Anni di militanza a sinistra, e che te ne fai? Anni di tessere di partito giuste, tutte pronte per essere tirate fuori dal fondo del cassetto degli errori e per essere mostrate a chi sarà inviato a giudicare la mia candidatura, e finisci per scoprire che non servono più, che averle avute, anzi, ti fa perdere ulteriori punti, perché avrei dovuto occuparmi della “cosa pubblica”, sì, ma auto-proclamandomi membro della società civile e basta, avrei magari dovuto essere prima viola, poi arancione, appoggiare Rodotà, e tutto il resto. Pensavo di far bella figura ad andare in sezione a ricevere la mia bella formazione togliattiana? Ad appartenere, per di più, alla corrente di destra di un partito di sinistra? E che sinistra è? Sono stato un idiota. Di volta in volta, mi sembrava che l’élite stesse dall’altro lato, e non facevo nulla per rimediare: loro girotondavano intorno al Palazzaccio e io non c’ero, loro si riunivano tutti al Circo Massimo — tre milioni di elitisti! — e io, da casa, li sfottevo ed ero pure favorevole a modificare l’articolo 18. Che pretendo, poi? Zitto dovrei stare, e tenere il capo chino.
Adesso, i nodi giungono al pettine: la vittoria di Trump, le solite accuse ai radical chic lontani dal “ventre molle” dei territori, e le giuste manifestazioni di protesta, che non si fermano e che esprimono la fierezza della borghesia democrat che si risveglia… Anche in Italia, sembra di vivere giornate di Élite Pride: si leggono rivendicazioni molto orgogliose di progressisti molto benestanti, che si auto-definiscono come tali, non nascondendo buoni studi e raffinatissime letture. Tutti amici miei, eh, almeno su Facebook: e tutti all’unisono, come un sol uomo (o tutte, come una sola donna, più spesso), a fotografare e pubblicare gli articoli di Internazionale e di pagina99, i più attardati anche quelli de il manifesto («Bè, comunista proprio no…»: non ricordano la precisazione del Megadirettore?), a esibire vassoi per la colazione a letto con sopra freschissime spremute d’arancia e volumi di Agota Kristof o di Kent Haruf — non ho capito bene per quale motivo gli scrittori con la effe finale vadano così tanto di moda, ma se lo avessi capito sarei probabilmente già uno dell’élite e potrei smetterla con questa lamentazione.
La morale è che leggo anch’io un sacco di libri, ma inutilmente, perché i libri che leggo io non mi faranno fare un solo scatto verso l’unico, vero obiettivo sociale di questi anni Dieci, l’ammissione all’élite medio-progressista: anzi, faranno ancor di più precipitare la mia candidatura, ho l’impressione. Loro si sono interessati, con altruismo e sincera partecipazione, al dramma del precariato, io ho passato anni a correre dietro ai Tigrotti di Mompracem; loro hanno seguito da vicino tutti i tentativi di Grande Romanzo Americano che hanno impegnato i vari Franzen, De Lillo e Safran Foer, io sono andato a rincantucciarmi nella provincia italiana con Piero Chiara e Mario Soldati; loro si sono spesi nelle manifestazioni pacifiste e terzomondiste, mentre io, povero imbecille, che facevo? Mi appassionavo ai romanzi coloniali — o colonialisti! — di Simenon, Somerset Maugham e Graham Greene. A questo punto, non so più che fare, ho vuotato il sacco: tanto, loro sapevano già tutto, l’ho capito da come mi guardavano. Non posso che appellarmi al loro grande cuore progressista: che abbiano misericordia di me, dimostrando per l’ennesima volta la propria superiorità.