Ho iniziato a giocare a rugby quando avevo 15 anni, nel 2004. Ho smesso – per ragioni poco chiare anche a me stesso – a 21, nel 2010. Fisicamente stavo bene. Avevo visto ragazzi sulle stampelle con i crociati rotti, ma il mio fisico era integro.
Non ho lasciato un segno tangibile nel rugby. Di quegli anni ho ricordi bellissimi, partite memorabili, trasferte a Palermo e a Messina e a Siracusa, pane e panelle e panini con la frittata mangiati in pullman (con tutte le conseguenze olfattive del caso), placcaggi riusciti e placcaggi riusciti un po’ meno, la prima meta, i dolori, le mischie chiuse, il senso di sicurezza e di protezione nello stringere il compagno di fianco a me, l’Oki prima di una partita, le selezioni regionali sfiorate.
Ma in effetti, adesso, non è della mia breve carriera rugbistica che voglio parlare. In questa storia io c’entro solo perché, forse, se ho passato sei anni con una palla ovale tra le braccia, è stato merito di un signore neozelandese di origini tongane che si chiamava Siona Tali Lomu, anche se il mondo poi l’ha conosciuto e ammirato e amato come Jonah, il nome che gli avevano dato a scuola ad Auckland.
Jonah Lomu è il rugby. Non ha smesso di esserlo nemmeno ora che è morto. E non aveva smesso di esserlo nemmeno quando aveva lasciato per l’ultima volta la palla ovale, nel 2010, sfiancato da dialisi, trapianto, cure e infortuni vari.
Era il 1995, l’anno chiave del rugby, e Jonah aveva vent’anni: si stava caricando sulle spalle già larghe e forti un intero movimento che abbandonava il dilettantismo e si accingeva a muovevere i primi passi nel professionismo. Lomu aveva esordito un anno prima con la maglia degli All Blacks, il più giovane di sempre (record che resiste ancora).
Il 18 giugno ‘95, durante la semifinale di Coppa del Mondo contro l’Inghilterra, Jonah portò il rugby a un livello superiore: non era in ballo la perfezione, ma un’idea di potenza che, fino ad allora, sembrava lontanissima dagli esseri umani. Tutti parlarono di Lomu, anche quelli che non sapevano nemmeno che la palla, nel rugby, si passa solo all’indietro. Bastarono pochi minuti di quella partita. Erano passati più o meno novanta secondi dal fischio d’inizio. Un passaggio sporco costrinse Lomu a frenare e a correre orizzontalmente per recuperare l’ovale. Una volta raddrizzata la corsa, Jonah resistette ai placcaggi di Tony Underwood e Will Carling, passò letteralmente sopra Mike Catt e schiacciò in meta. In tutto una decina di secondi circa.
Volendo semplificare, quell’azione è riassumibile così: palla a Lomu che asfalta tre avversari e segna una meta. In realtà è qualcosa di più complesso. Quello è il momento in cui il rugby finisce sotto i riflettori, perde l’innocenza (o quella che credeva tale) amatoriale e diventa uno sport adulto.
La corsa maestosa e implacabile di Lomu alzò l’asticella, cambiò il modo di concepire l’ala. Se prima in quel ruolo venivano schierati giocatori veloci e basta, Jonah aprì la strada a una concezione moderna in cui alla rapidità si abbina la potenza fisica, un’esplosività e una muscolarità nuove. Al di là del passaggio al professionismo, quel ventenne mostrò agli inventori di quello sport bizzarro, gli inglesi, e al mondo intero un altro modo di giocare. Quei dieci secondi segnarono un prima e un dopo, sia nella storia del rugby che nella mia vita: io avrei visto quell’azione solo nove anni dopo, su un dvd, e sarei rimasto estasiato da quella corsa più vicina a un poema epico che a un gesto sportivo.
Jonah Lomu era un corpo celeste che acquista velocità e forza man mano che avanza nell’atmosfera, un asteroide che punta inesorabile verso l’area di meta. E sembrava invincibile, come se l’atmosfera attorno a lui fosse incandescente e gli avversari, semplicemente, non potessero avvicinarsi. Oppure, nel caso in cui ci fossero riusciti, sarebbero finiti a terra, disintegrati dall’impatto con lui.
Per farci un’idea di che tipo di rugbista e di atleta fosse Lomu, basterebbe guardare un video fatto da un fan, come se ne trovano a migliaia su YouTube con le skill di uno sportivo. Il video in questione dura otto minuti e ventuno secondi. In sottofondo, in loop, Intro degli xx.
Già la scelta della musica è interessante: laddove l’intuito e l’umana inclinazione all’ovvietà avrebbe portato chiunque a selezionare un pezzo con un numero di bpm alto per fomentare lo spettatore e aumentare l’eco epica delle immagini, il fan sceglie l’opzione meno scontata, una canzone inesorabilmente calma, rilassata, che si adagia sui muscoli di Lomu e fa risaltare, quasi per contrasto, la sua potenza non umana e l’irrimediabilità della sua corsa.
Quello che colpisce, poi, è proprio la corsa: c’era quel tipo di esplosività caratteristica dei centometristi (e Jonah, a scuola, iniziò proprio dall’atletica leggera), ma arricchita da una spinta rabbiosa sui quadricipiti e da un uso particolare delle braccia, che contribuiscono alla difesa del pallone e all’allontanamento dell’avversario. Nello scarto laterale, Lomu usa gli arti superiori possenti per tenere una certa distanza tra sé e gli aspiranti placcatori.
C’era anche un afflato distruttivo nel gioco di Lomu: negava uno dei fondamentali del rugby, il placcaggio, cancellando alla radice anche solo la possibilità, per l’avversario, di avvicinarsi al suo corpo sacro. Quando poi non poteva scartare o allontanare il placcatore, Jonah, semplicemente, andava all’impatto. Quell’andare addosso all’avversario era l’ultima possibilità, l’opzione da scegliere quando le altre non c’erano più. Ecco come descrive nella sua autobiografia un parte di quell’azione iconica contro l’Inghilterra, nel ’95:
Attento, arriva Mike Catt a velocità doppia. Non ho scelta. Vedo la sua spalla. Alza il ginocchio Jonah! Bang! Gli vado addosso. Lo supero. Gli passo praticamente attraverso…Mi dispiace Mike…
In uno sport in cui il singolo deve fondersi nel collettivo per contribuire alla vittoria della squadra, Lomu è il primo rugbysta che rompe gli equilibri, che spacca le linee di difesa e le partite. Un giochino interessante da fare è contare quanti avversari servono per fermarlo (ci sarebbe poi anche il gioco della conta degli avversari superati). Sempre in quel video, intorno al minuto, c’è un’azione contro i Barbarians. Dopo essersi liberato agevolmente di cinque avversari, ne servono altri quattro, aggrappati alle sue spalle come alpinisti dilettanti, per frenare la sua corsa. Qui è una questione matematica: se quattro stavano su Lomu, vuol dire che la linea di difesa era composta da undici giocatori che avrebbero dovuto contenere l’attacco di quattordici neozelandesi. Matematicamente parlando, Lomu era l’incognita che risolveva l’equazione sempre a favore della sua squadra.
Jonah Lomu, a vent’anni, era diventato l’eroe di uno sport che tentava di uscire dalla nicchia per raggiungere il grande pubblico. La popolarità di Lomu toccò vette mai viste prima nel rugby, tanto che Adidas, sponsor tecnico degli All Blacks, girò uno spot in cui il ragazzone salva un pesce agonizzante con una corsa implacabile fino al molo.
Se in questo spot Lomu è un supereroe, in un altro del 2007 viene fuori tutta la sua umanità. La campagna di Adidas è Impossible is nothing. In un mintuo, Lomu racconta la sua battaglia contro l’unico avversario che sia riuscito a fermarlo: i suoi reni.
Poco dopo l’esplosione alla Coppa del Mondo del ’95 (con il rammarico per la finale persa contro i padroni di casa del Sudafrica, che con il drop di Joël Stransky stavano riscrivendo la loro storia nazionale), Jonah Lomu aveva scoperto che l’avversario più temibile era proprio dentro il suo corpo invincibile. Gli era stata diagnosticata una sindrome nefrosica, cioè i suoi reni non lavoravano a dovere: nel sangue Jonah aveva pochissime proteine e un tasso di colesterolo troppo alto. Il suo sangue andava ripulito artificialmente. Era iniziato il calvario della dialisi.
Stare attaccato a una macchina per sei o otto ore vuol dire che non puoi allenarti. Vuol dire che devi stare lontano dall’unico posto in cui ti senti a casa. Perché per Jonah, il rugby, era anche un modo per sfuggire alle cose brutte della vita. Come crescere a South Auckland e, soprattutto, vivere con un padre violento. E forse proprio a causa di quell’infanzia difficile l’ultimo sogno di Lomu, dopo aver visto sfumare quello del ritorno in campo, riguardava proprio i suoi figli. In un’intervista di fine agosto aveva dichiarato che il suo unico desiderio era vivere fino a quando i figli fossero diventati maggiorenni.
Come ho detto, la mia scoperta di Lomu avvenne nel 2004. Fu potentissima. In quegli anni stavo combattendo una battaglia con il mio corpo. Non mi piaceva. Non mi accettavo. Gli altri non mi accettavano. Ero grasso, ingombrante, pesante. L’ora di educazione fisica era un inferno di sfottò e di limiti che mi si ponevano davanti di continuo. Ero lento e goffo.
Vedere un ragazzo di vent’anni che abbatteva qualsiasi ostacolo si frapponesse fra lui e la meta fu una folgorazione. Vedere che un corpo poteva essere così perfetto e potesse sprigionare una luce divina fu una rivelazione. Fu la corsa potente, elegante, maestosa e implacabile di Jonah Lomu a spronarmi a volermi un po’ più bene, a rispettare di più il mio corpo, a trasformarlo se proprio non mi piaceva e non mi ci sentivo a mio agio. Fu come se con quella corsa Jonah mi avesse scritto un messaggio.
Subito dopo, però, scoprii anche che anche Lomu era un essere umano. Lessi articoli sulla malattia. La cercai sull’Enciclopedia Utet nello studio di mio padre. Mi affannai per capirne la gravità, per tratteggiare i limiti che stava ponendo alla sua carriera e alla sua vita. Mi passavo spesso una mano sulla schiena, in corrispondenza dei reni. Mi chiedevo se in qualche modo i miei potessero essere compatibili, se fossi stato un potenziale donatore, se avessi potuto salvare il mio eroe, capovolgendo la storia: se lui, in un modo un po’ strambo, aveva salvato me, io, pensavo, avrei potuto salvare lui donandogli un mio rene.
Alla fine un donatore lo trovò. In campo, però, Jonah ci tornò raramente, a singhiozzo. Ci ritirammo entrambi nel 2010. A questa coincidenza ci penso da ieri mattina, quando ho appreso della sua morte mentre facevo colazione. Cinque anni fa non me ne accorsi nemmeno che ci stavamo ritirando entrambi.
Negli ultimi anni il rugby è stato un pensiero doloroso, per me. Immagino lo sia stato anche per Lomu. Io ho smesso di giocare, ma stavo bene. Finalmente andavo d’accordo con il mio corpo. Jonah, invece, ha smesso proprio perché il suo corpo non andava più d’accordo con lui. Quel corpo sovrumano, perfetto, possente, veloce e implacabile come quello di una divinità greca aveva smesso di funzionare molto tempo prima del ritiro. Quel corpo era diventato una gabbia. Quel corpo abituato a rompere ogni limite era diventato esso stesso un limite alla volontà di Jonah.
Negli ultimi anni ho cercato di non pensare al rugby, per tutta la scia di rammarico e di interrogativi (ma poi, perché avevo smesso?). Jonah Lomu è rimasto protetto nel mio Olimpo personale, come è giusto che sia per le divinità, anche quando mostrano debolezze tutte umane. Fino a ieri mattina.
Adesso immagino il corpo di Jonah sotto terra. Tutta quello spreco di potenza. Mi dico che è un peccato che i supereroi muoiano. E, forse, quando questo succede muore anche una piccola parte di te. Una parte infantile, adolescenziale. Se potessi, prenderei adesso un volo per la Nuova Zelanda e correrei a piangere sulla bara di Lomu. A piangere sui miei sogni di adolescente. Sul sogno di giocare a rugby tutta la vita, di andare in nazionale, di giocare un mondiale, di vincere con la maglia bianca e rossa dell’Amatori Catania.
Questo post di Sebastiano Iannizzotto è comparso per la prima volta su Crampi Sportivi.
