A Soccer Tale | E04 season finale| Total entertainment
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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A Soccer Tale | E04 season finale| Total entertainment

Come sono gli Stati Uniti visti dai campetti? Un diario non solo calcistico, tra Uber, la multiculturalità e i movimenti innaturali di chi non è cresciuto con il pallone tra i piedi.   E04 season finale| Total entertainment    Il tavolino bianco a bordo campo si fletteva sotto il peso di un muraglia di cartoni di pizze […]

Come sono gli Stati Uniti visti dai campetti? Un diario non solo calcistico, tra Uber, la multiculturalità e i movimenti innaturali di chi non è cresciuto con il pallone tra i piedi.

 

E04 season finale| Total entertainment 

 

Il tavolino bianco a bordo campo si fletteva sotto il peso di un muraglia di cartoni di pizze Domino’s. Avevamo visto arrivare il fattorino con un furgone e scaricare in più e più viaggi una trentina di pizze per il rinfresco post-partita.
Siamo al RAC field della George Mason University e ci stiamo per giocare la finale del torneo di calcio a 11 dell’università. Io ero immerso nella tensione pre-partita, guardavo in giro per captare ogni minima vibrazione nell’aria, come Rohit mi aveva insegnato durante la semifinale. I miei compagni, invece, si avvicinarono golosi ai cartoni bianchi e azzurri che odoravano densamente di pizza e condensa.

Come ti può passare per l’anticamera del cervello di mangiare un pezzo di Pizza Domino prima di una partita di calcio? Izzy fermò il drappello di giocatori capitanati da Lee, il pingue centravanti di Shanghai. Io rimasi basito, non tanto per il clamoroso errore dietetico quanto per la distrazione dal fatto che stavamo per giocarci una finale. L’unica attenuante che si può attribuire agli americani è dovuta al ruolo del cibo negli sport nazionali: è inutile spiegare il ruolo dell’hot dog nel baseball o della birra nell’hockey, servirebbe un trattato. Vi porto due esempi raccolti al Verizon Centre — il palazzetto di Washington DC — durante i playoff NBA.

1) Nell’ultimo quarto di partita ogni volta che un giocatore avversario va in lunetta per tirare un tiro liberi, sul maxi schermo appare la seguente scritta (n.d.a. Chicken-fil-a è una catena di fast food):

If he misses two consecutives free throws in a row, everyone WINS A FREE CHICKEN-FIL-A CHICKEN SANDWICH!

MAKE SOME NOISE!

2) In una delle innumerevoli pause di gioco durante le quali in tv passano la pubblicità, gli spettatori vengono intrattenuti con una spumeggiante varietà di attività (la dabcam, il lancio delle magliette, le cheerleaders). Tra queste c’è anche il lancio delle pizze con paracadute dal tetto del palazzetto.

La finale la giochiamo contro la squadra di Aboudy, il dominatore morale del soccer alla GMU. Aboudy è saudita, in campo si muove lento ma pensa velocissimo; ha un po’ di pancia e non corre quasi mai, ma riesce a controllare il pallone guardandolo appena una volta poi avanza sicuro e fiero guardando il campo e urlando agli altri cosa fare. La prima volta che lo vidi giocare aveva una maglietta tarocca del Napoli, dopo 5 minuti capii che non avesse idea di che squadra fosse. Gli americani lo definirebbero “cocky” che è un po’ più sprezzante di “arrogante”: organizzava le squadre nei pick up, impartiva ordini, si vede che era sempre stato il capo. Quando giocavamo nel campo indoor da calcetto non si degnava neanche di cambiarsi, si presentava con la sua polo rosa Ralph Lauren, i pantaloni a pinocchietto e i Nike Magista giallo evidenziatore ai piedi. La sua squadra a 11 sembra il Monstars team di Space Jam: in attacco giocano sulle fasce due russi Igor e Oleg, la punta centrale invece è Giorgi, un georgiano alto due metri pelato che potrebbe fare la comparsa in qualunque film sull’Armata Rossa. Il resto della squadra è composta da scudieri sauditi di Aboudy che orbitano attorno alla sua persona in campo come nelle mense dell’università.

Prima del calcio d’inizio Moe raccoglie la squadra nella nostra metà campo per un discorso motivazionale alla squadra, che fu più o meno: «Guys we have a pursuit in life, and we have a way to follow that pursuit. Today our pursuit is to win, and the way is fuckin kickin their ass off». Facce convinte e qualche urlo di approvazione. Mi sento distante. Anche in questi casi parlano come se ci fossero delle telecamere a filmarli. A me torna in mente quando a 12 anni il nostro mister della scuola calcio ci urlava «chi si astiene dalla lotta…. È un gran figlio di mignotta».

 La partita inizia su ritmi alti, Rohit a centrocampo gestisce la palla con eleganza, sventaglia a destra e sinistra per me e Phillipus che cerchiamo di allungare la difesa il più possibile. Aboudy si aggira come un gattone nel centrocampo, non sono i suoi ritmi quelli alti e semplicemente si disinteressa del gioco. Loro giocano lungo su Giorgi e sulla sua testa pelata che umilia nei centimetri la nostra difesa sudamericana. Al 15° del primo tempo Kai mi lancia dallà metà campo un pallone preciso che in cielo disegna un arcobaleno che muore a due metri dal mio naso. in corsa, di sinistro, calcio la palla al volo verso la lunetta dell’area e Rohit di controbalzo calcia fortissimo. Traversa interna, la palla rimbalza così forte che il portiere ha il tempo rialzarsi e raccoglierla in presa alta. Ci riproviamo altre tre volte da fuori area, ma il portiere si salva ogni volta con gesti goffi ed efficaci. Chiudiamo il primo tempo senza aver mai subito un tiro, Aboudy ingabbiato tra i nostri centrocampisti centrali.

 Il morale all’intervallo è alto, abbiamo tutti l’impressione di potercela fare. Rohit invece sembra preoccupato, guarda il campo vuoto mentre si disseta. Mi chiama con un cenno, dice che corriamo troppo e male, non va bene troppi, uno-contro-uno, loro stanno giocando bassi a posta.

 L’arbitro fischia l’inizio del secondo tempo. La profezia nefasta del fantasista di Bangalore è giusta. Noi non corriamo più e ci incamponiamo sempre di più nei dribbling. Esce fuori quella dimensione estetica del calcio americano, slegato dalla tattica, Garret a centrocampo gioca come se si vedesse in terza persona senza guardare i compagni e lo spazio. Aboudy fiuta lo sgretolamento della nostra squadra e inizia a giocare, gli bastano pochi tocchi e il corpo sempre orientato perfettamente per liberarsi degli avversari e lanciare Igor sulla sinistra. Rischiamo di prendere gol quando il terzino avversario esplode un sinistro a giro dal vertice dell’area. Io esco per la stanchezza, guardo la squadra agonizzante da fuori e non ne capisco il motivo. Manchiamo di mordente ma le indicazioni e le urla di incoraggiamento non svegliano la squadra.

Entriamo negli ultimi dieci minuti di partita, in caso di pareggio si risolverebbe con i rigori. Aboudy gira la palla a centrocampo, cambiando fronte d’attacco, aspettando pazientemente uno spiraglio per un cross verso il testone georgiano di Giorgi. All’ennesimo stop e lancio verso una delle ali, Kai lo attacca per cercare l’intercetto, Aboudy ricompone il suo corpo e invece di calciare richiama il pallone a se con un movimento sinuoso del suo gonfio polpaccio sinistro. Kai lo falcia e l’arbitro fischia punizione. Aboudy si avvicina al pallone, lo piazza e fa solo tre passi indietro e fissa l’arbitro con espressione furbesca di chi sa che sta per rovinare il finale di una rubrica di Dude Mag. Il resto della squadra guarda impietrita: non c’è nessun maxischermo a promettere cibo gratis e quindi nessun motivo di agitarsi. Quando parte il pallone c’è quel brevissimo lasso di tempo prima che effettivamente gonfi la rete in cui speri che il mondo si ribalti e non succeda l’inevitabile. Come quando stai cadendo in motorino ma non hai ancora toccato l’asfalto o quando la tua ragazza ti guarda negli occhi prima di dirti che è finita. Lo sai, ma speri per un attimo lunghissimo che non succeda. Ma quel pallone il palo non lo colpisce mai, va sempre dentro, l’asfalto è duro uguale ed essere lasciato lascia la bocca acida ogni volta.

L’arbitro fischia, loro festeggiano e Lee chiede a Moe se adesso può andare a mangiare la pizza.

 

 

In copertina foto di Amber & Bryan Dwyer.

 

E03 | Sportswear

 

Nella foto: Rohit si riscalda.

 

Che gli americani non brillino per il buon gusto nel vestire, è cosa risaputa. Il dresscode del maschio medio alla serata universitaria del giovedì varia dalla camicia Ralph Lauren con delle brutte fantasie, alle magliette di cotone spesso attillate. Un merito che però va riconosciuto agli americani è quello di aver fatto diventare socialmente accettabile indossare divise sportive, di sport loro ovviamente (basket, hockey, baseball e football). Tuttavia al Pj’s Skidoos — il bar dell’università — si vedono spesso magliette da calcio, quasi più delle canotte Nba.

Una sera notai una maglietta del Chelsea di Hazard, Kroos del Bayern Monaco e divise del Barcellona e del Real con nomi customizzati (tendenzialmente arabi) e numeri 9 sulla schiena. Le mie preferite, viste tra i tavoli di mogano del disco-pub di vaga ispirazione irlandese, erano una 10 rosa della Juve di Pogba e la 22 bianca della Francia di Ribery. A indossare la maglia della nazionale transalpina era James (da pronunciare à la ispanica, con la J aspirata, per via delle sue origini colombiane), il più talentuoso tra i calcettari della George Mason University. Avrei rivisto quella stessa maglia la domenica successiva, al field 3 dell’università, palcoscenico della semifinale del torneo.

La partita era decisiva e la giocavamo con la nostra formazione titolare. Il fragile e camelontico 4-2-3-1: in difesa Izzy, Moe, Yulian (un nano malesiano che si ispira a Rafinha, terzino della cantera del Barcellona); a centrocampo Kai — che dalla prima partita ha subìto un’involuzione da wannabe Matic a Manuel Locatelli del girone di ritorno — e Garret, io, Rohit e Phillipus dietro l’unica punta Sohalil, un ragazzo arabo scarso, ma molto mobile. James capitana una squadra in gran parte di origini sudamericane, in cui si parla spagnolo più che americano. James è secco e alto, i capelli lunghi e lisci gli incorniciano il viso su cui campeggia perennemente un’espressione a metà fra il disprezzo e il menefreghismo. Avevamo giocato insieme qualche partita durante la settimana, era chiaro che aveva giocato a calcio, aveva le movenze eleganti e soavi di un dieci sudamericano e quando si arrabbiava — spesso — urlava in faccia agli avversari «la concha de tu ma’». Gioca nel mezzo, con un passo energico alla Zidane.

Dal riscaldamento si capisce la diversa attitudine dei compagni di squadra alla partita. Io inizio un riscaldamento approfondito e concentrato con skip alto e basso, allunghi in progressione; gli altri improvvisano un pigro torello mentre qualcuno scalda il sosia di Keylor Navas in porta. L’unico che sembra godersi assieme a me il rituale del riscaldamento in modo personale e serioso, era Rohit. Lo notai vicino alla bandierina del calcio d’angolo mentre stirava gli adduttori con gli occhi chiusi. Lo raggiunsi per fare lo stesso. Mi disse — senza aprire gli occhi — che era il suo modo di entrare in armonia con la partita, sentire l’odore platiscoso del campo sintetico, ascoltare il rumore dei rimbalzi del pallone lontano. Disse che lo aiutava a essere ordinato in campo, a guardare lo sviluppo del gioco nella sua interezza. Mi immaginai quando chiudeva gli occhi in uno dei campi di Bangalore in India e metteva in ordine mentale tutto il marasma di suoni qui — nella calma placida del field 3 della George Mason University — assenti.

Nel primo tempo non succede quasi nulla, il campo era bagnato dalla tempesta che si era abbattuta sulla Virginia in mattinata, il pallone viscido schizza incontrollabile sul campo come un sasso piatto su uno specchio d’acqua. James — con la scaltrezza arrogante che gli si leggeva in faccia — ci aveva provato spesso tirando da fuori, ignorando inserimenti dei compagni che però non accennavano segni di protesta. I nostri ruvidi difensori sembravano esaltati dal terreno bagnato, Moe si lanciava in scivolate che solcavano il campo come moto d’acqua. Noi avevamo avuto una buona occasione con Sohalil lanciato a rete e fermato all’ultimo dal centrale difensivo avversario, un bulldozer messicano che potrebbe essere il terzo cugino cubico dei Salamanca. 

Rohit mi si avvicinò durante l’intervallo, si lamentava che i rari movimenti che avevamo rodato nelle partite precedenti non riuscivano. Spiegava tutto in maniera molto analitica, quasi matematica. Rohit è un ingegnere informatico con la faccia dolce da Aziz Ansari, nato e cresciuto a Bangalore, la Silicon Valley indiana. Mentre guardavamo la Juventus distruggere il Monaco in semifinale di Champions, mi raccontò che per 3 anni aveva avuto un blog in cui analizzava le statistiche del Manchester United. Mandò anche un report al media center del club ma nessuno gli aveva mai risposto.

Nel secondo tempo prendiamo la partita in mano. Philippus sfiora il gol dopo una serie di dribbling arricciati e autistici. James inizia a perdere il dominio incontrastato a centrocampo. Il livello del suo nervosismo è facilmente misurabile dalla quantità di spagnolo usato in campo. È una regola generale che vale quasi per tutti, a fine partita si sentivano molte più parole arabe, spagnole e indiane rispetto all’inizio. Io rimango abbastanza fuori dal gioco, mi marca Jonathan un ragazzo di origini hondurene con un’inquietante somiglianza con Iturbe. Lui è più veloce e grosso di me e difficilmente riesco a saltarlo. Rohit faticava ancora nel trovare la posizione; eravamo molto alti e col passare dei minuti li stavamo schiacchiando nella propria area, non riuscendo però mai a renderci pericolosi.

 A dieci minuti dalla fine la quantità di lingue straniere in campo era aumentata spaventosamente, eravamo tutti stanchi. James dribblava con arroganza sulla sua tre quarti, urlando ai compagni di uscire. Kai gli soffiò di netto il pallone e James lo stese immediatamente iniziando una serie di bestemmie nel suo morbido spagnolo sudamericano, l’arbitro fischiò il fallo.

Una punizione dalla trequarti in quel momento della partita era l’occasione perfetta. Alla palla ci avvicinammo in 4. Io cercavo di rivendicare il mio diritto a tirare di sinistro, Phi col destro, Izzy di potenza. Mentre discutevamo in inglese, e i rispettivi accenti venivano fuori per la stanchezza, Rohit si avvicinò con religiosa calma e silenzio al pallone. Nessuno lo notò, in un momento si chinò sulle ginocchia osservando il campo. Chissà cosa vide in quel momento. Calciò di punta un colpo da biliardo che sorprese tutti — noi compresi —, arrivò sui piedi ruvidi di Moe, libero in mezzo all’area ma tenuto in gioco da un difensore avversario. Il tiro ciancicato del nostro centrale difensivo gonfiò la rete. Eravamo in finale. 

Dopo il fischio finale vidi James crollare a terra per lo sforzo. La maglietta di Ribery era zuppa di sudore. Avrei voluto fare come i grandi giocatori che si abbracciano e poi si scambiano la maglietta nel tunnel degli spogliatoi, così avrei avuto qualcosa da mettermi il giovedì successivo al Pj’s.

 

E02 | Be Humble!

 

Illustrazione di Angelo Montanari

 

Quando Moe — il vice capitano con la faccia da Burdisso jr — chiede chi vuole iniziare fuori alzo subito la mano. Izzy è venuto a prendermi in ritardo perché la sua fidanzata Carmelita guida piano la Fiat 500 blu elettrico tra le curve dolci delle suburbs di Washington DC (ne ho scritto qui, delle suburbs). Voglio scaldarmi bene, venerdì faceva freddo e durante il pick up il mio adduttore destro mi faceva male. Avevo paura di dover saltare la partita di domenica, già pensavo di presentarmi al campo in borghese per fare l’allenatore e scrivere questa rubrica. Mi immaginavo come avrebbero reagito i compagni di squadra a vedere il mio senso di affezione alla squadra, inusuale qui.  

La partita di oggi è decisiva: il nostro gruppo è composto da sole tre squadre e le prime due avanzano ai playoff. Noi abbiamo pareggiato la prima, i nostri avversari invece hanno perso, per cui abbiamo due risultati su tre per passare il turno. Scelgo la mia pettorina numero 45, palleggio e mi scaldo accanto alla responsabile del torneo, una bellissima ragazza con i capelli rasati su un lato, che scannerizza gli id dei giocatori con un Ipad.

 

I cartoni di Amazon come parastinchi

 

Da bordo campo osservo i nostri avversari, sono quasi tutti afroamericani. Sul calcio non è c’è una vera e propria divisione etnica tra gli americani: all’università le percentuali di bianchi e neri sui campetti è la stessa. I giocatori afroamericani però hanno un carisma diverso in campo, lo strapotere fisico li porta a essere più dominanti anche negli atteggiamenti che nel basket si esprimono al meglio.

Ho sempre avuto un particolare interesse per la black attitude dei giocatori NBA, cercando acrobatiche similitudini col calcio che però non hanno mai soddisfatto fino in fondo la complessità di entrambe le culture sportive. Esiste un corrispettivo del trash talking di Kevin Garnett? Quale gesto calcistico è paragonabile alla scalvacata di Allen Iverson su Tyroon Lue? Certo il contesto NBA è importante, ma nel calcio non esiste una cultura che abbia contribuito allo stessto modo alla formazione dell’immaginario sportivo. Anche l’arbitro della partita è una ragazza afroamericana.

Il capitano avversario si chiama Alie Kamara. È alto un metro e settanta, fisicamente ricorda Seedorf ma senza capelli, ha i polpacci alla Nainggolan che spaccano i calzettoni. Guida i suoi compagni in difesa come un condottiero punico. Ha un background militare, si riconosce da come parla con l’arbitro (“sir” a ogni fine frase) e dalla divisa sportiva con l’enorme scritta “marines” sul petto. L’ho incontrato nei pick up settimanali e le prime due cose che mi disse furono: 1. Che il suo role model calcistico è Chiellini 2. «Hai già incontrato Allah nella tua vita?».

Loro giocano con una specie di 4-3-3, con la difesa altissima guidata da Alie che comanda l’altro centrale — un ragazzone alto due metri — come se avesse un joystick tra le mani. Noi schieriamo un molle 4-2-3-1, attaccati alle giocate di Rohit e Phillippus, l’altra stella della squadra assente nella prima partita. Phi è indonesiano, è alto poco più di un metro e sessanta, e gioca con un’energia incredibile, sembra Isaiah Thomas in gara 2 contro i Wizards.

È un brutto primo tempo. Noi non riusciamo a bucare la difesa di Alie in nessun modo, Rohit è seguito a uomo, io fatico sulla fascia.

Loro non costruiscono gioco, lanciano e basta sulla loro punta centrale che risponde alla perfetta definizione di coatto afroamericano riassumibile nell’aggettivo “LOUD”. È un alto oltre due metri e piazzato, gioca con una fascia bianca in testa e la pettorina numero 32, numero cabalistico dell’NBA che probabilmente ha cercato per mezz’ora tra tutte le pettorine, altrimenti non sarebbe sceso in campo. Non chiude la bocca un secondo, sbraccia, urla, si lamenta con l’arbitro, i compagni lo riprendono ma l’unico che sembra avere un qualche genere di influenza è Alie. In un’ipotetica battaglia di coatteria tra il 32 e il coatto-medio-da-torneo-di-calcetto, l’archetipo italiano vincerebbe a mani basse. C’è una soglia di tolleranza molto più alta qui, ci si insulta rimanendo all’interno delle regole non scritte del trash talking sul campo, chi si lagna con l’arbitro viola questo codice d’onore. Inoltre il loro fine ultimo non è quello del coatto italico (menarti o dimostrare superiorità) ma divertirsi.

L’arbitro fischia l’intervallo, l’unica occasione che abbiamo avuto è frutto di un gran lancio di Rohit che ho spedito oltre la recinzione del campo.  

La pausa ci fa bene, rientriamo più organizzati. Rohit gestisce la palla a centrocampo, loro sono un po’ più lunghi e ci sono spazi. Finalmente arriva un lancio nella mia zona, triangolo con Phi e mi ritrovo lanciato in area sul lato corto come alla fine del primo tempo. Invece di calciare, sterzo bruscamente, Alie è su di me e mi falcia con la sua gamba al titanio travolgendo palla e parastinchi di cartone. L’arbitro fischia il rigore. Proteste generali ma è solare, Alie e i suoi pretoriani protestano. Il guardalinee — un ragazzo di colore con i capelli afro — chiama l’arbitro a sé, parlottano, e cambia la decisione. Io incredulo vado da lei a chiedere spiegazioni «for my taste, there was too much ball man». Non mi scappa neanche un vaffanculo. Insistiamo con ottime azioni, loro con i lanci sul 32. Moe si lamenta per un gomito alto non fischiato. «I ain’t do nothin ref!» urla il 32 e si gira verso il nostro vicecapitano oscurandolo con la sua ombra. Alie da dietro interviene e riporta la calma. L’arbitro non fischia ancora e fa battere il calcio d’angolo. Come in ogni tragedia calcistica, la palla viene spizzata sul primo palo e giunge sul maleducato destro del 32, che segna.

Placate le proteste di Moe, la squadra reagisce bene. Tecnicamente siamo superiori. Rohit prende in mano il centrocampo, lancia Phi che dribbla mezza difesa e in precario equilibrio riesce a spiazzare il portiere con un tiro anticipato sul primo palo.

Il finale di partita è teso. Il 32 commette falli su falli in attacco, il guardalinee fischia due fuorigiochi inesistenti, uno addirittura prima della linea di metà campo.

L’arbitro fischia la fine, il Wii not fit team è in semifinale.  

Gli insulti finiscono lì, molte strette di mano e abbracci in mezzo al campo. Arriva però la responsabile del torneo — la ragazza con la mezza boccia — chiama arbitro e capitani, e con tono incazzato fa: «Next time I will stop the game. Terrible attitude, try to be humble guys!».

 

[Illustrazione di Angelo Montanari]

 

E01 | The Debut

 

Illustrazione di Resli

 

Salgo sulla Toyota Corolla con il bollino di Uber sul lunotto posteriore, l’autista guarda i miei scarpini Joma variopinti e mi chiede subito se sto andando a una partita di soccer. Il calcio è sempre un ottimo argomento di conversazione con gli autisti di Lyft o Uber, visto che la maggioranza ha origini mediorientali o latine. Salem — 30 anni originario della Persia (occhio a dire Iran) — mi racconta di aver giocato due anni a Dubai come punta centrale in un club di terza divisione. Si è appena trasferito nell’area di Washington DC e mi chiede se per caso abbiamo un posto libero in squadra. È alto e sembra piuttosto piazzato, lavorerebbe bene come punta centrale, potremmo copiare gli schemi di Gasperini e farlo giocare alla Petagna. Gli rispondo che è un torneo riservato agli studenti, ma gli lascio il mio numero per comprensione calcistica.

Il Wii not fit team ha tutta l’aria di essere una piccola armata brancaleone multietnica: non ci conosciamo tra di noi, nessuno sembra avere un abbigliamento particolarmente tecnico e la forma fisica media segue la filosofia di Maxi Lopez. Al contrario, i nostri avversari hanno la fama di essere la miglior squadra del torneo, sono enormi, si riscaldano in maniera professionale (mentre noi abbozziamo un imbarazzante torello).

La star del Wii not fit team è Rohit un ragazzo indiano che si presenta come Xavi, per semplificare la pronuncia soffiata indiana. L’ho visto giocare durante i pick up, è forte ed estremamente tecnico. Più che l’ex capitano del Barça assomiglia a Ribery per il dribbling fulmineo e la tenacia tecnica.
Altri elementi notevoli in squadra: il portiere, che comunica sicurezza grazie a una spiccata somiglianza con Keylor Navas; Moe, capitano in seconda dopo Izzy, è un centrale difensivo ruvido e poco tecnico, con una faccia gentile, un po’ come il fratello piccolo di Burdisso.

 

Moe

 

L’arbitro fischia l’inizio, sono due tempi da 30 minuti. La prima azione degli avversari mi scoraggia: non intercettiamo la palla per circa due minuti, mi preparo alla disfatta. In particolare il nostro attaccante è un coreano che nell’aspetto assomiglia al bambino di Up cresciuto, e nelle movenze ricorda l’ex attaccante del Bari Vitali Kutuzov, croce della mio primo fantacalcio nella stagione 2009-2010. Penso che ci vorrebbe Salem, bomber della lega Pro di Dubai.

Gli avversari attaccano molto bene e sono superiori fisicamente, ma coprono malissimo il campo. Xavi gioca al centro del campo, io mi metto largo sulla fascia sinistra e il terzino invece che seguirmi stringe verso il centro. Come Luke Skywalker ascolta quella di Obi Wan, io sento quella dei miei vecchi allenatori dei campi romani dell’Acqua Acetosa che con tono solenne dicono «stai largo, piedi sulla linea». Dopo un paio di lanci non riusciti ne arriva uno buono: corro palla al piede, entro in area sul lato corto, punto il terzino, doppio passo alla Simone del Nero e dal mio destro parte un traiettoria secca che finisce tra il palo e il sostegno alto della rete. È un bellissimo gol, così bello che probabilmente è la ragione principale per cui state leggendo questo pezzo. Cerco di nascondere la mia sorpresa ringraziando Rohit per l’assist, il morale della squadra si risolleva. Io sono felicissimo.

Il resto del primo tempo è equilibrato, loro spingono, colpiscono una traversa calciano più volte in porta, ma il portiere aka Keylor Navas è più che decente. Sul finale sfioriamo il gol con Garrett, l’unico afroamericano della squadra, indossa una maglietta del Chelsea di Hazard anche se è spiccicato a Sturridge.

Izzy cerca di caricare la squadra nell’intervallo, ci si aspetta un crollo fisico imminente nella ripresa. Nei primi minuti cerchiamo di contenere gli avversari che ci prendono a pallonate. Il mio grande rimpianto — che sarà la scommessa per le prossime partite — è Kai, un ragazzone americano con la faccia da bimbo che gioca centrale di centrocampo. Ha tecnica e gioca a testa alta, ma gli manca la cattiveria agonistica e la rapidità di esecuzione. Quando stringo ci pestiamo i piedi, lo sgrido, e lui non fa una piega. Ricorda Christian Poulsen con la palla fra i piedi ma diventerà il nostro Matic davanti alla difesa, ne sono sicuro.

Noi smettiamo di attaccare, le mie gambe cedono dopo una fuga sulla fascia ma non abbiamo cambi. La partita diventa scorbutica, perfetta per Moe e Izzy che iniziano una serie di interventi eroici e rocamboleschi sugli attacchi sempre più furiosi degli avversari; colpiscono un palo e si mangiano almeno 3 palle gol clamorose.

Inizio a fare falli tattici a centrocampo, poco capiti dal resto dei giocatori sul rettangolo: qui c’è una mancanza di capziosa cattiveria agonistica. Moe — che ha origine venezuelane, a giudicare dai video delle proteste che pubblica su Facebook — è l’unico che riesce a litigare con la punta centrale. Io provo ad attaccare briga con il capitano avversario (che lamentava con l’arbitro l’assenza di parastinchi, requisito necessario per giocare), ma i miei richiami in inglese annacquato da qualche parola italiana non fanno effetto.

I motivi che inibiscono gli americani e li fanno sembrare per una volta educati, sono due. Il primo riguarda le scuole calcio: qui si gioca nel team del proprio liceo e dopo in quello del college, difficilmente le squadre sono istituzioni separate da quelle scolastiche. Questo rimuove tutte le pressioni e le dinamiche da scuola calcio, riequilibra le priorità con la scuola e l’educazione ed evita l’emulazione sistematica dei calciatori. Il secondo fattore dipende dal fatto che, semplicemente guardano molto meno calcio professionista di noi, un po’ perché l’MLS fa schifo e un po’ perché è complicato seguire i campionati europei, soprattutto da un punto di vista emotivo. Per cui meno risse, meno sgarbi e meno trash talking. Peccato.

L’arbitro chiama gli ultimi 4 minuti di gioco, noi non teniamo più un pallone, la squadra è spezzata in due.

Il tornante destro degli avversari è un ragazzo afroamericano enorme con un fisico da running-back, grosso quasi quanto Olivier Ntcham. È vestito da giocatore di football americano, indossa una smanicata che lascia liberi i bicipiti ma indossa i guanti, come se gli servisse più grip per correre sulla fascia. Si proietta in avanti seguendo un’azione confusa nella nostra area, lo vedo con la coda dell’occhio ma è già 5 metri avanti a me. Lo rincorro. La palla sbuca dalla mischia proprio mentre sta entrando in area di rigore e a rimbalzella gli arriva sul destro. Non resisto, lo tocco da dietro, l’arbitro fischia il rigore. Gli unici sguardi di approvazione per il fallo, mi sembra, arrivano dai non-americani.

L’attaccante batte un rigore perfetto, palo-gol, nonostante il Keylor Navas avesse intuito.

1 a 1, ci vediamo domenica prossima.

[Illustrazione di Resli]

 

E00 | Warm up

 

Illustrazione di Fabulo

 

Soccer [sok-er] — Noun. A form of football played between two teams of 11 players, in which the ball may be advanced by kicking or by bouncing it off any part of the body but the arms and hands, except in the case of the goalkeepers.

 

Il mio primo incontro col soccer è avvenuto grazie a un ragazzo di origini albanesi conosciuto al Pj’s, il bar delle serate universitarie. Io dissi che ero italiano, lui mi chiese subito quanto ricordassi di Lorik Cana: occhi lucidi e una lunga chiacchierata sulle leggendarie scivolate assassine dell’ex capitano dell’Albania. Ne approfitto per chiedergli se esiste un modo per giocare a calcio, qui nell’area urbana di Washington DC; i campi non mancano, ma li avevo visti sempre vuoti.

Il giorno seguente mi aggiunge alla chat Facebook “soccer is life”.

Gli americani che frequentano il college non conoscono i drammi “manca-il-quinto-a-calcetto” e “il-campo-lo-prenoti-tu”. Il meccanismo di reclutamento è un po’ più barbaro, ma decisamente efficace. Qualcuno scrive sulla chat «Hey, chi vuole venire a giocare alle x:xx in uno dei 10 campi dell’università?» e regolarmente si presentano almeno una quindicina di giocatori. Il campo è uno dei cinque messi a disposizione dall’università, in erba sintetica di ultima generazione, ovviamente gratuito.

L’organizzazione della partita è decisamente rudimentale: si fanno le squadre come per le partitelle in spiaggia e il campo si allarga mano a mano che aumenta il numero dei giocatori, sfruttando le linee delle yarde del campo da football come falli laterali. Mi ricorda quando a 9 anni giocavamo “a tutta piazza” a San Lorenzo in Lucina, deliziando il gusto estetico dei turisti al centro di Roma.

Anche sul piano del tattico ricorda molto il tempo delle partitelle improvvisate, non esistono posizioni, i due o tre giocatori più dotati tecnicamente gestiscono la palla e il resto corre a mo’ di gregge da una parte all’altra del campo. Singolarmente il livello tecnico medio non è basso e quello fisico è prevedibilmente superiore allo standard italiano.

La lingua più parlata in campo è l’arabo e la maggior parte dei giocatori sono Sauditi, autentici portabandiera del calcio antinostalgico, scarpini fluorescenti, magliette rosa del Real, devoti alle giocate esteticamente belle. Gli ispanici invece giocano in maniera più pratica, sono decisamente i più europei sul campo, gli unici — insieme a me — a commettere dei falli.

Gli americani sono spesso indecifrabili, nella maggior parte dei casi si vede che hanno iniziato a giocare tardi a calcio, i movimenti sono costruiti e poco spontanei. La tattica rimane il problema principale, non riescono a giocare guardando lo spazio. Su questo ho una mia teoria: hanno un rapporto complicato con il gioco di squadra e raggiungono quel delicato equilibrio tra il sistema e l’emersione di un singolo in maniera diversa. Diventa chiaro osservando il modo in cui interpretano i ruoli. Il basket, il baseball e il football sono sport di squadra nei quali il ruolo di ogni giocatore è molto più rigido (il quarterback, il centro, il ricevitore) rispetto al calcio. I compiti di ogni singolo elemento sono più limitati: fai bene quello che devi fare e la squadra — spesso quella con il giocatore migliore (KOBEEEE!) — vincerà. Il fatto che un calciatore sia chiamato a possedere una media padronanza tecnica e tattica di ogni ruolo li mette in difficoltà. Interpretano lo spazio libero come terra di conquista e mai come territorio da amministrare. Quando però i ragazzi di colore aprono la falcata, la loro tecnica di corsa è così elegante che non mi spiego come non abbiano la nazionale più forte al mondo.

In generale l’approccio alle partitelle si riassume nell’espressione “I just came here to kick some ball”. Non gli interessa che la partita sia competitiva o le squadre equilibrate, a loro basta correre dietro al pallone. Beati loro, io non ci riuscivo neanche a piazza San Lorenzo in Lucina.

Nel mio primo pick-up conosco Izzy, uno dei pochissimi ad avere un barlume di senso tattico in campo. Ha giocato nella squadra ufficiale dell’università, notoriamente scarsa (anche se non c’è stata ancora l’occasione di vederla all’opera) e calcisticamente è un torello sudamericano difensivo; ricorda Medel, ma ha una faccia da comparsa buona in Apocalypto che diminuisce il suo indice intimidatorio. In campo abbiamo sintonia e la mia maglietta della Lazio è sempre un’ottima scusa per attaccare bottone sul calcio italiano. Mi accompagna a casa in macchina. Durante il tragitto scopro che segue la Juventus, frequenta il master di economia e si dichiara anarco-capitalista. Il giorno dopo mi scrive chiedendomi di partecipare al prossimo torneo di calcio a 11, la nostra squadra si chiama Wii not fit.

[Illustrazione di Fabulo]

Filippo D'Asaro
Nasce a Roma nell’ottobre del 1992. La sua laurea triennale in scienze politiche si è rivelata fondamentale per scrivere articoli, tenere un blog personale e portare hamburger ai tavoli.
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