Quando, come un fulmine a ciel sereno, Jacobin Italia è stato lanciato sui social, abbiamo tutti, istantaneamente, drizzato le orecchie.
Fondato a New York nel 2010 da Bashkar Sunkara, circa un anno prima dell’inizio del movimento Occupy Wall Street e tre prima di Black Lives Matters, in questi pochi anni il magazine americano è riuscito a diventare un faro per la cultura e la comunicazione della sinistra americana e mondiale, con circa 30.000 abbonati e un milione di lettori mensili sparsi per il mondo, mettendo in evidenza forti affinità politiche con figure quali Alexandria Ocasio-Cortez in America e Jeremy Corbyn nel Regno Unito.
Questi risultati sono stati possibili grazie a un approccio moderno e fresco a materie di stampo marxista, socialista e più in generale di sinistra: un approccio che si appoggia largamente sulla cultura contemporanea in tutte le sue sfumature, dalle più “elevate”, accademiche e riservate a quelle spesso tralasciate dai media tradizionali, più vicine alla vita di tutti i giorni, ai fenomeni pop; a volte usando questi ultimi contro il sistema che rappresentano, a volte valorizzandoli o ancora usandoli come chiavi di volta e comprensione di qualcosa di più grande.
È un processo simile a quello portato avanti dai giacobini neri di Haiti — la cui silhouette è il simbolo del magazine —, che durante la rivoluzione degli schiavi contro il colonialismo francese, si impadronirono dei simboli dei loro oppressori per metterli davanti alle loro stesse nefandezze, alle loro stesse contraddizioni, a un sistema che funzionava solo nelle fantasie e negli slogan.
Per parlare del lancio dell’edizione italiana del magazine abbiamo incontrato David Broder, redattore europeo di Jacobin Mag, storico inglese specializzato nella storia del comunismo Italiano e Francese, di stanza a Roma dal 2011.
Ci sediamo a un tavolino del Bar Marani, a San Lorenzo, in Via dei Volsci, e cominciamo una lunga chiacchierata sul magazine, la sinistra italiana, il dibattito culturale interno ed esterno a questa e su quanto in generale siamo fottuti in questo preciso momento storico. Jacobin è qui per fare qualcosa.
Come mai questo lancio italiano?
Molti redattori del Jacobin originale sono interessati alla storia della sinistra italiana, anche se riconosciamo che allo stato attuale è fottuta, non esiste più in pratica, anche le esperienze più recenti sono fallite. Non lo dico per liquidare lo sforzo dei compagni, ma è evidente che c’è un problema molto grave, la sinistra italiana è la peggiore in Europa. Non solo a livello di partecipazione ma anche proprio a livello culturale. Questo perché c’è una serie di piccoli partiti o di “scene”, che vogliono incarnare la vecchia tradizione e la proteggono gelosamente però non sanno espandersi al di là di quel piccolo circolo, o creare qualcosa con funzione egemonica. Quindi c’è anche un problema di orizzonti, ambizioni e comunicazione. Non che noi possiamo salvare l’Italia da soli, il nostro non è un intervento umanitario, però bisognava fare qualcosa, e mi sembra ovvio che non ci sia qualcosa di simile a Jacobin in Italia. Ci sono alcune riviste di sinistra, però non hanno la nostra funzione, il nostro stile e la nostra politica.
Io sono il redattore europeo di Jacobin, sono arrivato qui nel 2011 per le ricerche del mio dottorato, ho scritto tantissimi articoli sull’Italia e ne ho commissionati altrettanti: questo per dire che l’Italia è già il nostro quarto mercato mondiale, il primo fra i paesi non anglofoni. Sia perché parliamo spesso del paese sia perché colmiamo un vuoto nel panorama della stampa italiana.
Una cosa che incuriosisce è che negli Stati Uniti, soprattutto nell’ultimo periodo, avete trovato nel partito socialista americano (il DSA) un forte interlocutore e un’intera generazione di giovani a sostegno. Qui in Italia pensate sia possibile ricreare qualcosa del genere, c’è qualcosa o qualcuno, a livello politico e sociale, con cui pensate sia possibile interfacciarvi?
Noi non rappresentiamo una corrente politica, si potrebbe dire che c’è qualche tratto tipico della rivista americana, ma dietro non c’è una teoria politica, abbiamo un approccio molto ecumenico. C’è anche da dire che al momento del lancio di Jacobin, nell’autunno 2010, non esistevano ancora i movimenti di ora, da Occupy Wall Street a Black Lives Matters, c’era già Sanders ma parliamo di un periodo difficilissimo per la sinistra americana, senza segni di speranza. Quindi la cosa importante fu creare uno spazio culturale, una rivista che poteva parlare di socialismo e ravvivare quel dibattito. Quando poi i movimenti di cui parlavo sono nati la nostra rivista gli ha dato un orientamento e un segnale politico, ma anche viceversa. Non è che noi siamo sandersiani, però la sua campagna ha fatto sì che finalmente si è potuto parlare di socialismo negli Stati Uniti, nel caso italiano questo tipo di movimento non esiste o comunque è molto molto debole. Noi vogliamo ricollegare il dibattito italiano a quello internazionale, anche sprovincializzandolo un po’, però non è che vogliamo calare sul contesto italiano un modello straniero. Movimenti e reisistenze ci saranno, non possiamo prevedere quali e cosa saranno; ovviamente ci sono e ci saranno interlocutori, non so però che forma prenderanno. Faremo resistenza a questo governo, ma non è mai un processo automatico, potremmo dire di essere all’inizio di un ipotetico decennio, ventennio, leghista quindi la situazione è molto difficile, però anche la frammentazione, le mancate ambizioni, l’orizzonte molto ristretto della sinistra italiana sono un sintomo del problema e noi vogliamo superare questa situazione in qualche modo.
Mi sembra di capire che il discorso si possa ridurre a un «noi ci siamo e introduciamo un “nuovo” dibattito culturale e politico, e poi vediamo chi può diventare nostro interlocutore».
Sì è così. C’è poi da considerare che gli individui che partecipano alla redazione vengono da retaggi molto diversi.
Volevo proprio chiederti com’è nata la redazione italiana, chi sono i punti fermi, da dove vengono, che background hanno et cetera.
Io lavoro per la rivista americana, e noi riceviamo moltissime proposte per portare Jacobin nei paesi europei, e nel 95% delle volte diciamo di no.
In questo caso Salvatore Cannavò di Edizioni Alegre mi ha scritto e ne abbiamo discusso insieme. Lui è un ex parlamentare, mi ha detto che si era anche confrontato con Marta Fana , che io avevo già conosciuto e intervistato in passato, e con Wu Ming, così ci siamo visti a Roma: siamo d’accordo sul fatto che non sia una questione di mettere insieme delle diverse esperienze, ma di superare ciò che già esiste, con il rispetto per il pluralismo e così via, ma sì, c’è bisogno di creare qualcosa con una voce e uno stile personale. Anche il fatto di ispirarsi all’esperienza americana in un certo senso supera ciò che già c’è. Ci sono poi altri compagni in redazione, anche abbastanza noti, come Francesca Coin o Alberto Prunetti ma in generale siamo tutti molto giovani, non ci sono sessantottini o vecchi tromboni, solo molti giovani ricercatori con un grande pluralismo di idee e background, come nell’edizione americana c’è un po’ di tutto, non una sola impronta.
Il rapporto con Edizioni Alegre nasce quindi da una loro proposta, da un confronto fra loro e Jacobin Mag.
Sì, loro forniscono sia l’appoggio editoriale sia la partecipazione al desk (sono tre su sette) a livello costruttivo e decisionale, è più di un anno che lavoriamo insieme.
A questo punto il rapporto fra rivista americana e italiana di che natura sarà, anche solo a livello di contenuti originali o tradotti?
Probabilmente circa il 30% dei contenuti saranno tradotti, il resto originale.
Come ho già detto io sono il redattore europeo e partecipo anche alla redazione italiana che sarà autonoma ma ovviamente riporterà contenuti da quello americano: addirittura il primo numero cartaceo italiano riporterà la traduzione di un paio di articoli americani che usciranno solo due settimane dopo. Accadrà sicuramente anche che articoli dell’edizione italiana verranno tradotti per quella americana.
Ovviamente sarà difficile arrivare agli stessi numeri americani, anche solo per stretti motivi demografici e non politici, ma sì, c’è molto da prendere dall’esperienza americana, anche nello stile, in quella sorta di arroganza e irriverenza; alla base c’è la voglia di superare la palude che è diventata la sinistra italiana. Noi ci presentiamo ironicamente come i “comunisti che mangiano i bambini” anche se ovviamente riconosciamo che i tempi sono molto seri, siamo consci che per creare il nostro spazio, una contro egemonia, non sia sempre necessaria una retorica pesante e già sentita.
Il contesto politico italiano poi è ovviamente diverso e complesso, e non è che cerchiamo un Sanders o un Corbyn all’italiana.
E siamo tornati al problema degli interlocutori politici. A questo punto una domanda leggermente provocatoria mi sorge spontanea: in fondo a ognuno di voi c’è la speranza, come dicevi prima magari anche un po’ arrogante, di poter essere una nuova scintilla per una sinistra italiana ormai inesistente, di poter contribuire a una rinascita in un certo senso?
Assolutamente sì, non è che il progetto sia partito con queste intenzioni però c’è.
Non ci interessa rianimare la sinistra nel senso di rimettere insieme D’Alema etc., non ci interessa tanto questo aspetto, però sì assolutamente io spero più che altro che questa rivista abbia un ruolo importante nella ricostruzione del pensiero e della cultura di resistenza, di lotta, della possibilità di immaginare alternative. Noi, e mi ci includo anche io, siamo all’anno zero della sinistra italiana, persino la possibilità di immaginare alternative non esiste. Anche chi si dichiara comunista ha l’obiettivo di mantenere le cose come sono, paradossalmente sono Lega e Movimento cinque stelle che si arrogano il diritto di essere il “governo del cambiamento”: ovviamente non abbiamo la minima fiducia nella loro visione e neanche nella loro capacità di realizzarla.
Ogni numero cartaceo di Jacobin sarà tematico e il titolo del primo sarà Vivere in un paese senza sinistra, perché arrivati a un certo punto bisogna riconoscere il problema prima di poter cercare le risposte.
Nel creare questo nuovo dibattito credo che in America si sia rilevato fondamentale un approccio molto “pop”, più nella presentazione dei contenuti che nei contenuti stessi. Stesso discorso per l’aspetto grafico, anche solo la scelta di un’immagine piuttosto che un’altra nel lancio di un articolo sembra sempre ragionata e curata con la finalità di comunicare il più efficacemente possibile. State lavorando per fare in modo che questo tipo di approccio ci sia anche qui in Italia?
L’aspetto grafico è molto importante, anche perché dimostra la voglia di superare le abitudini delle altre testate, soprattutto quelle di sinistra, così come la tendenza al perfezionamento di ogni aspetto dimostra il fatto che non è un lavoro di routine ma un qualcosa a cui si tiene. Quindi sì, vogliamo essere il più accattivanti possibili, ad esempio evitando il “muro di testo” ovvero l’impatto visivo con una pagina piena di caratteri; si devono superare questo tipo di organizzazioni grafiche se si vuole parlare al di là dei circoli ristretti delle persone già “convinte”. Abbiamo un nostro gruppo di designer con Alessio Melandri al centro, hanno studiato con attenzione il modello americano e ciò che ho visto fin qui è veramente impressionante.
Ovviamente noi prendiamo molto sul serio i temi tradizionali della sinistra come il lavoro, gli scioperi e via dicendo, ma c’è anche da affrontare tutto il regno di cultura e fenomeni pop che riflettono problemi più generali, anche con valenza politica. Quindi sì c’è assolutamente voglia di sviluppare questo approccio anche qui in Italia, io commissiono ogni tipo di articolo, recentemente ne sono usciti uno sui tifosi di calcio dell’ex Jugoslavia quale chiave di lettura per razzismo o tensioni etniche e uno sul ruolo della birra nel socialismo tedesco. È un modo di rendere gli articoli più accattivanti ma anche di dare un aspetto più umano alle questioni; poi non è che il nostro approccio sia superficiale, i nostri sono comunque articoli lunghi e di approfondimento. Molti nostri abbonati e redattori sono studenti, ricercatori e via dicendo, ma non intendiamo parlare solo a loro.
A livello personale/professionale per te non essere in Inghilterra o in America significa rinunciare a qualcosa in questo momento storico senza precedenti per la sinistra di entrambi i paesi, oppure portare avanti un progetto del genere in Italia è una sfida ancora più affascinante?
Io ho partecipato nel 2007 alla campagna del socialista John McDonnell che adesso è il cancelliere ombra. A quei tempi non poteva candidarsi perché mancava ogni tipo di sostegno fra i
deputati laburisti, la sinistra era completamente in rovina.
Nonostante dal 2011 non abbia più vissuto in Inghilterra, un paio di settimane fa ero a Liverpool e la situazione ora è impressionante; si vede una trasformazione molto profonda, soprattutto negli ultimi mesi la figura di Corbyn è emersa fortemente e c’è una vera e propria partecipazione di massa al partito. Quindi sì certo che mi piacerebbe partecipare anche lì ma sono costantemente in contatto con compagni inglesi e ci raccontiamo tutto nei dettagli; Jacobin ha anche comprato una testata inglese che si chiama Tribune, di cui abbiamo fatto il lancio il mese scorso. Lì abbiamo rapporti molto stretti con sindacalisti e deputati; il segretario dell’equivalente inglese della CGIL curerà una rubrica per ogni numero; sono anche in contatto con Jean-Luc Mélenchon, ci sono stato a cena e via dicendo. Non è che loro sono i nostri referenti o i nostri unici interlocutori, però un contatto c’è; qui in Italia per ora non vedo la possibilità di nulla del genere. Per me che sono inglese anche solo il fatto che ci sia una sinistra così radicale nel Regno Unito è già una sorpresa, così come che gli Stati Uniti siano stati uno spunto per la sinistra internazionale è incredibile.
Non si potrebbero neanche volendolo calare nel sistema italiano esperienze come quella di Corbyn o Sanders, per due motivi: uno è che il sistema elettorale dei paesi anglofoni fa sì che il cambiamento deve essere espresso all’interno del partito storico; nei paesi europei non è così. Il secondo aspetto è che la politica di Corbyn o Sanders è molto ristretta, rappresentano una conflittualità molto importante e hanno la capacità di galvanizzare un movimento sociale, però a livello di forme proposte è la social-democrazia. Per me sarebbe molto difficile immaginare come calare calare questa cosa qui in Italia. L’unica cosa che so è che bisogna fare qualcosa e spero che la nostra iniziativa possa dare una mano a cambiare la cultura della sinistra italiana.
Il lancio della campagna abbonamenti ha come slogan «la cospirazione in piena luce». Per definizione si cospira contro qualcuno o qualcosa, voi contro chi la dirigete questa cospirazione?
[ride] Contro tanti! Un problema che riscontro nel PD ma anche in qualche frangente dell’estrema sinistra, è vedere questo paese come se fosse per natura un po’ fascistoide, quasi come se ciò che succede adesso sia radicato nell’humus culturale dell’Italia, e non sia invece un fenomeno generale. In un certo senso l’Italia è stato il laboratorio precursore, anche a causa del vostro sistema politico così frammentato, nel quale si riflette tutto ciò che succede nel mondo. Ciò che voglio dire è che troppi dicono che il problema sia l’Italia stessa, che siano gli italiani, tutti analfabeti funzionali e così via; il nemico non è questo paese o il suo popolo, anche solo doverlo specificare è un po’ strano. Questo tipo di pessimismo culturale conduce a ogni tipo di abiura e mancate ambizioni: i nemici ovviamente sono il governo, la Lega e il Movimento 5 Stelle, ma io voglio che anche i giovani votanti di questi due leggano Jacobin, non scriviamo per l’estrema sinistra, vogliamo proporre quel tipo di immaginario culturale ad un pubblico più ampio. Ciò non vuol dire che concepiamo un dialogo con i partiti al governo, ma con l’elettorato sì. Come “nemico” si possono prendere delle figure politiche, come Salvini, come Calenda o Farinetti e così via, ci sono tanti nemici, e ci piace la stroncatura diretta ogni tanto, però lo facciamo anche in modo ironico.
Il primo numero di Jacobin Italia, Vivere in un paese senza sinistra, arriverà l’8 Novembre prossimo. Aspettiamo trepidanti di scoprire i dettagli di questa “cospirazione in piena luce”.