Riflessioni sulla panarchia
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Riflessioni sulla panarchia

Nella celebre definizione di Max Weber lo Stato è l’organizzazione che rivendica con successo il monopolio della violenza fisica legittima su un dato territorio. Si tratta di una definizione in perfetta continuità con il concetto hobbesiano di sovranità: l’idea è che lo Stato offre un certo servizio ai propri sudditi — consistente in sicurezza e […]

Nella celebre definizione di Max Weber lo Stato è l’organizzazione che rivendica con successo il monopolio della violenza fisica legittima su un dato territorio. Si tratta di una definizione in perfetta continuità con il concetto hobbesiano di sovranità: l’idea è che lo Stato offre un certo servizio ai propri sudditi — consistente in sicurezza e protezione dalla violenza altrui — in cambio del monopolio su questo servizio e quindi dell’esercizio della forza. Secondo tale visione la violenza è legittima in quanto derivata dalla finzione del contratto sociale col quale gli individui rinunciano al loro diritto di usare la forza cedendolo allo Stato, ma si potrebbe sospettare che nella realtà la legittimità derivi dal monopolio piuttosto che il viceversa (cioè da una situazione in cui qualcuno ottiene il predominio sugli altri facendo uso di una violenza non esattamente legittima).

Ora, le correnti di pensiero politico-economiche della costellazione libertaria che possono essere riassunte nel motto laissez faire, laissez passer ritengono che i monopoli — che si tratti di offerta di beni o di servizi — siano sempre inefficienti e quindi costituiscano un danno piuttosto che un vantaggio per i consumatori, i cui diritti sarebbero meglio garantiti da una situazione di concorrenza in un mercato libero. Sembrerebbe quindi una logica conseguenza dell’ideologia libertaria l’abbattimento di quest’ultimo monopolio, quello della sicurezza, cosa che comporterebbe anche la fine dello Stato come lo conosciamo. Eppure per qualche motivo si tratta di un’idea difficile da concepire, il che potrebbe far pensare che la sicurezza sia davvero un bene particolare, distinto da cose che possono funzionare ottimamente in regime concorrenziale come i trasporti, la salute, l’educazione, o le comunicazioni. La questione è capire cosa abbia di così diverso.

Una raccolta antologica di brevi saggi uscita da poco a cura di Gian Piero de Bellis, dal titolo Panarchia, potrebbe essere un ottimo spunto di riflessione sul tema. Il panarchismo è una filosofia politica secondo la quale gli individui hanno il diritto di aderire, in assoluta libertà, al sistema statale che preferiscono, o anche di non aderire a nessuno di quelli già esistenti, e crearne di nuovi. La differenza rispetto a una filosofia semplicemente anarchica consiste nella (almeno apparente) neutralità rispetto ai vari sistemi politici, per la quale uno stato di tipo autoritario e fascista non sarebbe affatto da combattere e condannare, se solo tutti i suoi cittadini vi aderissero volontariamente. L’altro elemento di originalità consiste nella totale indipendenza fra il sistema di governo al quale decidere di aderire e il territorio nel quale risiedere: il cittadino che volesse ubbidire alla legislazione francese o paperopolese, cioè, non avrebbe nessun bisogno di recarsi in Francia o a Paperopoli per farlo, ma basterebbe un sistema che certifichi la sua appartenenza a quello stato, che potrebbe anche essere del tutto privo di territorio.

 

 

Il primo scritto della raccolta (dopo le introduzioni), Sulla produzione della sicurezza di Gustave de Molinari (1849), si riferisce proprio alla questione del monopolio e auspica una concorrenza fra varie agenzie per meglio raggiungere lo scopo della protezione degli individui. Questo scritto era già stato indicato, da Murray Rothbard nel 1971, come la prima esposizione del complesso di idee oggi note come anarco-capitalismo, ma secondo il curatore de Bellis si tratta piuttosto della prima proposta panarchica (purtroppo non recepita dagli ambienti politici radicali dell’epoca). Il termine “panarchia” sarebbe però comparso solo undici anni più tardi (1860) a costituire il titolo di uno strano scritto di un botanico belga, Paul Emile De Puydt. Ma si tratta davvero della stessa proposta?

Nel leggere il testo di De Puydt è difficile non provare una certa sensazione d’imbarazzo per la sua “originalità”, sensazione che non si prova di fronte al testo di Molinari, e che forse è dovuta all’indeterminatezza di quest’ultimo se confrontata con la precisione di De Puydt nel descrivere il suo progetto, il come possa funzionare da un punto di vista pratico. De Puydt immagina cioè che esista una sorta di anagrafe dove le persone vanno a registrarsi periodicamente per indicare di quale stato desiderano essere considerati sudditi: «io Erik Boni dichiaro di sottomettermi alle leggi dello stato italiano / della repubblica di Paperopoli / della comunità pastafariana / dei nazisti dell’Illinois».

Un simile ufficio naturalmente avrebbe dei costi di gestione quindi si pone il problema di chi se ne farebbe carico: una possibilità è che i costi vengano sostenuti dai vari stati in proporzione al loro numero di sudditi, ma siccome i costi lieviterebbero troppo se si permettesse la creazione di un numero qualsivoglia di stati, composti magari di un solo soggetto, sembra ragionevole richiedere un numero minimo di sudditi per essere ammessi nell’anagrafe degli stati. Ci sarebbe poi il problema di coloro che passano da uno stato all’altro con eccessiva disinvoltura magari nel tentativo di venire meno ai loro doveri di sudditi (come pagare le tasse) quindi per prevenire il fenomeno occorre un regolamento per il quale chi si dichiara suddito di uno stato si impegna a rimanervi per un certo periodo di tempo. E naturalmente, per risolvere i conflitti fra i vari stati — che ad esempio potrebbero rivendicare la loro competenza sullo stesso suddito — occorre una meta-legislazione o almeno una serie di accordi fra stati. Ma aspettate un momento, si tratta di un’utopia anarchicheggiante o dell’ennesimo incubo burocratico?

Il punto debole della proposta panarchica potrebbe allora essere inquadrato in un eccesso di positivismo giuridico che è a mio avviso incompatibile col principio libertario del laissez faire. I rapporti giuridici fra individui, in una visione genuinamente liberale, non costituiscono il risultato di una decisione improvvisa ma sono piuttosto l’esito storicamente determinato (in un certo senso “naturale”) di un lungo processo che a un certo punto può essere opportuno mettere su carta, ma senza che questa messa per iscritto li determini. De Puydt scrive nell’epoca in cui la concezione della legge come prodotto della volontà di un sovrano è più forte che mai, e il suo scritto ne risente: invece di immaginare una situazione in cui il monopolio statale viene eroso dal basso egli moltiplica il numero dei Leviatani tramite un generoso fiat, un gesto burocratico.

 

 

Altra ingenuità mi pare l’insistenza, negli scritti di de Bellis e altri, nel descrivere il panarchismo come una teoria politica neutrale rispetto ai vari anarchismi di destra o sinistra (fra anarco-capitalismo e anarco-sindacalismo), o se è per questo rispetto a qualsiasi altra concezione politica. Il panarchismo, anzi, in quanto idea di tolleranza riguardo a tutte le forme di Stato abbracciate volontariamente, non sarebbe affatto una teoria politica, nello stesso senso in cui l’idea di tolleranza religiosa non è una religione. Il paragone però mi sembra fallace perché la tolleranza religiosa è, appunto, un’idea politica (peraltro faticosamente messa in pratica), un modo che è stato trovato per gestire i rapporti fra individui che calpestano lo stesso territorio.

A questo proposito si potrebbe anche osservare che esiste un motivo abbastanza semplice per cui non è così facile, come immaginano i panarchici, sganciare l’appartenenza politica dal territorio: condividere un territorio significa necessariamente condividere delle risorse, significa dover affrontare delle scelte in comune, convivere appunto, e la politica non è nient’altro che questo. E no, il fatto che le nuove tecnologie di comunicazione oggi ci consentano di creare delle comunità virtuali fra persone che vivono magari agli antipodi non significa che possiamo prescindere dalla nostra collocazione territoriale concreta. Usando l’argomento dell’uomo di paglia si potrebbe dire che in una società panarchica tutti sarebbero liberi di decidere se guidare a destra oppure a sinistra; in realtà de Bellis nega una conseguenza del genere (nessuno intende proporre una pluralità di codici della strada da usare contemporaneamente), e si tratta in effetti di una semplificazione ingenerosa, che però rappresenta la prima perplessità del lettore.

Ma tornando al tema della neutralità panarchica al sottoscritto invece sembra chiaro che il panarchismo altro non sia che una variante di anarco-capitalismo o che perlomeno appartenga alla costellazione libertaria molto più che all’anarco-comunismo. Del resto l’asimmetria fra una società di tipo comunista e una società di tipo libertario è sempre stata sottolineata come argomento a favore del libertarismo: una società comunista, cioè, non potrebbe tollerare il libertarismo al suo interno e dovrebbe proibire certe pratiche, mentre una società libertaria potrebbe benissimo (anzi dovrebbe) ammettere al suo interno delle enclaves comuniste, come del resto accade per esempio in Israele con i kibbutz.

Cosa ci piace del panarchismo, allora? Se prescindiamo dalle ingenuità di De Puydt prima di tutto ci piace l’idea di pluralismo giuridico, di un diritto non monolitico ma sfaccettato e plurale che si esercita su un territorio in modo differenziato a seconda delle situazioni e degli individui, ai quali si applicherebbero complessi di norme personali. Il bello è che non si tratterebbe, in realtà, di una novità storica, come viene spiegato nella presentazione di Ventura, ma era la situazione in Europa durante il Medioevo. Fondamentale a questo proposito la lettura de L’ordine giuridico medievale di Paolo Grossi, che non è soltanto un eccellente lavoro storico sul diritto medievale, ma vuole esserne una riscoperta in chiave anti-moderna.

Collegato al tema del pluralismo giuridico vi è l’altro aspetto davvero interessante del panarchismo: il superamento di un certo individualismo che affligge le teorie libertarie radicali, incapaci di immaginare forme legittime di potere intermedie fra il Leviatano statale e il singolo individuo. Qui potrebbe esserci una risposta parziale alla domanda da cui siamo partiti: perché è così difficile immaginare di fare a meno del monopolio della forza, persino in ambito liberale? In parte perché lo statalismo e l’individualismo si sono sempre sostenuti a vicenda, in quanto nella sua evoluzione storica lo Stato liberale emerso dalla Rivoluzione Francese è concepito proprio come forma di difesa dell’individuo da quelle forme intermedie. Se è vero che la concorrenza e la libertà d’impresa implicano la rinuncia a interessi corporativi, ordini professionali, privilegi particolari e via dicendo, con tutte le vessazioni a loro annesse, è pure vero che occorre un’organizzazione superiore che garantisca tale uguaglianza di tutti i cittadini di fronte all’unica legge esistente (una mia riflessione sul tema, se interessa, la si trova qui).

Ma è un peccato che in tale modo sia andata persa la dimensione per così dire “solidale” che animava le prime comunità anarchiche. Per riprendere il paragone con la religione, è un po’ come se il principio laico della libertà di professare qualsiasi fede religiosa avesse prodotto come risultato l’estrema solitudine del fedele, piuttosto che la condivisione, la comunione mistica tra “fratelli” propria dell’esperienza religiosa. Per quanto riguarda l’avvento dello Stato liberale sembra che nella dialettica fra libertà e uguaglianza sia stata trascurata la terza parola d’ordine della Rivoluzione Francese, la fratellanza, il piacere di essere parte di una comunità e anche il senso di identità che ne deriva.

Il panarchismo pare così offrire una sintesi apparentemente impossibile fra l’anarchia e il patriottismo, la libertà di scelta e il sentimento di appartenenza a un popolo, con l’obbedienza ai suoi valori e principi. È solo un peccato che, a nostro modesto parere, la costruzione di tali nobili sentimenti non possa avere origine dal semplice gesto di una firma in un ufficio.

Erik Boni
Erik Boni, nato nel 1972, laureato in filosofia, studioso di archivistica, impiegato presso una prestigiosa biblioteca italiana, ha una passione per le idee libertarie che di solito cerca di comunicare tramite un blog L'albero di maggio.
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