Non che ciò che si è verificato sia tanto strano per le nostre consuetudini, perché l’Italia non è un Paese in cui, nel corso del Novecento, il pensiero anti-ideologico e anti-totalitario abbia trovato terreno fertile, ma resta che il Parlamento che si è recentemente rinnovato faccia abbastanza impressione: dove stanno i liberali?
Per buona parte della storia repubblicana, il nostro spazio politico è stato pressoché egemonizzato dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista Italiano, per quanto riguarda la partecipazione delle grandi masse popolari; in quei partiti, per definizione e come da titolo, non poteva trovare ospitalità quella strana razza di gentiluomini che sono i liberali, spesso più attenti alle questioni metodologiche che a quelle di contenuto. E ha rappresentato quasi un paradosso vivente, per quanto di estremo interesse da un punto di vista ideologico e di storia delle idee, quella frazione della destra comunista che faceva capo a Giorgio Amendola (il cui padre, va ricordato, fu deputato liberale, oltre che uno dei fondatori del noto quotidiano Il Mondo, prima di morire in seguito alle percosse di un gruppo di squadristi) e che sapeva essere tanto moderna sul piano delle relazioni sindacali e della lotta anti-estremista, quanto risolutamente obbediente ai dettami sovietici su quello internazionale: c’è stato chi ha forgiato per loro l’ossimoro di comunismo liberale, ma è su altro che si avverte più l’urgenza di ragionare, adesso.
In altre parole, l’intenzione sarebbe quella di instillare un dubbio, di avanzare una domanda che riguardi l’applicazione economica dei principi di libertà: siamo certi che l’anti-liberismo sia naturaliter di sinistra o che, addirittura, ogni sinistra possibile debba d’ora in poi fondarsi e riorganizzarsi attorno a questo sacro fuoco? Innanzitutto, sgomberiamo il campo dal primo equivoco: per non far precipitare nella condanna unanime anche il liberalismo, si è pensato bene di scorporare quest’ultimo dal liberismo e spezzare quella che per Marco Pannella era una triade imprescindibile: «Liberale, liberista e libertario». Già, da quanti anni è che non sentiamo più recitare questa formula che sembrava tanto efficace? A prescindere dalla scomparsa del leader radicale, c’è da dire che Emma Bonino sembra aver capito l’antifona e preferisce non disturbare il mostro che dorme, garantendosi il quieto vivere puntando su altro, sui diritti civili e sull’opposizione alla linea di Marco Minniti in termini di politiche dell’accoglienza ai migranti.
In realtà l’intera faccenda potrebbe essere semplificata fino ai minimi termini in questo modo: si dà un liberismo economico senza il liberalismo politico, ma è più difficile che possa darsi un liberalismo politico senza un relativo liberismo economico, e chi sembra averlo capito meglio è proprio la destra parafascista. I militanti di CasaPound Italia, per esempio, si sono presentati come gli anti-liberisti par excellence, tentando di ingaggiare una guerra delle ali estreme con formazioni che stanno (o dovrebbero stare) sul lato opposto della barricata, come Potere al Popolo! o Per una Sinistra Rivoluzionaria; e i primi dubbi sull’appartenenza naturale dell’anti-liberismo al campo progressista dovrebbero sorgere. Riguardo ai due trionfatori del 4 marzo, Lega e MoVimento 5 Stelle, a loro volta dovrebbero essere inseriti senza tanti dubbi nel campo dell’anti-liberismo, anche se la composizione multiforme dei seguaci di Di Maio spinge, e spingerà, sempre di più a poterli etichettare tanto in un modo quanto in quello contrario.
Chi sono e quanti sono, insomma, i liberisti di Montecitorio e di Palazzo Madama? Tra gli eletti del Partito Democratico difficile che qualcuno possa essere definito tale o, men che meno, voglia rivendicare per sé uno stigma del genere, rischiando la gogna mediatica. E tra quelli di Forza Italia? Sulla carta, e ricordando gli antichi e lontani fasti, è nel partito di Berlusconi che dovrebbero radunarsi gli ultimi superstiti del liberismo, ma c’è da dubitare che essi possano essere tanto arditi da contrapporsi frontalmente allo spirito del tempo e da accettare pacificamente una nomea tanto squalificante, in grado di aizzare e mobilitare un circo mediatico che non aspetta altro. Con argomentazioni che spesso tali non sono, con esorcismi, con toni complici — perché è improbabile che il nostro interlocutore possa pensarla diversamente —, siamo riusciti a creare un mostro ideologico in grado di raccogliere tutti i guasti del presente e del passato, portandoci a definire quello appena passato come il secolo del liberismo, a coinvolgere persino la Democrazia Cristiana nella damnatio memoriae… Inutile replicare che il Novecento, globalmente inteso, sia stato in realtà il tempo di quei totalitarismi che col liberismo poco avevano a che fare, che la filosofia che ha ispirato i nostri governanti non fosse in linea con l’utopia economica liberale, e che anzi assistenzialismo e statalismo ne fossero l’antitesi. Il processo che ha fatto del liberismo, o dell’ancora più fantomatico neoliberismo, il capro espiatorio concettuale di ogni nostra discussione politica va avanti e attribuisce, per esempio, alla stagione della Terza Via blairiana e clintoniana i macroscopici disastri che ne sono seguiti, comprendendo la crisi prima finanziaria e poi economica che nell’ultimo decennio ha squassato l’intero Occidente, a partire da quel maledetto 2008.
Noi, noi italiani, però, dovremmo andarci un po’ più cauti: criminalizzare il liberismo significa farlo anche con un segmento tanto minoritario quanto nobile della nostra storia politica e civile, quello del cosiddetto liberal-socialismo, da scrivere con o senza trattino, volendo dare adito a una polemica che sembrava anticipare quella sul centrosinistra ulivista e prodian-veltroniano, il quale avrebbe finito per scontrarsi col centro-sinistra dalemiano. In ogni caso, dell’origine di quel neologismo si disse che fosse proprio italiana: a designare una truppa che raccolse una gloria più teorica che pratica ed elettorale, dato che il Partito d’Azione (nel quale si radunavano le intelligenze e le vite esemplari di ragazzotti idealisti del calibro di Guido Calogero, Norberto Bobbio, Ernesto Rossi e Tristano Codignola, tanto per fare qualche nome di fronte al quale sarebbe bene controllare di essersi passati più e più volte il filo interdentale) ebbe vita breve e si sciolse non molto più tardi delle elezioni per l’Assemblea Costituente, in seguito ai magri consensi e a divergenze interne non più sanabili. Ancor prima, bisogna riandare a Giustizia e Libertà, a Carlo Rosselli o addirittura al liberalismo rivoluzionario di Piero Gobetti, per rinvenire un manipolo di pensatori che, abbinando alla riflessione l’attivismo politico, non abbandonarono mai una convinzione: che l’antitesi del liberismo non fosse il socialismo, bensì il protezionismo, ovvero il capitalismo assistito e/o monopolistico de «i padroni del vapore», espressione che lo stesso Rossi coniò per indicare gli industriali italiani, rendendoli immortali.
Basta introdurre il solo termine “dazi”, in definitiva, perché si cominci a percepire un altro suono, più cupo e che richiama vibrazioni lontane: quelle di un conservatorismo che conoscevano meglio i nostri padri e i nostri nonni, come se gli inizi degli ultimi due secoli si somigliassero e ciò che stiamo vivendo fosse una fedele replica dei dibattiti di cento anni fa, con l’internazionalismo progressista su un lato dell’arena e l’autarchia protezionistica sull’altro. Il rischio, però, è che tutto si risolva (o non si risolva) in una disputa accademica, che le idee stiano lassù, un po’ come i ben noti “caciocavalli appesi” di Benedetto Croce: un’accusa riecheggiata nel modo sbrigativo con cui Carlo Calenda ha recentemente liquidato le critiche dell’iper-liberista Francesco Giavazzi, definito dal Ministro dello sviluppo economico «un liberale del Circolo del Whist», a indicare quegli intellettuali ideologicamente e librescamente inebriati dal profumo del concetto e restii a calarsi nella realtà concreta di lavoratori in carne e ossa e crisi aziendali. Dello stesso Giavazzi è uno dei pochi testi, scritto assieme al compagno di tante lotte Alberto Alesina, che si ostina a difendere una posizione controcorrente, cioè Il liberismo è di sinistra (Il Saggiatore, Milano, 2007), al quale potremmo accostare La diseguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista (La nave di Teseo, Milano, 2016) di Nicola Porro, con la differenza non trascurabile che il primo risale a (poco) prima della crisi di dieci anni fa, mentre il secondo è di un autore che preferirebbe piuttosto collocarsi sul versante del liberal-conservatorismo. Perciò sembrerebbe legittimo riassumere che esiste tanto un liberismo di sinistra quanto uno di destra e che, viceversa, a essi si contrappongono un anti-liberismo neo-comunista e uno neo-fascista; di conseguenza non è lecito collocare tout court i liberal-socialisti nell’ambito del liberismo, proprio perché non si dà un liberismo tout court.
Per tirare giù dalle travi del soffitto quei caciocavalli e cominciare a degustarli, per evitare l’impressionismo e l’approssimazione coi quali si è soliti avvicinarsi al tema, con l’unico scopo di proseguire un’opera di demonizzazione che non sembra conoscere sosta, basterebbe un nome, quello di Antonio Gramsci: colui che gli anti-liberisti in servizio permanente ed effettivo preferirebbero avere dalla propria parte e che, invece, affrontò il liberalismo politico ed economico innanzitutto con un rispetto senza pari, ma anche subendone la fascinazione, specialmente in una fase determinata del suo percorso teorico e politico. Affinché si riesca a riconoscere il profilo ideologico del liberismo, l’insegnamento più utile da trarre dalla riflessione del pensatore e rivoluzionario sardo è di prestare attenzione ai contesti nazionali e di farne le coordinate di senso di una pratica trasformativa: la funzione progressiva o conservatrice di un agire politico emerge sulla base della (machiavelliana) realtà effettuale e non su quella delle dispute iperuraniche. A queste condizioni, e osservando che quella italiana non è affatto una storia di libertà, è possibile concludere che la rottura dei monopoli, lo sfaldarsi degli oligopoli e il libero dispiegarsi delle forze del mercato avrebbero potuto, possono o potrebbero essere qualcosa di sinistra: se non proprio di rivoluzionario in senso gobettiano, almeno una novità.