Sentirsi ingannati da dio in persona – riflessioni a caldo sul mineirazo
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Sentirsi ingannati da dio in persona – riflessioni a caldo sul mineirazo

«Ho visto un popolo a testa bassa, con le lacrime agli occhi, senza parole, abbandonare lo stadio come se tornasse dal funerale di un amatissimo padre»

 «Ho visto un popolo a testa bassa, con le lacrime agli occhi, senza parole, abbandonare lo stadio come se tornasse dal funerale di un amatissimo padre. Ho visto un popolo sconfitto, e più che sconfitto, senza speranza. Questo mi ha fatto male al cuore. Tutto l’entusiasmo dei minuti iniziali della partita ridotto a povera cenere di un fuoco spento»

José Lins do Rego sul Marcanazo

 

Avvilire, mortificare qualcuno facendogli provare un senso di inferiorità, di disagio o di vergogna. Questo è il significato di Umiliare. Humilar in portoghese. Questo è il significato della parola che non smetteremo di sentirci ripetere intorno a Brasile – Germania.

«La più grossa umiliazione della storia del calcio brasiliano».

Nonostante gli esercizi di storicizzazione istantanea del match, la realtà è che non siamo ancora in grado di interpretare il significato di questa partita, il peso che avrà negli equilibri storici del calcio, se arriverà persino a ridefinire il senso profondo di questo gioco. Di quanta e quale morale esista quando in undici contro undici si gioca a pallone.

Avremmo mai pensato di vivere su un pianeta in cui la Germania fa sette gol al Brasile a Belo Horizonte?

 

Momento in cui ci fermiamo a riflettere sui nostri limiti

Se ripenso a quando due giorni fa stavo cercando qualche spunto tecnico per scrivere la presentazione di questa partita, non mi viene in mente un’operazione più vacua e inutile.

Ieri qualcuno ha provato ad azzardare interpretazioni sul genere: Scolari non ha letto bene la partita, doveva mettere un centrocampista in più, doveva giocare più basso, non far giocare Bernard. Eccetera eccetera.

Mentre scrivevo la presentazione mi sono imbattuto in questo articolo. In breve: secondo uno strano algoritmo incorporato dentro un indicatore statistico di ESPN, il Brasile – nonostante l’assenza di Neymar – era la squadra da battere.

Ora, riconosco che parlare male a posteriori di queste previsioni non è un’operazione di grande onestà intellettuale, ma credo che la partita di ieri abbia avuto il merito di definire con più chiarezza quali sono i nostri limiti, fino a dove possiamo spingere l’applicazione dell’analiticità al calcio. Fin dove il Dio Calcio abbia intenzione di rivelarsi comprensibile e da dove, invece, dovremmo iniziare ad accettare il mistero.

 

Il breve periodo in cui è esistita una partita

Se volessimo usare un eufemismo potremmo dire che il Brasile ha approcciato “male” la gara. Ma dirlo esaurirebbe la spiegazione del modo in cui dopo pochi minuti i brasiliani si sono persi Thomas Muller – l’avversario più pericoloso di tutti – in area di rigore su un calcio da fermo? Alcuni hanno provato ad analizzare l’accaduto. Hanno notato che Klose ha tagliato davanti a Muller, si è “appiccicato” con Fernandinho e ha fatto un piccolo blocco su David Luiz (Dossena ha addirittura parlato di “leggero fallo”); che in definitiva si è perso Muller. Ma, una volta che abbiamo detto questo, quanto siamo arrivati lontano?

Tra l’uno e il due a zero è passato il più lungo intervallo di tempo in cui la Germania, durante la prima frazione, non ha segnato. È stato l’unico momento in cui il Brasile poteva realisticamente riaprire la gara.

In quel momento il Brasile ha bisogno di un’azione significativa che possa scuoterlo. Di un’occasione in grado di affermare la propria presenza mentale nella partita. Al tredicesimo David Luiz fa un break dalla difesa tipico dei difensori brasiliani, parte in dribbling al centro e rompe due-tre marcature, poi dà un bel passaggio in profondità per Hulk, che è al vertice sinistro dell’area e può puntare Lahm. Forse in quel momento il Brasile poteva rientrare psicologicamente in partita. Ma Hulk non combina niente. La Germania riparte e rimette la testa del Brasile sott’acqua.

Tre minuti più tardi il Brasile riesce addirittura ad arrivare in area con Marcelo, che viene fermato da Lahm con una scivolata ai limiti del disperato. Marcelo si rialza e chiede il rigore. Ne nasce un piccolo battibecco. Il Brasile, invece di riprendere rapidamente il pallone, battere l’angolo e caricare il ritmo del proprio gioco, si è incartato nella provocazione di Boateng. Un altro segnale di come la partita non avrebbe potuto cambiare.

Fino al ventiduesimo in qualche modo il Brasile ha provato a riorganizzarsi. Ha alzato la linea dei difensori, si è proposto con un certo ritmo fino alla trequarti; poi lì sono emersi tutti i limiti di una squadra che aveva impostato interamente sul talento di Neymar la propria manovra offensiva. In quel lasso di tempo i tre trequartisti – Oscar, Hulk e Bernard – tentano lo spunto individuale due volte ciascuno e si fanno fermare sempre.

Poi al ventiduesimo la difesa esce in modo imbarazzante su Toni Kroos sulla trequarti, che dà la palla a Klose, che segna. La partita è finita.

 

Lo spettacolo che abbiamo visto

E dopo? Dopo che al ventinovesimo minuto Toni Kroos ha siglato il quarto gol cosa abbiamo visto? Probabilmente uno degli spettacoli più strani che io ricordi.

La partita ha smesso di essere tale; nel senso che abbiamo smesso di chiederci chi avrebbe vinto: la competizione, l’agon – che è poi il principio cardine del gioco – è venuto meno. Allora che cosa abbiamo guardato fino al novantesimo?

Dal quattro a zero in poi si è smesso di giocare per la contingenza presente: chi vincerà la partita, chi accederà alla finale dei campionati del mondo, chi potrà vincere la coppa. Si è iniziato a negoziare il significato che quella stessa partita avrebbe avuto nella storia. Si è iniziato a giocare in una dimensione futura, già storicizzata.

È stato uno strano paradosso.

Stavamo guardando qualcosa che si stava facendo storia mentre scorreva nel presente. Il palesarsi dell’Ereignis heideggeriano: una rottura dell’ordine del tempo che stava accadendo di fronte a noi. Ad ogni gol della Germania l’accadimento debordava, ci veniva incontro, ci investiva, stupendoci.

Quindi abbiamo cercato sul campo tracce che potessero confermare la straordinarietà della visione: gli occhi lucidi con cui Julio Cèsar guardava in cielo ad ogni gol tedesco, lo sguardo smarrito dei centrocampisti brasiliani, le facce drammatiche, euripidee sugli spalti:

Effetti di superficie di un evento che stava rivoluzionando in profondità molte cose.

 

«In ogni storia d’amore c’è un carnefice e una vittima, uno che se ne andrà intatto e un altro che rimarrà in un angolo a piangere»

L’altra cosa che abbiamo visto in Brasile Germania è stata una prova di forza piuttosto brutale e primitiva. A un certo punto la partita ha assunto le sembianze di uno scontro fra un predatore davvero troppo grosso e forte per una preda troppo piccola e indifesa.

Da un certo momento in poi la Germania disponeva del Brasile, nel senso proprio di “disporre”, cioè usare liberamente. Significa che lo squilibrio in campo – tecnico, tattico e mentale – tra le due squadre era talmente ampio che la Germania poteva, in sostanza, decidere tutto quello che c’era da fare.

Poteva decidere se fermare la carneficina, iniziando a tenere palla e a rallentare il ritmo di gioco – che per certi versi avrebbe reso l’umiliazione ancora più evidente; o continuare a giocare, a segnare, a ingigantire la straordinarietà dell’evento, a spostare ogni volta più in là la soglia di incredulità del mondo che sta a guardare.

C’è da dire che, ogni volta che la storia gli offre l’occasione, i tedeschi vestono i panni del carnefice con una certa disinvoltura.

Una statistica ha dimostrato che, in questi mondiali, durante le vittorie della Germania, l’occorrenza su twitter della parola ‘nazi’ aumentava in modo spropositato. E i parallelismi fondati su luoghi comuni che verrebbero spontanei riguardo la partita di ieri sera sono un numero sterminato.

I tedeschi avrebbero dovuto fermarsi?

Quella del fermarsi o continuare è una questione antica dello sport, e io – come molti, del resto – sono dell’idea che fermarsi e rallentare rappresenti per l’avversario un’umiliazione ancora peggiore della sconfitta schiacciante. Però in diversi momenti della partita, ieri sera, mi sono ritrovato con uno sguardo interdetto a pensare “basta, vi prego”.

Un’immagine, secondo me, rende più di tutto la situazione. Dopo aver segnato il terzo gol con uno splendido esterno sinistro, Toni Kroos si riposiziona in mezzo al campo. Le telecamere gli stanno ancora addosso e possiamo vedere come, appena dopo il fischio dell’arbitro, parta in pressing verso Luiz Gustavo – che evidentemente stava ancora cercando di assorbire mentalmente diverse cose appena successe. Gli ruba il pallone e va a segnare insieme a Khedira il quarto gol, quanti secondi dopo quello precedente?

Il modo in cui è partito di corsa e ha tolto la palla ai brasiliani è stata una cosa molto vicina a un documentario di National Geographic in cui un predatore sta esercitando in modo spropositato la propria forza su una povera vittima.

Forse sarebbe bastato meno.

 

La narrazione di Fred

C’è un personaggio che nella letteratura contemporanea ha avuto abbastanza fortuna, questo personaggio risponde al nome di Benjamin Malaussène, protagonista di una serie di romanzi del francese Daniel Pennac. Una delle peculiarità di questo personaggio è quella di essere un capro espiatorio, per mestiere proprio, accollarsi gli errori altrui portando il cliente insoddisfatto dall’esasperazione fino alla pietà. Ecco, Fred potrebbe essere Benjamin Malausséne: il brasiliano possiede tutte le caratteristiche fisico-emotive per rispondere al ruolo del “capro espiatorio” e, infatti, ogni cosa non andasse nel Brasile in queste ultime tre settimane pare fosse riconducibile a lui. Di lui avevamo già parlato quie qui, del suo essere in antitesi rispetto al ruolo che svolge, alla maglia che indossa, del suo appartenere ad una dimensione diversa rispetto a quella che ci aspettiamo dal calcio, tanto da creare dei “momenti” che appartengono solo a lui e che lo caratterizzano.

Eppure quando la bolla “Brasile” è esplosa, tra il terzo e il quinto gol della Germania, il povero Fred non ha attraversato la linea tra rabbia e pietà che ha consentito a Malausséne di diventare Letteratura, è rimasto ancorato nella metà campo della rabbia creando intorno alla sua persona un cortocircuito sonoro assurdo abbastanza da rappresentare una partita che finisce 7 a 1.

Il silenzio metafisico di uno stadio ammutolito, morente, veniva squarciato solamente dell’ingresso di Fred nello spazio fisico del pallone o anche solo della telecamera. La rabbia agonica dei brasiliani si ancora nei fischi a Fred. C’è un momento rilevatore a fine partita: i calciatori tentano di consolarsi tra loro, si intravedono i capelli di Luiz, la maglia grigia di Julio Cesar, Muller che è qui, ma potrebbe essere anche altrove, poi, ad un tratto, spunta Fred. Lo fa con dignità, sta girando tra i compagni con l’aria abbattuta di un cane che cerca sguardi d’intesa. Evidentemente le immagini che noi vediamo arrivano dritte anche agli schermi presenti allo stadio, perché, anche questa volta, arrivano i fischi. Probabilmente Fred non lo ha capito neanche, dopotutto lui sta solo cercando conforto da i suoi compagni, eppure questa è l’ultima immagine di Fred calciatore del Brasile, ovvero l’immagine di un “capro espiatorio” che neanche nel fallimento è riuscito ad evolversi, tipo un Gesù Cristo che non è riuscito neanche a morire sulla croce. Alla fine – anche se non è vero – i 7 gol del Brasile li ha presi Fred, uno per uno e lui, scemo, neanche se ne è accorto.

 

Il significato di perdere 7 a 1

Sono un tifoso della Roma e, sebbene ricordi bene il momento in cui Carrick infilava tiri assurdi e io ripetevo a me stesso “sto davvero vivendo quest’incubo”, quella con il Manchester non è stata la più dolorosa sconfitta della mia vita romanista.

La Roma è una squadra dalla storia modesta e perdere di brutto in casa di un Manchester che poteva schierare Ronaldo e Rooney nella stessa squadra, non dico che fa piacere, ma può stare nelle cose. In ogni caso ci ho messo poco ad accettarlo. A differenza di altre partite: tipo quel rigore tirato alto da Tonetto contro l’Arsenal (ogni tanto, nei miei sogni, cerco ancora di aggiustare quella traiettoria); il pareggio al novantesimo di Javier Zanetti in un Inter-Roma che ci fece perdere un campionato che meritavamo ampiamente; il momento in cui quell’ammasso di feci di Paolo Di Canio segnò e venne ad esultare sotto la sud; un’eliminazione incredibile ai quarti di Coppa Uefa contro la Slavia Praga. Nel ’96, tipo. Sono questi i dolori e i traumi che mi porto dentro, non i sette gol presi dal Manchester United.

Questo per dire che il dolore nel calcio non c’entra con l’aritmetica, un altro gol preso in una goleada fa male come una scheggia di legno sotto le unghie, ma non peggiora in modo consistente il trauma di base.

Ovviamente questa è un’opinione molto personale, e, soprattutto, a giudicare dai disordini in strada di ieri, molto distante da come la vedono i brasiliani.

Il problema dei brasiliani è che hanno un rapporto veramente morboso e perverso col calcio (qui c’è una strana dimostrazione).

Qualche anno fa la Nike fece imprimere sulla maglia del Brasile la scritta “nato per giocare”, perché per i brasiliani è davvero così: sono fatti per ballare e giocare a calcio e visto che sono nati per quello, non possono che essere i migliori nel farlo.

Per un brasiliano, in nessun frangente e in nessun momento storico, può esistere una squadra migliore del Brasile. Non esistono questioni tipo “questa generazione non è buona”, “il centrocampo manca di veri fuoriclasse”, “Siamo deboli sugli esterni”. Il Brasile è semplicemente il paese in cui si gioca meglio al calcio perché Dio l’ha voluto e ci possono essere pochi dubbi a riguardo.

Quindi, se si perde, la cosa non è solamente inaccettabile, è del tutto incomprensibile. Una sorta di distorsione dell’ordine cosmico: è tipo vedersi il cielo precipitare sulla testa.

Vivo a Bologna e ieri sull’autobus, poco prima della partita, mi è capitato di vedere dei brasiliani che stavano già festeggiando la vittoria. In quel momento mi sono tornati in mente i vari aneddoti sul Maracanazo: le 500mila magliette con la scritta Brasil campeão 1950, la foto sul giornale della squadra sovrastata dalla scritta Estes são os campeões do mundo.

Anche stavolta non è cambiato granché: i brasiliani avevano pochi dubbi sul fatto che avrebbero vinto il campionato del mondo e ancora una volta tutto si è fottuto.

Non riesco a immaginare cosa si provi a sentirsi ingannati da Dio in persona.

Di Emanuele Atturo e Marco D’Ottavi

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Crampi Sintetici è una rubrica di Crampi Sportivi è una rivista online di approfondimento sportivo nata con l’intento di portare Zinedine Zidane e Dennis Rodman al cena dal professor Heidegger.

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