Nell’agosto del 2016 si svolgevano i Giochi della XXXI Olimpiade a Rio de Janeiro. Dal momento che il Brasile non è esattamente dietro l’angolo, quando Federica Pellegrini si arrendeva a una manciata di centesimi dall’australiana Emma McKeon e finiva ai piedi del podio olimpico (di nuovo), in Italia erano le 3 del mattino o qualcosa del genere.
Poco prima dello start di quella gara ho visto mia sorella scendere le scale a tentoni, versarsi un bicchiere d’acqua, continuare a stropicciarsi gli occhi e mettersi seduta davanti alla TV. Mia sorella venera le sue ore di sonno, eppure quella notte ha messo la sveglia e ha raggiunto il suo insonne fratello al piano di sotto, tutto pur di essere parte del momento.
Federica Pellegrini è un’atleta che sta a parte: ha vinto ripetutamente di tutto, è una delle più longeve della storia del nuoto moderno ed è a tutti gli effetti un elemento della cultura popolare italiana esattamente come Mennea, Tomba e Vezzali, tutti campioni destinati a essere qualcosa di più che campioni. Per “di più” non si intende necessariamente un’ulteriore legittimazione del loro valore sportivo, bensì una loro presenza all’interno dell’identità nazionale come singoli momenti della storia di un paese, non come atleti.
Per questo ogni volta che uno sportivo o una sportiva di questo calibro si presenta in pedana, su un blocco di partenza o al cancelletto, lasciare che il momento passi senza esserne direttamente partecipe rischia di diventare un grosso rimpianto.
Mio nonno mi ricorda sempre quando un suo amico gli procurò dei biglietti per le olimpiadi di Roma del 1960: fu testimone della maratona dove si impose il mitologico Abebe Bikila, arrivato ai Fori Imperiali con i piedi sanguinanti (le scarpe offertegli dal comitato olimpico erano scomode, meglio andare senza).
Cosa c’entra un maratoneta etiope con la cultura nazionale italiana? Quasi niente, eppure mio nonno quelle immagini le ha tatuate in testa, come se una parte, seppur periferica, della storia avesse coinvolto anche lui. La sensazione di essere partecipe di un momento che non passerà di nuovo, l’idea di esserci quando altri non hanno questo privilegio, queste sono alcune delle ragioni per cui vale sempre la pena guardare a qualsiasi ora, in qualsiasi condizioni, le Olimpiadi. I Giochi sono sport, cultura, attualità, vita; il tutto mescolato in un gigantesco frullatore che restituisce una centrifuga al sapore di bellezza che non appaga soltanto la vista.
Notti bianche
Si sono da poco concluse le Olimpiadi invernali di Pyeongchang, una sperduta cittadina sudcoreana vicino al confine con la Corea del Nord. Anche in questo caso le gare facevano a pugni con il sonno di noi occidentali, di conseguenza se si voleva vivere l’evento live era necessario armarsi di biscotti (per i più salutisti, che so, carote?), caffè e forza di volontà.
Seguire i Giochi ad agosto è assai più semplice, poiché le ore di sonno perse si possono recuperare senza temere di addormentarsi in aula o alla scrivania, farlo a febbraio d’altro canto mette a dura prova la passione di uno sportofilo che prova piacere nel vedere determinate gare, ma per il quale tali gare non valgono il sonno lasciato sul piatto. Tutto giusto. Quindi?
Non c’è un quindi, certe cose vanno sentite. Durante questi Giochi ci sono state soltanto un paio di notti in cui ho tirato dritto senza mai cadere tra le braccia di Morfeo; altre volte spegnevo il laptop alle 3 o alle 4 del mattino, giusto il tempo di vedere la gara che mi interessava (spesso di sci alpino).
Quando sono stato sveglio all night long, l’ho fatto perché sentivo che era la cosa giusta da fare, magari perché c’erano degli atleti italiani coinvolti e allora era fondamentale il mio supporto(ovviamente non era fondamentale, ma nella mia testa lo era). Lo sentivo, era un richiamo sinistro simile a quello delle sirene e io non potevo far altro che gettarmi in un mare (di caffè) per rispondere al dolce suono dei cinque cerchi.
È più forte di me, non sto scherzando. Alcuni mi hanno definito un fanatico, e direi anche no, dal momento che della coppa del mondo di biathlon a me interessa il giusto; eppure in queste due settimane mi sono gustato ogni gara in cui questi prima sciavano come dei forsennati e poi sparavano con grande precisione a bersagli per me distanti anni luce, che non riuscirei a prendere nemmeno se arrivassi bello riposato al poligono con un fucile a mirino in assenza totale di vento. Questi invece ci prendevano, con il vento e dopo aver fatto svariati chilometri a racchettare sulla neve con questi attrezzi ai piedi, che a me solo per alzarli servirebbe una settimana di esercizi con quelle strane e oscure macchine che si vedono da Decathlon.
Le gare di biathlon però erano in mattinata; la sensazione di vivere nel momento giusto non mancava di certo, ma la notte è tutta un’altra cosa.
È come essere invitato al più esclusivo club al mondo, in cui delle voci ti sussurrano che è giusto fare quello che stai facendo perché non potresti mai spendere meglio il tuo tempo. La notte è roba per pochi; quando mi metto sdraiato, con il pc vicino, mi immagino che in quel momento siamo svegli io e un altro ristretto gruppo di eletti a cui è stata conferita la stessa missione: esserci.
Ci sono stati tre momenti in particolare duranti i quali sono stato fiero di non aver ceduto alla tentazione del cuscino: il quarto posto di Shiffrin, l’oro di Moioli e l’oro di Goggia.
Mikaela Shiffrin è la dominatrice assoluta dello sci femminile, una macchina da risultati che nello slalom, quando è in condizione, rifila distacchi abissali alle rivali. Arrivava alla gara olimpica di slalom in splendida forma, aveva già vinto un oro nello slalom gigante, e niente lasciava presagire un esito diverso di lei festante sul gradino più alto del podio. Le Olimpiadi però sanno essere spietate, quando rimescolano le carte spesso esce fuori una sorpresa, e infatti Shiffrin non è salita nemmeno sul podio. Non ci volevo credere, si trattava di un evento cataclismico per lo sci alpino; i commentatori erano increduli e la faccia della Gallhuber (sul podio alla prima Olimpiade) era qualcosa di indescrivibile. La potevo vedere in differita? Certo, ma sarebbe stato come mangiare un piatto cucinato da Bottura scaldato al microonde. Il sapore rimane prelibato ma si perde quel qualcosa che ha bisogno dell’istante esatto per essere sentito e vissuto appieno.
Per questo le due bergamasche, Moioli e Goggia, avevano bisogno del mio tifo notturno. Non era qualcosa che si poteva posticipare, rimandare al giorno dopo. Non c’era questa opzione, non esisteva nella mia mente, proprio perché il live restituisce quella scarica di adrenalina anche minima, di cui però un evento sportivo di tale portata necessita.
La gara di Moioli, snowbordista, era qualcosa che accadeva in divenire. Prima c’erano le qualificazioni, poi i quarti e le semifinali, e infine la finale, il tutto condensato in una notte; dopo ogni manche mi ripetevo che stava bene, la vedevo bene, poteva farcela, anche le altre sono forti, vabbè vediamo la prossima, e alla fine ce l’ha fatta.
È stata una liberazione ed è stato bellissimo proprio perché a scandire i tempi non era l’on demand, dove (giustamente) si saltano i tempi morti per andare al succo, ma era l’orologio che stimolava aspettative e speranze, il tutto nel silenzio più assoluto della notte, in cui eravamo io e lei, io in camera e lei a Pyeongchang. Ma nella mia testa stavamo soffrendo insieme, e soffrire in quel momento era importante. Se avessi visto la gara il giorno dopo, sarei stato io da solo a guardare una gara già finita; invece ero lì in quel momento, quando gli altri dormivano, e mentre io tifavo lei scendeva ed esultava proprio in quel momento.
Con Sofia invece sento un legame che ho sentito certe volte per l’Inter e per la nazionale di rugby. Qualcosa per cui vale la pena soffrire perché sapevo che sarebbero arrivati i risultati.
Aspetta Paolo, vedrai che i risultati arriveranno.
Ho da poco finito di leggere l’autobiografia di Agassi; a un certo punto della sua carriera il fenomenale tennista statunitense continuava a perdere e ogni volta che tornava sconfitto nello spogliatoio trovava il suo storico allenatore Brad Gilbert. «Buone cose Andre, stanno per succedere buone cose». Continuava a ripeterlo perché vedeva che quelle sconfitte erano il prologo a una serie di vittorie che sarebbero rimaste scandite nel tempo. Io più o meno faccio la stessa cosa.
Quando Mourinho firmò per i nerazzurri, l’Inter sembrava comunque non avere ancora quella dimensione continentale necessaria ad aggiudicarsi la Champions. «Buone cose». A ogni Sei Nazioni in cui vedo l’Italia accusare ogni singolo anno di gap sportivo con squadre che questo sport l’hanno inventato, continuo a ripetere: «Buone cose» (qui ancora non abbiamo riscosso, ma chissà).
Dopo le prime due gare della Goggia alle Olimpiadi (undicesima sia in gigante che in super g) riuscivo a sentire la mia testa: «Buone cose Sofia, buone cose». Oro in discesa libera, cosa che a un atleta italiano non succedeva dai tempi di Zeno Colò. Cosa vuol dire la parola differita?
Tasselli di un puzzle
Le Olimpiadi sono così affascinanti perché sono delle storie e le storie si possono leggere sui libri o si possono sentir scorrere, veder scorrere, esserne comparse, persino attori non protagonisti delle volte. Le storie non sono mancate nemmeno a Pyeongchang.
Pronti… via e la cerimonia di apertura ci regala il momento più conciliante di questa olimpiade: la sfilata sotto la bandiera della Corea della Corea. Tutta la Corea. Nord e Sud si dimenticano di essere ancora in una situazione di armistizio e celebrano una comunione tra popoli che ispira chiunque sia impegnato a guardare.
Poi il palcoscenico viene consegnato allo sport, che ci regala vibranti emozioni per due settimane, di cui cito due episodi simbolo di questa manifestazione e delle Olimpiadi in generale: l’oro di Ledecka e l’oro della nazionale maschile statunitense di curling.
Entrambe le storie hanno occupato una parte importante del mio social feed, di conseguenza ritengo siano abbastanza conosciute. Ester Ledecka ha vinto l’oro in super g e l’oro nel gigante parallelo di snowboard, che più o meno è come se Michael Phelps vincesse prima l’oro nei 200 farfalla e poi bissasse con l’oro nei 200 metri piani. Una follia, tanto che dopo l’atleta numero 20, sicuro della vittoria di Anna Fenninger-Veith nel super G, spengo il portatile e mi perdo la gara.
Ledecka in tutte le lingue del mondo! ????????????
Sentite la reazione dei commentatori di Eurosport all’oro più inatteso delle Olimpiadi di #PyeongChang2018 ?️#Ledecka #HomeOfTheOlympics pic.twitter.com/bJSBA20S0V
— Eurosport IT (@Eurosport_IT) 18 febbraio 2018
Il curling statunitense, invece, è la classica storia che Hollywood prenderà e trasformerà nell’ennesimo capolavoro a tema sportivo (perché tutto si può dire degli americani, tranne che non sappiano fare film sullo sport), in cui il protagonista da emarginato diventa il primo a riuscire dove nessuno aveva mai osato. Il soggetto del nuovo Miracle on Ice è John Shuster, bistrattato e osteggiato da federazione e tifosi per la sua predilezione a bucare sempre e comunque gli appuntamenti importanti.
Shuster ha messo insieme un suo team, ha vinto i trials che garantivano l’accesso olimpico e ha regalato agli Stati Uniti la prima medaglia d’oro nel curling, a naso una delle poche discipline olimpiche che mancavano nell’opulento palmares del Team USA.
Quando cala il sipario su un’edizione delle Olimpiadi mi assale sempre un filo di malinconia, ma ho anche la sensazione che in un modo o nell’altro le tessere siano finite tutte al loro posto. Lo sport c’era, il folklore c’era, le sorprese c’erano; io c’ero, ero lì, cioè non ero lì, ma non ero nemmeno così lontano, perché ho visto e vissuto tutto quello che c’era da vedere e vivere. Tra due anni siamo a Tokyo, di nuovo in Asia, di nuovo a orari proib… ah no, niente. Sayonara.