Il treno che da Belgrado attraversa tutto il Montenegro staziona da un paio di minuti su un ponte. Lo spettacolo merita tuttavia la frazione d’incertezza. Il viadotto del “Mala Rijeka” è il più alto del mondo e concede una vista suggestiva almeno quanto il precedente percorso disegnato nella Serbia centrale. Ho contemplato la “Stara Srbija”, la vecchia Serbia, un affresco storico fatto di piccoli monasteri ortodossi che, all’ingresso nel Sangiaccato di Novi Pazar, cedono il passo ai minareti delle moschee.
L’identità musulmana è un aspetto rilevante in una regione che fu distretto dell’Impero ottomano sino alle guerre balcaniche del 1912-1913. Il capolinea della tratta è la stazione di Bar, in riva all’Adriatico, a più di nove ore di treno da Belgrado. La cittadina viene chiamata anche Antivari, letteralmente “di fronte a Bari”. Nel piccolo centro montenegrino c’è una graziosa rocca, situata nella città vecchia, dal quale si può seguire la scia delle navi che in alcuni casi dal Montenegro muovono verso la Puglia.
Stazione ferroviaria, sullo sfondo un monastero ortodosso, siamo nei pressi di Priboj (Serbia centrale), al confine con il Montenegro e la Bosnia ed Erzegovina.
A ridosso del 29 maggio 1991 diversi traghetti partirono da Antivari carichi di speranze bianco rosse, sul biglietto c’era scritto Bar-Bari. I passeggeri erano tifosi della “Crvena zvezda” diretti verso l’agognata finale di Coppa dei Campioni. Prima del calcio d’inizio di Stella Rossa – Olympique Marsiglia nella curva della squadra belgradese comparve un’enorme icona di Sveti Nikola (San Nicola), portata da Belgrado sino allo Stadio di Bari che porta il nome del vescovo di Myra.
Siamo al 112’ dei supplementari di una finale brutta, condizionata dalla paura, dalla panca si alza Dragan Stojković, il giocatore più amato nella storia della Stella Rossa. Vista la sua tecnica sopraffina, “Piksi” — che condivide quel nomignolo col personaggio del cartone animato Pixie, Dixie and Jinks, il preferito della sua infanzia insieme all’amato “Calimero” — entra in vista dei rigori. Quella trascorsa è stata una stagione travagliata, figlia del suo primo serio infortunio al ginocchio (intervento chirurgico in Germania nella stagione precedente). I tifosi jugoslavi celebrano con un boato l’ingresso del fenomeno di Niš. Dall’estate del 1990 Stojković indossa però la maglia dell’Olympique. Bernard Tapie, presidente dell’OM, deputato del partito socialista francese nonché imprenditore che impersona il colosso “Adidas”, si è infatti assicurato le prestazioni del giocatore serbo.
Piksi gioca gli otto minuti finali intento a rincorrere il suo passato con lo spettro reale di un possibile rigore da calciare contro il suo vecchio amico “Dika” Stojanović, un tiro al cuore della “sua” gente. Alla fine dei tempi supplementari, il talento serbo si avvicina al tecnico belga Raymond Goethals comunicandogli la volontà di non tirare uno dei cinque rigori.
“Dika” Stojanović, numero uno della Stella, parerà il primo della serie dei marsigliesi mentre i tiratori della Crvena zvezda non sbaglieranno un colpo. Da quella finale la carriera di Piksi diviene un calvario sportivo. Un infortunio dopo l’altro la luce del fantasista si spegne.
Arrivederci in Montenegro.
«La forza mentale è molto importante e penso di essere stato un combattente; ho svolto molto lavoro e non ho mai mollato. Ma non ho giocato, dopo tutto questo, al cento per cento della mia tecnica o agilità, non al mio potenziale. Ero io, ma non giocavo come me, era come essere qualcun altro» ha dichiarato in proposito.
A fine stagione Piksi cerca il rilancio a Verona. Sarà comparsa di un anno sfortunato in cui gli Scaligeri — che da pochi mesi sono rinati senza il distintivo “Hellas” — scenderanno in serie B. Dragan sigla un sola rete su punizione, aiutato da una mezza deviazione in barriera. Troppo poco per un giocatore in grado di far impazzire regolarmente Rijkaard e Gullit:
Il rilancio calcistico risultò impraticabile anche con la selezione jugoslava. La grande nazionale del ’92 non partecipò all’europeo di Svezia, esclusa da Euro ’92 a causa del conflitto civile da poco esploso e che avrebbe mandato in frantumi lo Stato federale jugoslavo. In quella stessa estate arrivò in Italia un ex compagno di Piksi ai tempi della Zvezda. Negli anni belgradesi Dejan Savićević era stato una sorta di gemello di Piksi. C’è chi oggi gioca col falso nueve, a differenza della Stella che nell’età d’oro giocava col doppio 10, segno dei tempi ed anche di gusti.
Siamo giunti ad una sorta di passaggio del testimone, paradossalmente avvenuto tra due uomini divisi da una sola primavera, ed in cui la finale di Bari simboleggia uno spartiacque. Sembrerà una forzatura, ma lo stesso Savićević ha recentemente ricordato come la vittoria del ’91 rappresenti lo snodo cruciale della sua carriera. Un passaggio nevralgico quindi, o meglio ancora una apocalisse calcistica, che è insieme il principio e la fine di un verbo agonistico. Provate solo ad invertire l’ordine degli interpreti di questa bellissima azione:
Possiamo vedere Stojković e Savićević come due declinazioni speculari del concetto di talento, come due modi di interpretare il ruolo del 10.
Stojković gioca come se conoscesse la logica profonda del campo da calcio. Come se fosse capace di prendere i tempi e i modi di una partita per farne quello che gli pare, manovrare il gioco come sente. Nel gioco di Stojković c’è una grande irrazionalità incorniciata dentro a un quadro di gioco estremamente razionale e definito.
A volte sembra pigro e lezioso, sembra tenere la palla per troppo tempo, mentre sta semplicemente aspettando l’attimo in cui i 21 giocatori in campo si allineino al suo preciso disegno di gioco. Poi scrive traiettorie che appaiono logiche solo una volta tracciate. La stessa visione profonda che è appartenuta a una manciata di giocatori nella storia. Come scrive Daniele Manusia su Vice, il dribbling di Stojkovic assume spesso la forma di un’arzigogolata corsa verso la propria porta trasformata improvvisamente in uno scarto in avanti.
Keeping the ball, penetrate. Dragan Stojković è anti-moderno perché non gliene frega niente di perdere i tempi di gioco: perché il tempo di gioco nasce, vive e cresce nei suoi piedi
Savićević è la nemesi istintuale di Piksi, colui che ne esaspera pregi e difetti. A Dragan Stojković piace mettersi al centro del gioco per tutta la partita, farne cosa sua. Savićević preferisce il margine, il grado zero da cui partire e illuminarsi. Se il talento di Stojković trova sempre la cornice di un progetto di gioco, quello di Savićević vaga libero, incline al vezzo fine a se stesso.
Savićević dribbla con un’irriverenza vicina a quella dei brasiliani degli anni ’60, quelli per cui il calcio è solo accidentalmente un gioco in cui bisogna correre verso la porta avversaria.
Il talento di Savićević si prende il lusso di restarsene assopito, o di risolvere le partite. A seconda della luna. Un giorno il Milan gioca ad Udine e la fascia del Genio è calda e totalmente bagnata dal sole. Non tocca una palla in 45 minuti e Capello è costretto a levarlo.
Savićević in panchina si avvicina a Demetrio Albertini e gli fa: «Peccato che mi ha tolto, nel secondo tempo avrei giocato all’ombra e avrei giocato bene».
«Dejo, maestro, tu sei Dio!»
Il dribbling di Savićević è una delle cose per cui vale la pena vivere.
Ha una forma completamente diversa da qualsiasi altro dribbling: un continuo contrappunto tra il lungo e lo stretto, tra il lanciarsi la palla in avanti e il nasconderla con microscopici tocchi all’indietro.
La chirurgia nello stretto l’ha coltivata probabilmente da ragazzino, quando ancora non si allenava in una squadra professionistica e passava i pomeriggi a giocare a futsal. A Titograd negli anni ’80 è una forma di sport molto popolare e i campetti outdoor in cemento si riempiono di ragazzini e partitelle più o meno formali. Savićević gioca nella squadra della sua via, ha 14 anni e qualcuno gli fa notare che sarebbe una follia non provare a entrare in una squadra.
Dejo vive nel quartiere di “Stari Aerodrom” (Vecchio aeroporto). Si tratta di una zona popolare tra la stazione ferroviaria — da cui siamo partiti per questo corsivo — ed il grande sobborgo di Konik. Qui, a due passi dal fiume Ribnica, fino a qualche anno fa, si giocava il derby più acceso della ex Titograd (Podgorica) tra due piccole realtà sportive: FK Ribnica (club con una scuola futsal da capogiro) ed FK Grafičar, la squadra degli “imbianchini”, venuti a vivere nell’area sudest della città da Nikšić, centro industriale nel cuore del Montenegro.
A “Stari Aerodrom” vivevano Dejan Savićević, Predrag Mijatović, e, da ultimo, Stevan Jovetić. I primi due sono stati coccolati nell’OFK Titograd mentre “Jojo” è cresciuto calcisticamente — per ragioni anagrafiche — nel Mladost (“Gioventù”). Trattasi infatti dello stesso club che cambiò nome alla fine di un’esperienza politica, economica e culturale chiamata Jugoslavia.
I palazzi di “Stari Aerodrom”, Podgorica.
Nel 1981 Dejan Savićević è tesserato nelle giovanili dell’OFK Titograd, ha 15 anni e a tutti sembra tardi per cominciare a fare sul serio. Un anno dopo è già nelle file del Budućnost, cioè il più importante club del Montenegro, prende la maglia di Ante Miročević — leggenda della squadra appena ritiratosi — e a 17 anni esordisce contro la Stella Rossa Belgrado. Che lo compra nel 1988, quando Dejo ha già diverse presenze in nazionale.
In quella stessa estate arriva la chiamata alle armi che lo costringerà a stare fuori per la maggior parte della stagione. A quei tempi si vocifera che nella chiamata ci fu l’intervento del Partizan, che cercò di tesserare Savićević senza riuscirci e che ha, storicamente, un forte legame con lo stato maggiore dell’esercito. In quegli anni viene istituito un reparto speciale dell’esercito — chiamato sportska četa — dedicato ai calciatori professionisti che hanno bisogno di tenersi in forma: sullo stesso campo d’allenamento dell’esercito ci sono, in quella stagione, Darko Pančev, Aljoša Asanović e Zvonimir Boban.
Li riconoscete tutti? Grazie internet.
La patria si serve anche su un campo da calcio, e così ai talenti è consentito tornare in prima squadra in occasione delle partite internazionali. Dejan Savićević esordisce con la maglia della Stella Rossa in Coppa dei Campioni contro il Dundalk e un mese dopo, nella gara di ritorno, segna il suo primo gol.
A dargli la palla non poteva che essere Dragan Stojković, poi Dejo la difende bene, tira, segna e si va a prendere l’abbraccio del Marakana.
In quell’anno nasce il mito europeo della Stella Rossa, della sua irripetibile capacità di sfornare talenti poco inquadrabili, ognuno a suo modo sofisticato e mai più visto su un campo da calcio.
Non esisterà mai più un Dragan Stojković, non esisterà mai più un Dejan Savićević, esistono ed esisteranno giocatori con la stessa quantità di talento, ma nessuno con lo stesso modo imprevedibile ed illogico di esprimerlo, l’uno accanto all’altro, in una squadra che pareva avere poco di terreno.
I tifosi del Marakana tutto questo lo sapevano.
«Dejo, maestro, tu sei Dio!
Ehi, ora fai cantare tutto il Marakana:
Dejo, genio, tu sei Dio»
Un paio di mesi dopo la Stella Rossa gioca contro il Milan, l’andata a San Siro era finita uno a uno e ovviamente aveva segnato Stojković, dribblando Baresi e il resto della difesa rossonera.
Quando si scende in campo a Belgrado c’è una nebbia che pare Milano: Savićević segna dopo 50 minuti ma nessuno ha mai visto quel gol, la cui testimonianza è solo nelle parole di Franco Baresi: «Abbiamo fatto il fuorigioco su Stojković, ma il guardalinee, nella nebbia, non se n’è accorto. Dal fondo è partito il centro basso per Savićević che ha infilato sotto la traversa con un gran sinistro da quindici metri»; l’arbitro capisce che è una follia, sospende la partita e dice che si ricomincia il giorno dopo dallo zero a zero. Altro segno dei tempi.
Il giorno dopo in manco mezz’ora la Crvena zvezda confeziona un’opera d’arte: Dejo riceve un lancio lungo sulla trequarti, stop di petto, palleggio di sinistro e improvvisa verticalizzazione per Stojković, che tira sotto la traversa.
Prima della partita, in conferenza stampa, Arrigo Sacchi aveva detto «Se poi andiamo fuori, pazienza. In novant’anni di vita il Milan ha vinto solo due volte la Coppa dei Campioni, una ragione ci sarà, se usciamo non ne faremo un dramma». Il Milan ci andò vicino ad andare fuori, ma poi Dejo sbagliò il rigore decisivo, errore che non bastò, ad ogni modo, a non far innamorare Silvio Berlusconi. Savićević ci mise tre anni ad arrivare al Milan, tempo di coronare il ciclo belgradese con una Coppa dei Campioni in quella finale vinta in faccia a Dragan Stojković. Nonostante quella che perse contro il Milan era una Stella Rossa forse ancor più forte, senz’altro meno terrena.
È impossibile scrivere una storia del Genio senza dedicarne una parte alla finale di Coppa contro il Barcellona di Crujff.
La storia del talento di Dejan Savićević non è quella dei grandi numeri, dei record battuti, della continuità di prestazioni; è piuttosto una storia di momenti, di grandi partite, di gesti capaci di illuminare improvvisamente il campo da calcio. In tal senso quella partita col Barcellona ha l’aspetto di un manifesto di poetica.
Si trattava dell’ultimo grande Milan, lontano dalla freschezza tattica di quello di Sacchi, pieno di giocatori stanchi. In più quella sera mancavano Baresi e Costacurta, il che aveva aumentato la già immensa spavalderia di Johann Crujff, che prima della partita si è permesso di definire il Milan «una squadra prosaica» e Marcel Desailly «un operaio del pallone senza tecnica calcistica» (la Repubblica, prima della partita, lo aveva definito «un rugbista felicemente prestato al calcio»). Poi si fece persino fotografare con la coppa in mano.
Qualche mese prima Berlusconi era sceso in politica e dice di aver ascoltato la partita da dentro l’aula del senato, dove aveva appena ottenuto la fiducia al suo primo governo per soli sei voti. Prima però aveva telefonato a Dejo dicendogli: «Dejan, dicono che sei Il Genio. Dimostralo ad Atene, non tradire». In inverno non stava bene al Milan e ci è mancato pochissimo che non passasse anche lui all’OM, ma poi ha deciso di rimanere e le cose hanno iniziato ad andar meglio.
Ad Atene Dejo fa prima l’assist per Massaro poi, sul due a zero, fa il gol a cui verrà per sempre associata la sua carriera. Va a contrastare un tentativo di rilancio di Nadal (Tony, zio e allenatore di Rafa) la palla rimbalza appena fuori il vertice destro dell’area e Dejo fa un pallonetto di piatto leggero e malizioso: la palla vola sul secondo palo e scavalca Zubizarreta.
È difficile capire in quale momento Il Genio ha deciso il pallonetto, dal replay sembra che non stacchi mai gli occhi dal pallone per guardare la porta.
Tutti i giocatori del Milan dedicarono quella vittoria a Silvio Berlusconi, compreso Dejan Savićević.
L’ultima partita
Quattro anni prima. Il 30 giugno del 1990 è un sabato e a Firenze c’è un sole incredibile. All’Artemio Franchi Argentina e Jugoslavia si giocano l’ingresso alle semifinali di quello che è stato fino a quel momento un mondiale noioso.
È l’ultima partita della selezione jugoslava a un mondiale, uno degli ultimi momenti della sua magnificenza tecnica.
In campo ci sono, tutti assieme, in una magica nuvola di centrocampo: Jozić, Brnović, Sušić, Šabanadžović, Prosinečki. Zvone Boban — il principe — è rimasto a Zagabria a scontare la squalifica di un anno. Un mese prima allo stadio Maksimir, durante Dinamo Zagabria-Stella Rossa, ha calciato un agente della polizia federale jugoslava per difendere un tifoso croato dalle manganellate.
Avrebbe dovuto sostituirlo Dejan Savićević, che invece è solo seduto in panchina. Ha giocato le prime partite da titolare in modo troppo timido e Osim lo ha fatto accomodare. I due non si piacciono per niente, quattro anni prima Savićević non era stato chiamato per giocare a Wembley contro l’Inghilterra e in un’intervista a Duga ha dichiarato secco: «non ho nessun rispetto per lui come allenatore». Dejo accusa Osim di gestire la nazionale un po’ come vuole, facendo giocare senza motivo diversi giocatori dello Željezničar, la squadra allenata dall’allenatore bosniaco fino all’anno prima. Quattro anni dopo le cose non sembrano poi così cambiate, Savićević fatica ancora a giocare.
Col 10 in campo Dragan Stojiković è al massimo del suo splendore: la partita prima, contro la Spagna, l’ha vinta da solo. A dodici minuti dalla fine gli è arrivato un cross alto, ha guardato la palla scendere e ha fintato il tiro con la compostezza controllata di un tennista al servizio. Solo quando il difensore spagnolo era ben disteso a terra ha messo la palla in rete, con un tocco di piatto infilato nell’esatto punto tra il piede del portiere e quello del difensore in scivolata.
Sei minuti dopo la Spagna ha pareggiato con un gol di Salinas. All’inizio dei tempi supplementari c’è una punizione dai 25 metri, Zubizarreta ha messo male la barriera: Stojković se ne accorge e fa passare la palla proprio accanto alla spalla sinistra di Michel.
Le cose belle di questo video sono: la grafica Olivetti; la quantità di volte che i giocatori della Jugoslavia toccano la palla d’esterno; un paio di cambi di gioco di 30 metri; un tunnel nella propria metà campo all’ultimo minuto di gioco; la precisione con cui Stojković riesce a incarnare la figura del 10: cioè prendendo la palla e giocandola in versi.
Quella punizione l’aveva guadagnata Savićević, entrato al 55esimo al posto di Pančev col piglio di chi ha l’impressione che potrebbe essere uno degli ultimi momenti per lasciare un segno sul mondiale.
Prima della partita contro l’Argentina si infortuna Katanec e tutto lascerebbe pensare che a giocare sarà il Genio, ma Osim gli preferisce un Prosinečki ventunenne. Durante la prima mezz’ora Šabanadžović riesce a prendersi due gialli per tentare di fermare l’altro dieci, Diego Maradona, e la partita si complica parecchio. Il fatto che si rimanga sullo zero a zero per 120 minuti contro l’Argentina di Diego dà la misura della forza di quella Jugoslavia.
La palla buona arriva all’inizio dei supplementari: Prosinečki accelera e la dà a Stojiković, che sul vertice sinistro dell’area punta il marcatore, con un’ultima finta a rientrare lo stende a terra e mette un cioccolatino per Savićević, entrato mezz’ora prima. Il Genio la colpisce di interno sinistro e la mette alta sopra la traversa.
Oggi sarebbe inconcepibile lasciare il miglior giocatore avversario puntare uno-contro-uno il marcatore, senza alcuni tipo di raddoppio. Savićević a 8:54 non riesce a farsela passare e si mette le mani tra i capelli.
Beckham, Baggio, Snejder, Riquelme: spesso a sbagliare il rigore decisivo è il giocatore che meno dovrebbe sbagliarlo. È per questo scherzo senza senso che Stojković sbaglierà il suo, il primo. Arrivato sul dischetto scioglie i piedi tirando tre palleggi, poi la piazza e tira cercando l’incrocio. La palla prende la traversa e torna a centrocampo, Piksi si nasconde la faccia dentro la maglia.
Per la stessa logica Maradona sbaglierà il suo, un rigore triste e incerto, una cosa che fa male agli occhi. Savićević invece segna ma non basterà.
Si tratta di una delle sceneggiature più intricate per dei calci di rigore. A tirare quello che avrebbe dato la vittoria della Jugoslavia va inizialmente Hadžibević, appena prima viene richiamato e va Brnović, che sbaglia. Poi Hadžibević torna sul dischetto per sbagliare il rigore che dà la vittoria all’Argentina.
Se la storia avesse un minimo di gusto estetico quel mondiale l’avrebbe vinto la Jugoslavia. Stojković e Savićević avrebbero sancito l’incidente storico che li ha messi insieme su un campo da calcio, nell’evento più grande, al livello zenitale del loro gioco.
Due anni dopo la nazionale Jugoslava che si avvicina agli Europei di Svezia è per molti ancora migliore, ma, come detto, non scende mai in campo. Al suo posto viene chiamata la Danimarca, che alla fine vince la competizione.
In quella nazionale, in ogni caso, non ci sarebbe stato Dragan Stojković, alle prese col solito ginocchio sfasciato.
Quella con l’Argentina era l’ultima possibilità, ma né Piksi né il Genio questo lo sapevano.
Dopo quel mondiale le loro storie si sono divise prendendo consistenze e grane diverse. Quella di Savićević ha seguito la traiettoria che dovrebbe avere la carriera di un grande giocatore; quella di Dragan Stojković si è arenata, malinconica, per poi ritrovare un’insperata nuova vita in Giappone. A Nagoya, città nipponica, c’è una strada intitolata a Dragan, mentre la casa automobilistica Toyota da qualche anno ha progettato il modello “Toyota Pixis”. Può capitare se dalla panchina del “Nagoya Grampus” trovi simili parabole di mezzo collo esterno.
In un’intervista del 1995 chiesero a Savićević se era tornato ad essere quello della Stella Rossa o se non fosse addirittura migliorato; lui, con un sorriso triste, rispose che non si vedrà mai più il Dejan Savićević della Stella Rossa perché alla Stella Rossa si giocava diversamente.
Il linguaggio calcistico di quella Jugoslavia rimane una coincidenza unica, capace di esprimere il massimo del suo splendore in pochi momenti e in pochi giocatori. Dragan Stojković e Dejan Savićević erano tra questi, e insieme su un campo da calcio brillavano della luce dell’irripetibilità.
Quando al San Nicola di Bari Dejo alzava al cielo la Coppa dei Campioni, Dragan Stojković, con indosso la medaglia degli sconfitti, forse avrà ripensato a quanto sarebbe stato facile mettere in rete quell’assist contro l’Argentina per uno come Dejan Savićević.
Illustrazione di Sara Mazzucato di Toast Zine e Gigapark.
Di Federico Goddi (Piski) @FedericoGoddi ed Emanuele Atturo (Il Genio) @Perelaa
Questo post è stato pubblicato la prima volta su Crampi Sportivi, una rivista online di approfondimento sportivo nata con l’intento di portare Zinedine Zidane e Dennis Rodman al cena dal professor Heidegger.